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Lunedì 11 Gennaio 2010 ore 15:00
Seduta di assemblea numero 263 della XVI legislatura
Resoconto stenografico
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Seduta di assemblea numero 263 della XVI legislatura del 11/01/2010
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- Lettura Verbale
- Missioni
- Disegno di legge di conversione (Annunzio della presentazione e assegnazione a Commissioni in sede referente)
- Sull'ordine dei lavori
- Disegno di legge di ratifica: Accordo di Sede con il Network internazionale di Centri per l'Astrofisica Relativistica in Pescara - ICRANET (A.C. 2815-A) (Discussione)
- Ratifica ed esecuzione dell'Accordo di Sede tra il Governo della Repubblica italiana e il Network internazionale di Centri per l'Astrofisica Relativistica in Pescara - ICRANET, fatto a Roma il 14 gennaio 2008. (2815-A)
- Mozioni Bernardini ed altri n. 1-00288 e Vietti ed altri n. 1-00240: Situazione del sistema carcerario italiano (Discussione)
- Mozione Ghiglia ed altri n. 1-00269: Iniziative per la riduzione delle emissioni di gas-serra, con particolare riferimento allo sviluppo delle reti di ricarica dei veicoli elettrici sul territorio nazionale (Discussione)
- Mozioni Iannaccone ed altri n. 1-00265 e D'Antoni ed altri n. 1-00300: Iniziative per favorire l'occupazione nel Mezzogiorno (Discussione)
- Ordine del giorno della seduta di domani
, legge il processo verbale della seduta del 9 dicembre 2009.
. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Angelino Alfano, Berlusconi, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Buonfiglio, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Cosentino, Cossiga, Cota, Craxi, Crimi, Crosetto, Fitto, Franceschini, Frattini, Gelmini, Gibelli, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Giro, La Russa, Mantovano, Maroni, Martini, Mazzocchi, Meloni, Menia, Miccichè, Leoluca Orlando, Prestigiacomo, Roccella, Romani, Ronchi, Rotondi, Saglia, Stefani, Tremonti, Urso e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna. Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell' al resoconto della seduta odierna. Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell' al resoconto della seduta odierna.
. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha presentato alla Presidenza, con lettera in data 7 gennaio 2010, il seguente disegno di legge, che è stato assegnato, ai sensi dell'articolo 96-, comma 1, del Regolamento, in sede referente, alle Commissioni riunite III (Affari esteri) e IV (Difesa): «Conversione in legge del decreto-legge 1o gennaio 2010, n. 1, recante disposizioni urgenti per la proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia e disposizioni urgenti per l'attivazione del Servizio europeo per l'azione esterna e per l'amministrazione della difesa» (3097) - ex bis, ex bis, ex bis, .
. Chiedo di parlare.
. Ne ha facoltà, il suo è il primo intervento dell'anno.
. Non volevo deluderla, signor Presidente. Chiedo la parola molto rapidamente, semplicemente per dirle che noi siamo lieti del fatto che, in ragione della nostra richiesta avanzata la settimana scorsa, il Governo abbia deciso di venire (se non erro, mercoledì) a riferire su quanto è accaduto a Reggio Calabria in relazione alla bomba collocata presso il tribunale. In quella regione sta accadendo qualche cosa di grave, che in questi giorni è sotto gli occhi di tutti e che entra nelle case di tutti attraverso le immagini. A prescindere dalle valutazioni che si possono fare sulle responsabilità ed anche sul modo di affrontare queste vicende, credo che sia necessario ed indispensabile non solo per noi all'interno del Parlamento e di questa Camera in particolare, ma anche per dare una risposta a quelle immagini che - ripeto - entrano prepotentemente e violentemente nelle case di tutti gli italiani, che il Ministro dell'interno, ovvero un altro rappresentante del Governo, in ragione delle sue competenze, venga in Aula - non so come ciò sia possibile e con quali tempi, ma spero che siano tempi molto rapidi - a riferire su quanto sta accadendo, consentendo così a ciascun gruppo di esprimere nella sede propria, che non è questa, le proprie valutazioni e di conoscere anche quale sia la strategia che si è adottata e che si intende adottare, atteso che quanto sta accadendo a Rosarno - ed ovviamente ci auguriamo che questo non sia - è preoccupante e vogliamo comprendere se viene tenuto sotto controllo anche nei suoi possibili sviluppi, che non si limitano esclusivamente alla località in questione. Signor Presidente, a prescindere - ripeto - da qualunque valutazione politica, le chiedo di farsi cortesemente da tramite, attraverso la Presidenza della Camera, con il Governo affinché sia possibile che in questo senso si giunga rapidamente ad una informativa anche su questo argomento. La ringrazio .
. Grazie a lei, onorevole Giachetti. Credo che la preoccupazione per quanto è accaduto a Rosarno sia comune a tutti parlamentari. Il Governo si presenterà domani al Senato per riferire, ma è opportuno che si presenti anche alla Camera, e mi farò tramite, per i canali opportuni, della richiesta da lei presentata.
. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo di Sede tra il Governo della Repubblica italiana e il Network internazionale di Centri per l'Astrofisica Relativistica in Pescara - ICRANET, fatto a Roma il 14 gennaio 2008. Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi di tale disegno di legge è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea .
. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali. Avverto che la III Commissione (Affari esteri) si intende autorizzata a riferire oralmente. Il relatore, onorevole Narducci, ha facoltà di svolgere la relazione.
, . Signor Presidente, signor sottosegretario onorevoli colleghi, l'Italia ha aderito, il 18 marzo 2003, all'Accordo istitutivo del Network internazionale di centri di ricerca nel campo dell'astrofisica relativistica (ICRANET), sorto originariamente nel 1985 per iniziativa dei premi Nobel per la fisica Riccardo Giacconi ed Abdus Salam, e finalizzato alla promozione della cooperazione scientifica internazionale ed all'effettuazione di ricerche nel campo dell'astrofisica relativistica. Oltre all'Italia, aderiscono all'Intesa, l'Armenia, il Brasile e lo Stato della Città del Vaticano, tutti Stati caratterizzati da centri di osservazione astrofisica riconosciuti a livello mondiale, nonché alcune università americane. L'ICRANET è retto da un comitato di direzione composto da due rappresentati del Ministero degli affari esteri, da uno del Ministero dell'economia e delle finanze, da un rappresentate per ogni università o centro di ricerca associato, da un rappresentante per la Specola Vaticana e da uno del Centro internazionale per l'astrofisica relativistica, operante presso l'Università «La Sapienza» di Roma. L'Accordo istitutivo, ratificato con la legge 10 febbraio 2005, n. 31, oltre a qualificare l'ICRANET come organizzazione internazionale indipendente, dispone che la sede del Network sia a Pescara. Attualmente il Network è finanziato da un contributo obbligatorio annuo di 1.550.330 euro, stanziato inizialmente dalla legge n. 31 del 2005, erogato dal Ministero degli affari esteri. L'Accordo in esame è finalizzato ad integrare tale cornice normativa, assicurando una serie di agevolazioni, già concesse dall'Italia, quale ad altri organismi delle Nazioni Unite che hanno sede nel nostro Paese, ad un'istituzione scientifica internazionalmente riconosciuta come struttura di eccellenza. Venendo sinteticamente ai contenuti dell'articolato: all'articolo 2, il Governo italiano riconosce la personalità giuridica e la capacità di agire all'ICRANET. È rilevante l'articolo 3, in base al quale il Governo italiano prende atto che il comune di Pescara porrà a disposizione di ICRANET, in via gratuita, il complesso sito in piazza della Repubblica n. 10, individuato da una Convenzione intervenuta il 29 novembre 2005, allegata all'Accordo di Sede. In base a questa Convenzione, che attua l'articolo 2 dell'Accordo istitutivo, la città adriatica ha reso disponibile, a titolo di comodato gratuito, una sede di circa 1.200 metri quadrati, interamente ristrutturata e munita delle più avanzate tecnologie multimediali. Le spese di manutenzione straordinaria della sede sono a carico del comune, mentre quelle per la manutenzione ordinaria sono sostenute dal Network unitamente a quelli dei servizi di comunicazione e di pubblica utilità. L'articolo 4 prevede l'inviolabilità dei locali, degli edifici, dei terreni e degli archivi utilizzati dall'organismo. Il direttore dell'ICRANET si impegna a evitare che i locali possano essere utilizzati come rifugio per persone intenzionate a sottrarsi all'arresto o ricercate ai fini dell'estradizione in un altro Paese. L'articolo 5 prevede che i beni e gli averi dell'organismo destinati al perseguimento dei fini istituzionali siano immuni dal procedimento legale e dalle misure esecutive, amministrative o giudiziarie; l'immunità dalla giurisdizione e dalla relativa esecuzione non viene riconosciuta in relazione a danni causati da veicoli, imbarcazioni o aeroplani di proprietà, ovvero utilizzati dall'ICRANET, nonché in relazione a violazioni del codice stradale, nautico o aeronautico come pure per la stipula dei contratti di diritto privato. Vorrei segnalare, signor Presidente, l'articolo 3 del disegno di ratifica, al comma 1: per l'attuazione della legge è autorizzata la spesa di 440 mila euro all'anno a decorrere dal 2010, e si dispone che l'onere sia coperto mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 3, comma 1, della legge 4 giugno 1997, n. 170. Segnalo che nel corso dell'esame in III Commissione è stato approvato un emendamento all'articolo 3 del disegno di legge in esame, in recepimento della condizione formulata nel parere favorevole espresso dalla V Commissione al fine di riformulare l'autorizzazione di spesa in termini di previsione, considerata la natura degli interventi derivanti dall'attuazione del provvedimento che reca misure di agevolazione fiscale per il personale addetto all'ICRANET. Segnalo altresì che, in merito alla clausola di salvaguardia, di cui al comma 2 dello stesso articolo 3, il 1o gennaio scorso sono entrate in vigore le nuove norme interne di contabilità e finanza pubblica di cui alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, che ha peraltro abrogato la legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni. Nel fare presente che il testo del disegno di legge in esame è stato licenziato dalla Commissione affari esteri il 16 dicembre scorso, dunque in data antecedente alla pubblicazione della legge n. 196 del 2009, la clausola di salvaguardia di cui al comma 2 dell'articolo 3 del disegno di legge non appare conforme ai requisiti previsti dalle nuove norme, in particolare dal comma 12 dell'articolo 17 della legge n. 196 del 2009. Attesa la particolare delicatezza della questione, che esula dal mero aggiornamento del riferimento normativo e attiene ad aspetti di merito inerenti l'attuazione della nuova disciplina, si rinvia al parere che la Commissione bilancio esprimerà all'Assemblea a tal proposito. In generale - mi avvio a concludere - ritengo che la presenza di un centro di eccellenza come quello in parola possa essere catalizzatore di sviluppo per l'intera area centro-adriatica del nostro Paese, contribuendo a far conoscere le potenzialità dei nostri territori anche dal punto di vista culturale e paesaggistico. Quindi non solo - e aggiungo finalmente - contribuiamo allo sviluppo di un settore strategico quale è quello della ricerca, ma sicuramente possiamo avere positive ricadute in termini di sviluppo tecnologico e turistico. Ricordando che gli oneri connessi - come dicevo dianzi - all'attuazione del provvedimento sono correlati esclusivamente alle disposizioni dell'articolo 11 dell'Accordo, per un impatto in termini di minore gettito per l'erario di 440 mila euro annui, bisognerebbe fare molto di più per assicurare continuità di vita alle linee di ricerca e mettere in rete anche quella grande risorsa sparsa per il mondo che sono i ricercatori italiani all'estero. Alla luce di quanto esposto auspico una considerazione favorevole da parte dell'Assemblea sul provvedimento in esame.
. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
, Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.
. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, intervengo per illustrare alcune riflessioni del gruppo Italia dei Valori in merito alla ratifica dell'Accordo di Sede tra l'Italia ed il Network internazionale di Centri per l'Astrofisica Relativistica. A parer nostro ma non solo, all'unanimità - credo - dei gruppi rappresentati in questo Parlamento, tale Accordo è un passo importante per la ricerca mondiale, anche in considerazione della natura stessa dell'ICRANET, un'organizzazione internazionale finalizzata alla promozione della cooperazione scientifica in campo internazionale nell'ambito dell'astrofisica relativistica e che è nata da comuni intenti ed esigenze tra i vari Paesi, con la quale il nostro Paese ha intrattenuto collaborazioni a carattere scientifico e alla quale l'Italia ha aderito nel 2003. Detto Accordo è stato poi ratificato nel 2005 e ha stabilito anche la sede dell'organizzazione, Pescara, della quale parlerò più avanti. L'Accordo in esame, che si compone di 16 articoli, è stato firmato a Roma nel 2008 e, oltre al nostro Paese, vi hanno aderito l'Armenia, il Brasile, lo Stato della Città del Vaticano: tutti Stati dotati di importanti centri di osservazione astrofisica riconosciuti a livello mondiale. Come possiamo capire, dunque, rientriamo in un contesto di eccellenza. L'articolo 2 dell'Accordo riconosce all'ICRANET la personalità giuridica che consente al direttore dell'organismo di stipulare contratti, di acquistare e alienare beni mobili e immobili e di stare in giudizio. Mentre, come espressamente indicato dall'articolo 3 dell'Accordo, ritengo particolarmente significativa la messa a disposizione in via gratuita, tramite il comune di Pescara, di idonei locali con le relative attrezzature per consentire lo svolgimento delle attività scientifiche. Per esse verrà infatti resa disponibile una sede che ritengo non sia fittizia: 1.200 metri quadrati rappresentano, per un comune abruzzese, una disponibilità di grandissima rilevanza per qualità, quantità e per logistica. Si tratta, inoltre, di una sede interamente ristrutturata e ubicata in piazza della Repubblica, quindi in una zona centrale della città di Pescara, e verranno finanziate le spese di manutenzione straordinaria mentre all'ICRANET competeranno i costi per la manutenzione ordinaria, come si diceva prima, nonché dei servizi di comunicazione e di pubblica utilità. È prevista inoltre l'iscrizione in bilancio di un euro annuo quale onere figurativo per l'utilizzo dei suddetti locali. Il comodato d'uso gratuito dei locali dell'ICRANET sarà assicurato dal comune di Pescara evidentemente finché l'accordo sarà in vigore. Non si può che rilevare l'aspetto positivo che la presenza di un centro di tale levatura internazionale potrà avere in termini di sviluppo per l'intera area anche da un punto di vista culturale e di interesse turistico. Vorrei anche aggiungere che l'Italia dei Valori ritiene assolutamente importante che si giunga alla celere approvazione nei due rami del Parlamento di questo provvedimento perché rimette in campo non solo e non tanto il comune di Pescara e la regione Abruzzo, che ne guadagnano sicuramente in termini di immagine, ma ripropone l'Italia centrale come elemento importante all'interno di un ragionamento della comunità scientifica che ci ha visto spesso soccombere non solo e non tanto come Italia, ma soprattutto come centro-sud. Ritengo, in conclusione, che vi sia grande soddisfazione da parte del gruppo dell'Italia dei Valori, se vi sarà celerità nell'approvazione da parte dei due rami del Parlamento, per la qualità e la bontà degli interventi messi in campo. Infatti, vi è da segnalare un aspetto importante: in questo provvedimento sono stanziate risorse vere. Quando prima si parlava di un atteggiamento di disponibilità, ci si riferiva al fatto che laddove inizialmente erano previsti soltanto 220 mila euro le risorse sono state raddoppiate e portate a 440 mila: vi è una disponibilità e una consistenza importante che a mio avviso rappresenta soltanto il primo passo di un percorso da scrivere insieme, che ha bisogno di tanti cervelli ma anche di tante risorse. A proposito di questo aspetto, vorrei sottolineare che l'elemento di eccellenza che viene posto in Abruzzo rappresenta un momento di grande rilevanza, che tuttavia non deve far sottacere la fuga di tanti nostri cervelli che, a partire da questa struttura, devono trovare capienza all'interno della comunità scientifica nazionale e internazionale, e che deve vedere sicuramente protagonista il Governo affinché dia opportunità creando percorsi e opzioni importanti affinché molti dei nostri giovani possano utilizzare, a partire da questa nostra presenza, le loro intelligenze per la soddisfazione degli interessi della nostra comunità. Concludo dicendo che, alla stesura dell'importante atto di collaborazione il 29 novembre 2005, le Parti hanno concordato alcuni aspetti importanti, tra i quali vorrei sottolineare il fatto che nella relazione controfirmata dalle parti, da ICRANET e dal comune di Pescara che ebbe una grandissima intuizione a quel tempo, si dice che l'ubicazione del centro nella città di Pescara non solo per l'Abruzzo, ma per tutto il centro-sud d'Italia, avrà senz'altro notevoli riflessi per la città, per l'Abruzzo, per l'Italia nonché per lo sviluppo scientifico e culturale a livello internazionale. Questo è stato scritto e sottoscritto dalle parti in campo. Oggi vorrei vedere il Governo onorare questo atto, che non è solo un atto formale, perché rappresenta la ripresa di un interesse forte ed importante ed un riagganciarci alla comunità internazionale, che spesso ci ha preceduto e dalla quale siamo stati abbandonanti, ma alla quale non abbiamo mai teso la mano. Evidentemente, forse, a partire da Pescara e dall'Abruzzo, così martoriato negli ultimi tempi, può venire una risposta forte ed importante per interessi scientifici, ma anche e soprattutto per i nostri ricercatori, che stanno aspettando qualche risposta importante. Questa è l'occasione giusta e adatta per mettere finalmente in campo opzioni serie e concrete .
. È iscritto a parlare l'onorevole Porta. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi e signor sottosegretario, impiego alcuni minuti per esporre le considerazioni del gruppo del Partito Democratico sull'Accordo in esame istitutivo del Network internazionale di centri di ricerca nel campo dell'astrofisica relativistica ICRANET che, come è stato detto dal relatore, è finalizzato alla promozione della cooperazione scientifica internazionale ed all'effettuazione di ricerche nel campo nell'astrofisica relativistica. È un'intesa alla quale aderiscono, oltre al nostro Paese, anche il Brasile (mi fa piacere sottolinearlo come parlamentare eletto in Sudamerica e residente a San Paolo del Brasile, quindi avendo anche accompagnato direttamente l'evoluzione scientifica ai livelli alti raggiunti dall'università di questo Paese), l'Armenia e lo Stato della Città del Vaticano. L'ICRANET sarà retto da un comitato di direzione del quale faranno parte i rappresentanti del Ministero degli affari esteri e del Ministero dell'economia e delle finanze, del Vaticano e dell'università La Sapienza di Roma. L'Accordo, che è stato ratificato con legge n. 31 del 10 febbraio 2005, oltre a qualificare l'ICRANET come organizzazione internazionale indipendente, dispone che la sede sia a Pescara. Attualmente questo Network è finanziato da un contributo obbligatorio annuo di 1.550.330 euro, posto inizialmente dalla legge n. 31 del 2005, erogato dal Ministero degli affari esteri. Tale Accordo così integra e completa questa cornice normativa, assicurando fra l'altro altre agevolazioni, che sono già previste peraltro per organismi delle Nazioni Unite presenti in Italia, come il BIT di Torino o la FAO qui a Roma. Vari articoli sono stati trattati dal relatore. Mi permetto adesso di svolgere alcune considerazioni sul finanziamento della legge e sull'importanza della legge di ratifica. Il disegno di legge di ratifica consta di tre articoli. Per l'attuazione della legge è prevista una spesa di 440.000 euro l'anno a decorrere dal 2010, disponendo che questo onere sia coperto mediante riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 3, comma 1, della legge n. 170 del 4 giugno 1997, riguardante la ratifica e l'esecuzione della convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta contro la desertificazione nei Paesi gravemente colpiti dalla siccità e dalla desertificazione, in particolare in Africa (accordo fatto a Parigi il 14 ottobre del 1994). Da un lato, mi preme sottolineare come sia importante, oltre alla sede del Network (che sarà qui in Italia a Pescara), continuare ad investire sulla ricerca anche pura - come in questo caso - e non applicata, cioè non direttamente traducibile in nuovi prodotti industriali. Sottolineo come questo tipo di investimento sia sempre un fattore importante di sviluppo e di crescita del patrimonio di conoscenze di un Paese; significa altresì investire su risorse umane qualificate, su strutture accademiche all'avanguardia, destinando agli insediamenti di qualità nei nostri territori un'attenzione importante. Significa anche evitare quella fuga dei cervelli all'estero, della quale ha appena parlato il relatore, e anche non abbandonare campi e settori di ricerca meno assistiti dagli investimenti privati che, tuttavia, nella storia della ricerca scientifica italiana ed europea hanno sempre segnato livelli di grande specializzazione. A tal riguardo basti pensare alle ricerche del CERN di Ginevra, dove ci si sta sforzando di indagare l'origine dell'universo attraverso il noto esperimento del superacceleratore. Mi permetto, tuttavia, di segnalare come la scarsezza delle risorse economiche destinate dal Ministero degli affari esteri - e più in generale dal Governo, che continua a rallentare la ratifica di importanti Accordi bilaterali di sicurezza sociale - alle ratifiche internazionali, ci costringa a coprire i costi di questo disegno di legge distraendo i fondi destinati alla lotta contro la desertificazione nei Paesi africani, una finalità certo non secondaria specialmente quando si pone mente al fatto che proprio i cambiamenti climatici sono considerati, in futuro, all'origine di drammatiche crisi umanitarie di migrazioni sempre più consistenti da regioni divenute sempre più inospitali. Quella dell'insufficienza delle risorse per il Ministero degli affari esteri è una questione denunciata più volte dal Partito Democratico in sede di esame della legge finanziaria. Anche nel corso dell'ultima legge di bilancio abbiamo insistito sull'inadeguatezza di queste risorse assegnate all'azione di politica estera, specialmente se si confronta tanto l'impatto contenutissimo delle spese della Farnesina sul complesso del bilancio statale - appena lo 0,4 per cento - ma anche rispetto a quanto i nostri europei destinano ad analoghe finalità. A questo riguardo, basti pensare ai drastici tagli alla cooperazione e allo sviluppo o alle politiche per le nostre comunità residenti all'estero, che sono due esempi evidenti di questa situazione che anche in quest'Aula abbiamo più volte denunciato. Pertanto, insisto - e mi avvio a terminare - chiedendo al Governo la possibilità di rifinanziare al più presto, nell'ambito delle consentite manovre di assestamento del bilancio, la legge n. 170 del 1997, al fine di non ridurre il contributo dell'Italia alla lotta alla desertificazione. Al contempo, confermo il nostro giudizio positivo e favorevole sulla ratifica di questo importante provvedimento.
. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Narducci.
, . Signor Presidente, rinuncio alla replica e mi riservo di intervenire successivamente.
. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
, . Signor Presidente, vorrei ringraziare il relatore, che ha fornito un quadro molto chiaro dei contenuti dell'Accordo, e gli onorevoli che sono intervenuti per sottolineare l'importanza dell'Accordo stesso, che rappresenta un traguardo utile per il prestigio e l'immagine internazionale del nostro Paese e della sua comunità scientifica. Il nostro Paese è chiamato ad ospitare un nuovo centro scientifico internazionale di eccellenza, impegnato nello svolgimento di attività di ricerca e di sviluppo scientifico e tecnologico, in un settore in cui anche l'industria italiana - vorrei sottolinearlo - è presente al più alto livello. Si tratta di una ricerca non applicata, ma sempre estremamente utile per le ricadute che essa fornisce alla ricerca applicata.
. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Bernardini ed altri n. 1-00288 e Vietti ed altri n. 1-00240 concernenti la situazione del sistema carcerario italiano . Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea . Avverto che sono state presentate le mozioni Di Stanislao ed altri n. 1-00301, Franceschini ed altri n.1-00302 e Vitali ed altri n.1-00309 () che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione. Avverto altresì che la mozione Vietti ed altri n. 1-00240 è stata riformulata dai presentatori. Il relativo testo è in distribuzione.
. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni. È iscritta a parlare l'onorevole Bernardini, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00288. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, mi rivolgo anche ai colleghi deputati e al signor rappresentante del Governo. Avendo a disposizione dieci minuti, voglio concentrare il mio intervento sulle parti più ostiche ma, secondo me, molto importanti della mozione che ho depositato assieme alle firme di altri 92 deputati appartenenti a diversi gruppi parlamentari presenti in quest'Aula. Il primo punto che voglio affrontare è quello dell'amnistia, una parola divenuta impronunciabile in questo nostro Paese, e l'altro tema a cui tengo molto è quello che riguarda il 41-. Per il resto, rimando alla lettura responsabile da parte di ogni deputato del testo della mozione presentata. Credo che noi dobbiamo dirci che l'illegalità delle carceri italiane è solo la parte terminale, direi forse la più straziante per chi le ha visitate e per chi ha contattato cella per cella i detenuti e le detenute italiane, di un apparato giudiziario che da decenni (da questo punto di vista devo dire che non possiamo affermare che ci sono Governi più colpevoli di altri) è incapace di produrre giustizia, tanto che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato infinite volte l'Italia. Voglio rifarmi alle parole pronunciate in quest'Aula quasi un anno fa, ossia il 27 gennaio del 2009, proprio dal Ministro della giustizia Angelino Alfano, il quale ha detto: «quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all'attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti». Ha parlato poi di 5 milioni e mezzo di procedimenti (con i procedimenti pendenti nei confronti di ignoti) ed ha aggiunto: «il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente senza riuscire neppure ad eliminare un numero pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema». Dunque, secondo i dati ufficiali, in Italia l'arretrato pendente sfiora la cifra iperbolica di 5 milioni e mezzo di procedimenti penali che sarebbero molti di più se solo negli ultimi dieci anni non si fossero contate ben due milioni di prescrizioni. È stato il Ministero della giustizia a fornirci questi dati: circa 200 mila procedimenti penali prescritti ogni anno. Credo che occorra essere consapevoli che, in un contesto del genere, i concetti di pena certa e di esecuzione reale della stessa rischiano di risultare fortemente limitativi, se non del tutto fuorvianti. In questo quadro e per queste ragioni - contro l'amnistia che già esiste, ma della quale nessuno parla, anonima, banale, di classe ed illegale chiamata prescrizione - solo un ampio e definitivo provvedimento di amnistia e di indulto potrebbe consentire, da un lato, una sensibile riduzione della popolazione carceraria entro i limiti di una capienza regolamentare e, dall'altro, l'eliminazione di più della metà dei procedimenti penali pendenti. Ciò darebbe il via e sarebbe la spinta per quelle riforme strutturali del sistema giudiziario e penitenziario senza le quali appaiono seriamente a rischio gli stessi diritti civili e della persona previsti dalla nostra Costituzione. Ricordo che su questo c'era stato anche un impegno del Governo a presentare in tempi brevi un'ampia e strutturale riforma della giustizia. Ricordo anche che è passato un anno e che ciò che abbiamo visto fino a questo momento, ovvero i progetti presentati, non rientra certo in questa categoria. Le cifre non ve le dirò oggi, perché il tempo è quello che è, ma sono le cifre che, grazie alle iniziative dei parlamentari che sono entrati nelle carceri a Ferragosto (e non solo: anche a Natale, Capodanno e durante tutto l'anno), sono state pubblicate sui giornali. Sono le cifre di uno strazio e di un dolore continuo purtroppo ben rappresentato dall'immagine di Stefano Cucchi o di Aldo Bianzino. Si tratta di immagini di persone arrestate e affidate nelle mani dello Stato e che sono state ridotte come le abbiamo viste, in particolare per Stefano Cucchi, dalle immagini che per la volontà di una famiglia seria e responsabile sono state trasmesse a tutti. Quindi, non possiamo dire di non sapere. Noi tutti in quest'Aula - ci ascoltano dalle carceri - sappiamo quale è questa realtà. È la realtà delle oltre 160 morti del 2009 e dei 72 suicidi. Questa è la realtà. Veniamo al 41-, che è l'altro argomento scomodo del quale non si può parlare. Anche in questo caso mi rifaccio alle parole del Ministro della giustizia, quando ha detto che il 41- è una norma che si colloca ai limiti del disegno costituzionale, essendo uno strumento volto alla neutralizzazione del detenuto, all'interruzione di ogni contatto della persona con l'esterno. Si tratta di un disegno che contrasta palesemente con le finalità rieducative previste dalla Costituzione, atteso che la nostra Carta fondamentale non configura la reclusione come un ulteriore incentivo alla desocializzazione del soggetto. Abbiamo avuto diversi richiami da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha citato l'articolo 3 di questa Convenzione. Sia la Corte costituzionale che la Corte europea hanno più volte a più riprese invitato il legislatore a umanizzare il carcere duro, in modo da renderlo coerente con i principi dell'ordinamento italiano e di quello comunitario. Questo è quello che chiediamo con la nostra mozione alla vostra attenzione. Dobbiamo dirci con franchezza anche un'altra cosa. A guardare la situazione delle carceri italiane, noi ci troviamo di fronte ad uno Stato che, ripeto, non da oggi, ma da decenni (potremo parlare del sessantennio partitocratrico) si comporta effettivamente da criminale. Non solo, ma è recidivo, proprio perché questi comportamenti si sono ripetuti nel tempo. Credo che dobbiamo attivarci e questa può essere la Camera che vara d'urgenza i provvedimenti necessari, perché non è più sopportabile tutto questo. Dobbiamo impegnarci perché gli articoli 27 e 13 della Costituzione tornino a vivere, così come l'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo che recita: «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o a trattamenti inumani e degradanti» .
. È iscritto a parlare l'onorevole Rao, che illustrerà la mozione Vietti ed altri n. 1-00240 di cui è cofirmatario.
. Signor Presidente, per quanto poco partecipato in termini assoluti e quantitativi (non certo in termini di qualità, visto che in Aula ci sono sicuramente molti colleghi esperti del settore giustizia), il dibattito di oggi vede il Parlamento impegnato su una materia che esprime il grado di civiltà e di umanità di una nazione, lo abbiamo detto tante volte e lo ribadiamo oggi, è un dato condiviso anche dal Ministro Alfano, oggi rappresentato dal sottosegretario Caliendo. Ci auguriamo che alla fine sulle diverse mozioni presentate dai gruppi parlamentari si possano registrare ampie convergenze, a testimonianza che su questo tema Governo, maggioranza e opposizioni vogliono davvero lavorare senza pregiudizi. Anche il Presidente della Repubblica, nel suo messaggio alla nazione del 31 dicembre scorso, ha voluto richiamare il Paese intero alle riforme e ad un'azione incisiva su alcuni punti. In particolare ha voluto espressamente citare anche la condizione che riguarda le carceri: «È necessario - ha detto il Capo dello Stato - essere vicini a tutte le realtà in cui si soffre, anche perché ci si sente privati di diritti elementari; penso ai detenuti in carceri terribilmente sovraffollate nelle quali non si vive decentemente, si è esposti ad abusi e a rischi, e di certo non ci si rieduca». Il Presidente Napolitano con sintetiche e chiare parole ha messo a fuoco i due punti cruciali di quella che è stata definita a ragione l'emergenza carceri: il sovraffollamento e la rieducazione. Il carcere non è, in uno Stato di diritto, solo il luogo per mettere i condannati nella condizione di non nuocere alla comunità, ma anche - soprattutto, direi io, in un Paese civile - il luogo della rieducazione della persona. È chiaro a tutti come, nell'attuale situazione in cui versano gli istituti penitenziari italiani, oggi, questo non avvenga, o meglio non possa avvenire. Non certo per colpa del personale della polizia penitenziaria, degli educatori e degli psicologi che svolgono un lavoro straordinario, nelle condizioni date, al limite del sacrificio personale. Quest'estate su una meritoria sollecitazione dei colleghi radicali molti di noi hanno preso visione direttamente per la prima volta (io avevo avuto occasione in passato durante la Presidenza Casini di far visita ben cinque volte a istituti penitenziari di Roma e di Milano) della situazione in cui versano molte carceri italiane, aderendo all'iniziativa «ferragosto in carcere», in carcere con chi vi è recluso, con chi vi lavora e con i tanti volontari che vi operano. Personalmente ho visitato l'Istituto del Buon Cammino di Cagliari ed è stata un'esperienza che mi ha trasmesso una corale richiesta soprattutto di dignità, cosa che raramente capita di vivere. Ho toccato, come tanti colleghi, la disperazione dei detenuti che vivono in una situazione di sovraffollamento inumano, con una forte limitazione degli spazi, nonostante le molte e diverse patologie che in diversi casi si trovano ad affrontare. Vi è inoltre una reale difficoltà per l'incontro con i parenti, per non parlare dei bambini in carcere. Ne ho incontrato uno nell'ultima visita, il cui sguardo dietro le sbarre difficilmente potrò dimenticare. Mi ricordo anche i tanti volti dei bambini del reparto femminile di Rebibbia che solo recentemente hanno avuto, grazie allo sforzo di molte associazioni di volontariato, una nuova ludoteca, una ludoteca dietro le sbarre. Colleghi, una cosa è certa, i bambini sicuramente non hanno nessuna colpa. Occorre seriamente riflettere: nei sedici asili nido funzionanti - lo sa bene il sottosegretario Caliendo - stanno crescendo 80 bambini sotto i tre anni di età, figli di detenute, mentre circa una trentina di donne sta trascorrendo i mesi di gravidanza in cella. È una situazione che, come ha dimostrato uno studio condotto nel 2008 nell'asilo nido del carcere di Rebibbia, può avere gravi conseguenze sul nascituro, colpevole - lo ripeto - soltanto di essere figlio di una reclusa. Abbiamo constatato il disagio e le difficoltà del personale di vigilanza e di educazione che distribuisce larghe dosi di umanità e professionalità, ma è anche fortemente stressato dalla carenza di organico, dalla mancanza di fondi derivanti dai tagli lineari del Ministro dell'economia che, anche in questo caso, purtroppo, ha abdicato a quella valutazione tutta politica delle vere emergenze e delle priorità di un Paese. Carenza di risorse che si ripercuote sull'impossibilità del del personale, sull'esigenza di fare economie su ogni cosa, persino, come abbiamo notato, sui cani per i controlli antidroga nelle carceri, nelle celle e anche in occasione dei colloqui. Una situazione forse meno intollerabile, se così si può dire, è quella che ho visto nel carcere di Cagliari, ma che davvero ha lasciato profondi segni nella coscienza di chi sente di essere quasi inadeguato a quella missione che ci hanno assegnato il personale e i detenuti: cambiare, e presto, questo stato di cose. Il dato macroscopico più eclatante, da affrontare con urgenza, riguarda quel 50 per cento di detenuti in custodia cautelare, ovvero ancora in attesa di sentenza di condanna definitiva. Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza di civiltà. La condizione di reclusi nella quale si trovano tante persone ancora in attesa di giudizio colpisce violentemente chi, da legislatore, si sforza ogni giorno di richiamare l'attenzione dell'Esecutivo e della maggioranza non sulle mille questioni settoriali della riforma del processo, ma sulla celerità del nostro sistema giudiziario. Se c'è un dato di fondo, infatti, che emerge chiaro anche da queste nostre visite, e sul quale ci siamo confrontati anche molto costruttivamente con i colleghi della maggioranza e dell'opposizione, è che una giustizia lenta, il più delle volte, è una giustizia negata. È ciò che ripete spesso anche il Ministro Alfano, ma per far questo non basta il processo breve che, come è stato scritto, è più che altro un'amnistia mascherata, piuttosto che una vera e propria seria riforma. Servono anche qui più risorse ed una nuova geografia dei tribunali, altrimenti si casserebbero soltanto dalla mattina alla sera centinaia, o forse decine di migliaia di processi: anche questa, colleghi sarebbe una giustizia negata, stavolta, però, per le vittime dei reati. Non è questa la strada. Chi di noi colleghi ha partecipato all'esperienza di quest'estate porta nelle sue parole le immagini e i volti delle persone detenute che ci chiedono di fare presto e bene buone leggi per risolvere anche gli annosi conflitti fra Ministeri diversi. Pensiamo alla vicenda del personale medico-educativo, degli psicologi penitenziari vincitori di concorso - lo sa bene il sottosegretario - che da anni aspettano di essere assunti e sono «rimpallati» tra il Ministero del e l'amministrazione penitenziaria, per non parlare dello scaricabarile, perfino sul pagamento dei farmaci per i detenuti nelle regioni a statuto speciale, soprattutto in Sicilia e in Sardegna, tra gli stessi Ministeri. Chi di noi, invece, non ha partecipato a questa esperienza può prendere coscienza del problema in maniera chiara, senza equivoci, anche solo dai dati forniti dall'associazione Antigone che opera per la difesa dei diritti negli istituti di pena in Italia e che dà conto di come, solo nel corso del 2009, la popolazione carceraria è aumentata di 8 mila unità, passando dai 58 mila reclusi del 31 dicembre 2008 ai circa 66 mila di quest'anno: oltre 20 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare e oltre anche la cosiddetta capienza tollerabile. Ci siamo interrogati tante volte, anche con i colleghi, su cosa significhi «tollerabile»: ci sembra più un criterio tecnico che umano. Gli stessi dati poi confermano quanto già detto in precedenza, cioè che quasi il 50 per cento delle persone oggi detenute nel nostro Paese è in attesa di giudizio, 7 mila in più rispetto a quelle che si trovavano in questa situazione prima dell'indulto del 2006. Si tratta di una delle percentuali più alte d'Europa che fotografa un'anomalia tutta italiana, su cui è necessario intervenire, perché un innocente che rimane in carcere non solo perde la fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni, ma rischia di diventare un vero problema sociale. Ben 34 dei 204 istituti - al contrario della collega Bernardini, in una simbolica staffetta, noi qualche cifra la diamo in quest'Aula - ospitano più del doppio delle persone previste, mentre 171 carceri sono fuorilegge dal momento che accolgono più persone di quante la capienza regolamentare consenta e il «carcere fuorilegge» è realmente un paradosso, caro sottosegretario. Era il febbraio 2009, quasi un anno fa, quando il Ministro Alfano annunciava il varo di un piano carceri e la nomina di un commissario con poteri speciali che avrebbe dovuto risolvere l'emergenza del sovraffollamento. Questa soluzione proposta dal Governo è, nelle attuali e descritte condizioni, semplicemente irrealizzabile. Infatti, il ritmo di costruzione delle nuove carceri in un piano, mi consenta, più che approssimativo e con finanziamenti che non superano un terzo del fabbisogno, è incomparabilmente più lento della velocità di crescita della popolazione detenuta. Nella più ottimistica delle previsioni i nuovi posti promessi potranno essere disponibili solo quando il numero dei detenuti sarà ulteriormente aumentato di 30 mila unità. Se il Presidente mi consente, lascerò alcune altre cifre agli atti, mentre vorrei soffermarmi su altre due questioni. La prima riguarda il numero degli educatori in quanto parlavamo di rieducazione in carcere.
. La prego di concludere.
. Signor Presidente, ho solo un minuto? Speravo di avere qualcosa in più.
. Prego onorevole, si è trattato di un errore materiale.
. Dicevo che il numero degli educatori è insufficiente, posto che in pianta organica ne sono previsti 1.088 e sono appena 686 quelli effettivamente in servizio; così come risulta deficitaria l'assistenza psicologica, a cominciare da quella legata all'attività di osservazione e al trattamento dei detenuti. Pensiamo a chi è detenuto per la prima volta e, quindi, si trova dietro le sbarre per la prima volta nella sua vita; si consideri che a fronte di quasi 66 mila detenuti gli psicologi che prestano effettivamente servizio sono appena 352, ciascuno in rapporto libero professionale retribuito molto al di sotto dei minimi di categoria e per poche ore al mese. Ciò comporta come naturale conseguenza che gli istituti di pena siano diventati un'istituzione a carattere prevalentemente, se non esclusivamente, afflittivo e sappiamo che questa non è l'intenzione del Governo. A questo proposito, il Ministero della giustizia, proprio al fine di coprire almeno parzialmente la totale carenza di organico di tali figure professionali, aveva avviato fin dal 2004 un concorso per l'assunzione di 39 psicologi, arrivando anche ad approvare la relativa graduatoria nel 2006. Nonostante ciò, da quel momento, l'amministrazione penitenziaria non ha proceduto ad alcuna assunzione dei vincitori del concorso preferendo affidarsi ad un sistema di frammentate collaborazioni precarie e insufficienti. Un ultimo aspetto riguarda il fatto che di carcere si può anche morire. Generalmente un terzo dei decessi che si verificano dietro le sbarre sono dovuti a suicidio, come rivelano i dati raccolti dal centro di ricerca Ristretti orizzonti del carcere di Padova. Quest'anno è stato registrato il numero più alto di detenuti suicidi nella storia della Repubblica: 71 su 171 persone morte in carcere e in questi primi giorni del 2010 nelle carceri italiane si sono registrati già ben quattro suicidi. È un dato allarmante che non può non interrogare nel profondo ciascuno di noi, la nostra coscienza, i legislatori e i governanti. Queste morti chiedono una risposta rapida dello Stato ad una situazione intollerabile. Quanto denunciato costituisce, a nostro avviso, una palese violazione dei principi della Carta costituzionale, in particolare dell'articolo 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e dell'articolo 27 secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Nell'illustrazione della nostra mozione ritengo, quindi, che sia maturo il tempo nel quale quest'Aula possa affrontare e risolvere il problema dell'emergenza carceri adottando un indirizzo chiaro e preciso che costituisca la base dei futuri provvedimenti amministrativi e normativi in materia. In particolare, a nostro avviso è necessario che il Governo adotti una politica carceraria tendente a contenere il sovraffollamento, attraverso la riduzione dei tempi di custodia cautelare, la rivalutazione delle misure alternative al carcere (specie per le donne con figli e per i tossicodipendenti), la riduzione delle pene per chi commette fatti di lieve entità e, inoltre, a stipulare eventuali accordi internazionali per far scontare ai detenuti stranieri le pene nei rispettivi Paesi di appartenenza, in quanto sappiamo che quelli che ci sono, sono insufficienti e non riguardano spesso i Paesi di origine del gran numero dei detenuti extracomunitari. Dobbiamo predisporre un nuovo e più efficace piano carceri rispetto a quello presentato il 27 febbraio 2009 dal capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, assicurando le risorse necessarie per realizzarlo e per garantire un'adeguata dotazione di polizia penitenziaria indispensabile per gestire una situazione così drammatica. Se il carcere deve poi essere, secondo i principi di civiltà e dignità della persona, un luogo di rieducazione, diventa improcrastinabile a nostro avviso l'assunzione di un congruo numero di psicologi indispensabile per la vita dei reclusi, nonché adoperarsi in sede di Conferenza Stato-regioni affinché sia garantita a costoro, dal servizio sanitario nazionale, la migliore assistenza medica e psicologica. È necessario, inoltre, che lo Stato si faccia carico del problema dei bambini con l'istituzione e costruzione di case famiglia protette in cui accogliere mamme e bambini. Colleghi, queste sono le principali misure che, a nostro avviso, sarebbe ragionevole e utile adottare per rispondere con coerenza al grido, all'appello e alla richiesta di giustizia che proviene dagli istituti carcerari. Il Parlamento deve farsene carico per il rispetto che ha e che deve alla Costituzione e alla sua dignità. Infine, come la collega Bernardini, voglio fare un riconoscimento alla memoria di Stefano Cucchi morto in circostanze drammatiche ancora tutte da chiarire durante la sua detenzione. È un riconoscimento al dolore straziante e alla determinazione composta della sua famiglia, che chiede e deve avere giustizia. Sono convinto che il Ministro Alfano e il Ministro Maroni collaboreranno ancora e daranno una risposta chiara e rapida su questa vicenda, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare, ancora di più dopo che la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, il cui volto e i cui occhi abbiamo ancora impressi, ha dato un esempio di serietà e di rispetto delle istituzioni a tutti noi. È un esempio che non va dimenticato, dopo che Ilaria Cucchi ha declinato una legittima richiesta di candidatura da parte dei radicali alle prossime elezioni regionali del Lazio. Quello delle candidature di testimonianza è un modo per non dimenticare, e i radicali ne sono un esempio encomiabile, ma questo Parlamento e, spero, entrambe le candidate alla presidenza della regione Lazio devono prendere un impegno a non dimenticare, anche se non vi saranno gli occhi di Stefano, attraverso quelli di Ilaria, a ricordarcelo dai banchi di un consiglio regionale. È questo il compito di una classe politica di un Paese civile e, mi consenta, umano . Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.
. Onorevole Rao, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00301. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo è un contributo che parte dal gruppo dell'Italia dei Valori su un tema che ormai sta diventando all'ordine del giorno dell'agenda non solo politica, ma anche sociale della nostra nazione. Con la nostra mozione intendiamo indurre a riflessioni, per poi prendere le necessarie decisioni, il Governo, a partire dall'intero Parlamento, che mi auguro abbia la giusta ed adeguata sensibilità per far sì che non attraverso posizioni ideologiche, ma attraverso posizioni mirate e sostenute da una serie di dati, che poi fanno la sostanza non solo dell'attività politica, ma delle varie vite spezzate, l'umanità contenuta all'interno delle carceri possa trovare finalmente una giusta risposta in termini non solo parlamentari, ma come espressione forte e autorevole di un Governo all'altezza del proprio ruolo e della propria posizione. Ricordo che la situazione delle carceri italiane era ed è, purtroppo, in una fase continuamente emergenziale. Vi è un di 23 mila detenuti, circa 66 mila sono le presenze a fronte delle 43 mila possibili; vi è una deficienza organica del Corpo di polizia penitenziaria di circa 5 mila unità. La gran parte delle strutture penitenziarie sono poi fatiscenti, obsolete e non adatte. Ve lo dice chi ha avuto modo di fare un sopralluogo non tanto e non solo sulle questioni e sulle condizioni logistiche e strutturali, ma si è anche occupato di quelle vite spezzate di cui dicevo poc'anzi. La popolazione delle carceri continua a crescere, con tutte le relative valenze connesse al pericolo e al trattamento, e gli agenti penitenziari sono costretti a lavorare in condizioni sempre peggiori, così come gli educatori, gli psicologi e i medici. Sono in costante aumento gli attacchi al personale, che ormai è demotivato, stanco e mal pagato. Su tutto il territorio nazionale si registrano manifestazioni e proteste, giustificate dalle condizioni di insicurezza in cui sono costretti a lavorare. Mediamente un agente deve sorvegliare 100 detenuti di giorno, circa 250 nei turni notturni; per garantire le traduzioni il personale è costretto a viaggiare anche per 20 ore consecutive su mezzi non idonei. Sebbene il Presidente del Consiglio abbia reso noto il famoso «piano carceri», della cui copertura finanziaria oggi, nonostante gli annunci, non vi è certezza, i primi risultati, qualora vi fossero, non arriveranno prima di due anni. Solo pochi mesi fa la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia a risarcire con mille euro un detenuto costretto a stare per due mesi e mezzo in una cella sovraffollata; una pena naturalmente simbolica, ma che mette in evidenza una terribile realtà. Ogni detenuto nelle carceri italiane ha mediamente a disposizione meno di 3 metri quadrati di spazio, ben al di sotto dei 7 metri stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ciò vuol dire che normalmente una cella deve ospitare 3 detenuti: oggi, nei penitenziari italiani, ve ne sono in media 9 in ogni cella. Dall'inizio dell'anno, si ricordava, sono oltre 70 i suicidi verificatisi all'interno delle strutture e 3 riguardano gli agenti di polizia penitenziaria. Bisogna dare luce ad una realtà penitenziaria taciuta, ignorata o dimenticata, emarginata e abbandonata, per mettere in evidenza le emergenze del sistema carcere con il rischio sommosse e il rischio morte presenti ogni giorno; un sistema che alimenta gli effetti criminogeni delle pene. Un sistema in cui l'articolo 27 della nostra Costituzione, che prevede che l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato e l'articolo 64 della Costituzione europea, che stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti, non trovano applicazione. L'Unione europea si fonda sul rispetto dei diritti dell'uomo, delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto. La Carta dei diritti fondamentali sancisce tutti i diritti personali, civili, politici, economici e sociali dei cittadini dell'Unione. Nel marzo 2007 l'Unione europea ha istituito l'Agenzia europea per i diritti fondamentali, che ha il compito di aiutare l'Unione europea e gli Stati membri ad elaborare la normativa in questo campo e di sensibilizzare l'opinione pubblica ai diritti fondamentali. Del resto, in un mondo globalizzato è fondamentale che i Paesi dell'Unione europea collaborino efficacemente per combattere la criminalità e il terrorismo. Dal giugno 2004 l'Unione europea ha adottato un Trattato che, attraverso le tappe previste, ambisce a diventare una Costituzione per l'intero continente. La creazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia richiede necessariamente un coordinamento dei sistemi giuridico-penali dei Paesi membri. Uno spazio sovranazionale dev'essere altresì anche capace di farsi garante del riconoscimento e del rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini, europei ed extracomunitari che vivono e risiedono in Europa. Il diritto penale è stato sempre confinato nei limiti del territorio nazionale, ancorato al principio della territorialità: uno dei baluardi della sovranità nazionale è appunto l'esclusività del sistema penale. D'altro canto, a partire dal 1948 sia il diritto internazionale classico, ossia quello interstatuale, è stato progressivamente eroso da una nuova concezione del diritto internazionale, che sostituisce all'intergovernativismo la sovranazionalità. Il processo, lento e fortemente contrastato dagli Stati-nazione, ha avuto il suo culmine con la nascita della Corte penale internazionale. Il suo Statuto, firmato solennemente a Roma nel 1998, contiene all'interno embrioni del superamento del principio della nazionalità del sistema processuale penale, laddove vi siano gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra, genocidi, crimini contro l'umanità. Sia nella fase del riconoscimento che in quella della progressiva omogeneizzazione dei sistemi penali, vanno tenute presenti garanzie e tutele irrinunciabili, e vanno identificati minimi e massimi edittali delle pene, vanno enucleati comuni ed essenziali interessi da proteggere in Europa con gli strumenti del diritto penale, evitando che i singoli Stati si limitino ad adattarsi al diritto penale di derivazione europea, conservando allo stesso tempo intatto tutto il proprio armamentario repressivo, e ciò, capite, è una gravissima contraddizione in termini. I diritti delle persone sottoposte a procedimento giudiziario, a misure penali o detenute vanno tutelati senza eccezioni e senza timori. La dignità umana non può essere calpestata in alcuna circostanza. L'esperienza europea degli ultimi anni ci suggerisce l'attivazione di organismi indipendenti di nomina parlamentare che abbiano poteri informali di visita e controllo dei luoghi di detenzione. Tali organismi svolgono una funzione di riconciliazione sociale, di mediazione e di soluzione in chiave preventiva dei conflitti. Si tratterebbe di una sorta di difensori istituzionali dei diritti in carcere, per i quali va data altresì piena attuazione sia alla sentenza della Corte costituzionale del febbraio 1999, che prevede la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, sia al nuovo regolamento di esecuzione che nelle sue forme vuole migliorare la qualità della vita nelle carceri. Lotta al razzismo, libera circolazione delle coppie senza discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale e difesa delle donne, dei minori e degli immigrati: è quanto chiede il Parlamento per lo spazio europeo di giustizia, auspicando più diritti per i detenuti e fondi comunitari per la costruzione di nuove carceri. Occorre combattere la criminalità informatica, garantire una maggiore solidarietà tra i Paesi dell'Unione europea per l'accoglienza dei rifugiati e tutelare i cittadini da terrorismo e criminalità. Il Parlamento europeo in tal senso qualche giorno fa ha adottato una risoluzione con la quale indica la sua posizione riguardo al cosiddetto «Programma di Stoccolma», che stabilisce le priorità europee nel campo della giustizia e degli affari interni per i prossimi cinque anni. Il Parlamento chiede norme minime relative alla condizioni delle carceri e dei detenuti e una serie di diritti comuni per i detenuti nell'Unione europea, incluse norme adeguate in materia di risarcimento dei danni per le persone ingiustamente arrestate o condannate. Auspica, inoltre, la messa a disposizione da parte dell'Unione europea di sufficienti risorse finanziarie per la costruzione di nuove strutture detentive negli Stati membri che accusino un sovraffollamento delle carceri e per l'attuazione di programmi di reinserimento sociale. Sollecita anche la conclusione di accordi tra l'Unione europea e i Paesi terzi sul rimpatrio dei loro cittadini che abbiano subito condanne e la piena applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sentenze penali ai fini della loro esecuzione nell'Unione europea. Sostiene poi la necessità di uno strumento giuridico globale sull'ammissibilità della prova nei procedimenti penali. L'attuale legge sull'ordinamento penitenziario stabilisce le misure alternative alla detenzione. Esse danno la possibilità di scontare le pene non in carcere; vengono concesse solo a determinate condizioni e si applicano esclusivamente ai detenuti definitivi. Le misure alternative sono numerose, con caratteristiche peculiari, ciascuna tendente comunque alla risocializzazione del condannato. Esse sono: l'affidamento in prova al servizio sociale (pena residua di tre anni); la detenzione domiciliare (pena residua di quattro anni o, nei casi di condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo, pena residua anche superiore ai quattro anni); la semilibertà (metà pena o i due terzi se si tratta di reati gravi o sei mesi solo dalla libertà); la liberazione condizionale; la sospensione della pena per gravi motivi di salute (qualunque sia la durata della pena). Queste misure, però, non possono essere la soluzione concreta e definitiva dell'emergenza carceri e al sovraffollamento. Al di là di ciò, aspettando il piano carceri, è necessario avviare una riflessione e pensare ai processi brevi e alla certezza della pena dando strumenti e risorse. In sostanza il carcere-servizio pubblico deve essere un luogo che produce sicurezza collettiva nel rispetto della dignità dei detenuti. Lo scorso mese di agosto si è svolta l'iniziativa nazionale «Ferragosto in carcere» che ha visto coinvolti deputati, senatori e consiglieri regionali di tutta Italia e di tutte le forze politiche. L'obiettivo di tale iniziativa era quello di verificare e di conoscere meglio le condizioni tanto dei detenuti quanto di direttori, agenti, medici, psicologi ed educatori che lavorano all'interno delle carceri, al fine di poter formulare proposte legislative o organizzative adeguate. Tra suicidi, morti, vite salvate, tentate evasioni, evasioni compiute e spazi che mancano nelle nostre prigioni è sempre più evidente l'emergenza-soluzioni. A fronte di questa spaventosa e preoccupante situazione e tutto il personale penitenziario è chiamato, tra l'altro, ad operare senza alcuna linea guida, senza mezzi idonei, con scarsissime risorse. Nella della Repubblica italiana n. 30 del 16 aprile 2004 veniva bandito un concorso pubblico per 397 posti nel profilo professionale di educatore, area C, posizione economica C1. Dopo ben quattro anni di procedura concorsuale, il 15 dicembre 2008, nel del Ministero della giustizia n. 23 veniva pubblicata la graduatoria ufficiale e definitiva del suddetto concorso. Ad oggi il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha assunto solo i primi novantasette vincitori cui si spera, a breve, seguirà l'assunzione dei restanti trecento, dopo aver proceduto alle istanze di interpello annuale nazionale di mobilità interna del personale. Queste nuove forze potranno sicuramente rappresentare un valido supporto ma si rivelano palesemente e gravemente insufficienti. Intanto, per questa figura professionale sono già state già apportate drastiche riduzioni tali da portare la pianta organica del 2009 a sole 1.088 unità rispetto alla pianta del 2008 che ne prevedeva circa 1.400 in organico, riduzione operata dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per adeguarsi alle disposizioni del cosiddetto «decreto Brunetta» che ha imposto un ridimensionamento delle piante organiche in diminuzione delle unità, affinché le pubbliche amministrazioni possano procedere all'assunzione di nuovo personale. In realtà, ad oggi, in servizio, ci sono soltanto 686 educatori cui si aggiungeranno i 300 restanti vincitori, giungendo ad una quota pari a 968 unità a fronte di una popolazione detenuta di circa 66 mila unità ancora in crescita, come si è detto prima. È lampante, pertanto, la mancanza di ben 102 educatori rispetto alla pianta organica del 2009 (mancanza ancora maggiore se riferita alla pianta organica del 2008, pari a circa 400 unità di educatori), cui andranno ad aggiungersi tutti quegli educatori che verranno collocati in pensione avendone maturati i requisiti. La sostanziosa assenza dei citati operatori aggrava ed aggraverà ancor di più il clima e la vita detentiva dei ristretti e dei medesimi operatori ancora in servizio oltre ad accrescere l'inadempienza al dettato legislativo vigente, dal momento che la maggior parte dei detenuti non riescono ad avere per anni colloqui con gli educatori, non riuscendo pertanto a conseguire alcun giovamento dall'ingresso in carcere. Quest'ultima disposizione viene chiaramente disattesa nelle realtà carcerarie italiane, come è noto dal caso Castrogno (chi vi parla ne è ben cosciente, essendo un parlamentare abruzzese e teramano che quindi conosce bene la realtà di Castrogno), uno dei tanti emersi negli ultimi tempi, ma anche dall'aumento dei suicidi, degli atteggiamenti autolesionistici, della richiesta di psicofarmaci e, non ultimo, dell'aggressività dei detenuti nei confronti del personale penitenziario, ad ulteriore dimostrazione dell'emergenza in cui i circuiti detentivi versano a causa della mancanza di operatori a fronte di uno spropositato aumento del numero dei detenuti ospitati in strutture inidonee ed evidentemente non a norma dal punto di vista strutturale e delle risorse umane. Bisogna inoltre anche specificare che, nonostante l'assunzione dei 300 vincitori del concorso per il profilo di educatore, il DAP avrà un avanzo di fondi a disposizione per assumere subito circa 70 unità lavorative grazie al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 31 luglio scorso, che ha deliberato l'autorizzazione all'assunzione di un contingente di 1.370 unità di personale a tempo indeterminato per l'anno 2009 per le amministrazioni dello Stato. In particolare per il Ministero della giustizia le nuove assunzioni autorizzate sono 223, di cui 110 per l'amministrazione penitenziaria, che dovrebbero essere ripartite tra vincitori ed idonei di tutti i concorsi aventi graduatorie ancora valide presso quest'ultima amministrazione. Stando tuttavia alle allarmanti condizioni delle carceri italiane, buona parte di questi fondi che avanzeranno dovranno essere destinati primariamente e celermente, senza indugio alcuno, all'assunzione degli idonei al concorso per educatori per incamminarsi verso quella condizione di rieducazione che il carcere deve dare a chi ne entra a far parte, per non smarrire quella presa di coscienza e civiltà che la nostra Carta costituzionale gli affida. È necessario pertanto attivare dei seri e proficui percorsi di rieducazione dei detenuti la cui realizzazione sia promossa e attivata dagli educatori penitenziari, veri coordinatori e catalizzatori degli strumenti utili per la composizione di tale iter risocializzativo (come la norma del 1975 dispone), affinché la dimensione del vissuto carcerario sia foriera di profonda autoriflessione sulle proprie apicalità e crei momenti di autoprogettazione, di formazione e costruzione di un sé nuovo, positivo, propositivo, generatore di valori riconosciuti e condivisi dal comune senso civico. Occorrono soluzioni ed un modello di recupero e di rieducazione prima di pensare a nuove strutture, al fine di un immediato e concreto supporto al mondo penitenziario. Con questa mozione l'Italia dei Valori intende appunto, sulla scorta di queste riflessioni, di queste indicazioni e dello stato dell'arte, impegnare il Governo a convocare i sindacati di polizia penitenziaria e le rappresentanze di tutto il personale penitenziario, al fine di un confronto concreto e costruttivo sulle problematiche delle carceri in Italia e degli operatori; a procedere all'assunzione immediata dei restanti educatori penitenziari previsti dalla pianta organica, da attingersi dagli idonei della vigente e menzionata graduatoria risultata dal concorso bandito per tale profilo professionale, affinché anche costoro possano partecipare ai previsti corsi di formazione che il DAP deve attivare per questi operatori prima dell'ingresso nelle carceri a cui sono destinati, onde evitare sprechi di danaro per doverli riattivare in seguito; a prorogare di almeno un quinquennio la validità della graduatoria di merito del concorso sopracitato stando agli odierni orientamenti dettati dal Ministro Brunetta e dalla proposta di legge n. 2462 presentata il 21 maggio del 2009, nonché alle disposizioni in materia di razionalizzazione delle spese pubbliche in vigore per permetterne un graduale scorrimento parimenti all'avvicendarsi dei fisiologici pensionistici, al fine di evitare l'indizione di nuovi concorsi per il medesimo profilo che comporterebbero inutili oneri pubblici. In effetti, questa medesima procedura di scorrimento della graduatoria con l'assunzione di tutti i suoi idonei trova già un precedente nel panorama legislativo e procedurale italiano, poiché effettuata per le graduatorie dei concorsi banditi dall'Agenzia delle entrate per 1.500 posti di funzionari per la terza area funzionale, fascia retributiva F1, attivata dall'amministrazione tributaria, bandita dall'Agenzia delle entrate e pubblicata sulla serie speciale del 21 ottobre 2005. Impegniamo il Governo, altresì, a stabilire una norma che prevede lo stanziamento dei fondi necessari per completare l'organico degli educatori previsti dalla pianta organica attualmente vigente presso il DAP (lo sforzo economico che si richiede al Governo è annualmente molto esiguo, ma è necessario per far funzionare meglio, e in modo più mano, una branca importantissima del nostro sistema giustizia che non può più attendere); a procedere all'alienazione di immobili ad uso penitenziario nei centri storici e alle costruzioni di nuovi e moderni istituti penitenziari in altro sito; a procedere alla dismissione di immobili ad uso penitenziario e alla riassegnazione del ricavato al Ministero della giustizia, per il potenziamento dell'edilizia penitenziaria esistente; al rifinanziamento dell'articolo 6 della legge n. 259 del 2002, in sede di predisposizione della legge finanziaria per il 2010, prevedendo dei limiti di impegno per un arco di tempo compatibile con l'utilizzo della locazione finanziaria; all'attivazione, in relazione alla esperienza europee degli ultimi anni, di organismi indipendenti di nomina parlamentare che abbiano poteri informali di visita e di controllo dei luoghi di detenzione al fine di svolgere una funzione di riconciliazione sociale, di mediazione e di soluzione in chiave preventiva dei conflitti; ad autorizzare, secondo quanto stabilito dal Parlamento europeo, le risorse finanziarie per la costruzione di nuove strutture detentive, prevista negli Stati membri che accusano un sovraffollamento delle carceri e per l'attuazione di programmi di reinserimento sociale; ad istituire, nel più breve tempo possibile, dato l'allarme di questa situazione, la Commissione di inchiesta parlamentare sulla situazione delle carceri in Italia come richiesto dall'Italia dei Valori nella propria proposta del 24 novembre del 2009; in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1o aprile 2008, recante «Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria», a dare conto della sua applicazione e dei risultati e a definire, nel passaggio delle competenze, funzioni e risorse. In tutto questo, credo che dobbiamo trovare una sintesi importante, affinché la calendarizzazione della discussione in Assemblea delle nostre mozioni costituisca un banco di prova su cui testare la concreta volontà del Governo, e dei parlamentari tutti, per tentare di risolvere il dramma che quotidianamente si consuma dentro le prigioni italiane. In conclusione, signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, è necessario che il Parlamento e soprattutto il Governo e la maggioranza definiscano un vero e proprio «piano Marshall» per le carceri. Solo attraverso ingenti finanziamenti in termini di risorse, mezzi e tecnologie, attraverso una vera riforma della giustizia, sarà possibile porre rimedio a ciò che oggi appare irrimediabilmente compromesso. Questo è il nostro contributo e mi auguro che possa il Parlamento trovare una sintesi unitaria, perché bisogna dare una risposta non solo in termini politici, ma anche istituzionali, ad un dramma che è soprattutto umano, e che deve vedere la politica in grado di reggere l'urto di questa grande sfida, che è una sfida sì di umanità, ma anche di grande innovazione e modernizzazione anche, e soprattutto, delle coscienze
. È iscritta a parlare l'onorevole Ferranti, che illustrerà la mozione Franceschini ed altri n. 1-00302, di cui è cofirmataria.
. Signor Presidente, le preannunzio che, qualora non riuscissi ad illustrare interamente la mozione, chiederò che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo del mio intervento. Questa nostra mozione parte da un dato, quello del sovraffollamento delle carceri, ma non come situazione di emergenza ed eccezionalità, a cui bisogna porre rimedio con provvedimenti eccezionali ed estemporanei, ma come situazione strutturale che nasce più che dalla crescita della criminalità, dalla sistematica crescita della criminalizzazione e dalla conseguente risposta di contrasto alla criminalità cosiddetta di strada. Vi è la sensazione che si cerchi di colpire con il carcere ciò che non si riesce a tenere sotto controllo in altro modo. Ne è un esempio tangibile la politica sull'immigrazione: il recente reato di nuovo conio, quello di immigrazione clandestina, e la progressiva accentuazione di una normativa sostanziale e processuale costruita sul cosiddetto doppio binario. Nel luglio 2006 si giunse ad avere nelle strutture carcerarie 62 mila detenuti, la risposta fu l'indulto che consentì di ridurre le presenze del periodo minimo a circa 38 mila detenuti. Oggi la condizione di sovraffollamento nella quale si è precipitati di nuovo (65 mila detenuti, 31 mila circa in attesa di giudizio) è segnata da una crescita che ha superata le mille unità al mese e corrisponde in misura preponderante alla crescita della presenza di stranieri nelle carceri, unitamente ai tossicodipendenti, ai malati psichiatrici e a tutte le altre forme di devianza sociale che colpiscono gli strati più bassi della popolazione. Tutto ciò alimenta la popolazione carceraria e apparentemente soddisfa quell'ansia di sicurezza che, a torto o a ragione, pervade la società civile. In media, possiamo dire che gli stranieri costituiscono il 38 per cento della popolazione carceraria e provengono da 140 Paesi diversi, ma, a tal proposito, pochissimi sono i Paesi con cui l'Italia ha una convenzione bilaterale (due o tre al massimo). Comunque, le dichiarazioni rese in proposito dal Ministro competente in un'intervista dell'8 settembre 2008, secondo la quale si sarebbe provveduto ad espellere 3.300 detenuti immigrati, non solo si sono risolte in un nulla di fatto - anche per l'impossibilità e per l'onerosità del provvedimento in sé - ma non hanno fornito una risposta in grado di risolvere in maniera incisiva il problema del sovraffollamento. Per tutti - mi riferisco a stranieri, tossicodipendenti, soggetti con problematiche psichiatriche e sociali - la crescita dell'intervento penale (e quindi del carcere) è strettamente proporzionale, purtroppo, alla diminuzione delle risorse dedicate ai servizi e agli interventi sociosanitari. Ne è una conferma anche l'assoluta carenza del personale civile penitenziario destinato all'attività di trattamento (parlo di educatori, sociologi, di psicologi e di assistenti sociali). I ruoli organici, già di per sé carenti, presentano situazioni di scoperture patologiche. Gli educatori in pianta sono 1.376, in servizio sono 792: un educatore ogni 82 detenuti. Tutto ciò si riverbera non solo nel sovraccarico di compiti per i singoli ma proprio nel non funzionamento di quel circuito e di quei sistemi che hanno come premessa necessaria proprio l'intervento di quegli operatori. Quindi finisce per prevalere l'area della custodia rispetto a quella della rieducazione individuale, e rare sono le occasioni di lavoro, limitata l'attività scolastica e di formazione professionale, scarse le possibilità di praticare attività diverse a fini risocializzanti. Bisogna evidenziare a questo proposito - ne sento proprio il debito morale - il fatto che il Governo deve essere messo in mora nei confronti dei 397 educatori vincitori del concorso bandito nel 2003, dei quali solo 86 sono stati assunti (ne mancano 300 perché 11 hanno rinunciato). Mi chiedo: la mancata assunzione è solo riconducibile alla penuria di fondi? Quando si bandisce un concorso si prevedono di norma anche i soldi per le assunzioni. Come mai questi ritardi? Perché forse non si crede a sufficienza, fino in fondo, da parte del Governo, alla finalità rieducativa della pena prevista dall'articolo 27, terzo comma, della Costituzione? Il fine ultimo e risolutivo della pena deve essere proprio quello del recupero sociale del condannato e un obbligo tassativo che si impone al legislatore ordinario è quello di prevedere i mezzi e gli strumenti per rendere effettiva tale finalità. Il che vuol dire costituzionalizzazione delle misure alternative alla detenzione in fase esecutiva e del sistema organizzativo per il funzionamento delle stesse. La pena non è un qualcosa di rigido, ma, sempre nel quadro della durata della pena detentiva certa, le modalità esecutive possono cambiare in ragione della concessione di misure alternative. Ma per far ciò, la premessa necessaria è che vi sia l'effettiva valutazione da parte di una rete di operatori numericamente e professionalmente attrezzati. Altrimenti, se le scelte politiche economiche vanno in un altro senso, allora è solo demagogia prendersela con la legge, con la legge Gozzini che non funziona o con la magistratura di sorveglianza accusata spesso di essere di manica larga. Il percorso in realtà non si improvvisa, non è automatico; occorre un'equipe interna al carcere che, durante la permanenza del detenuto, ne osservi l'atteggiamento rispetto al reato, l'effettiva volontà di riscatto e, alla fine, con una relazione di sintesi, riferisca al magistrato per il percorso più opportuno. Senza poi parlare del problema, che è cronico ormai, della carenza del personale della polizia penitenziaria, che è al di sotto dell'organico di tantissime unità, così come ha denunciato e dichiarato anche il capo del DAP nelle sue due audizioni in Commissione giustizia. È del tutto evidente che la reale possibilità per i detenuti di riconquistare la libertà, non solo come capacità di movimento ma anche come capacità di autodeterminazione responsabile nel rispetto dei valori della convivenza civile, dipende ed è strettamente legata ad un carcere che funzioni. Per questo chiediamo al Governo con questa mozione che si impegni a farlo funzionare e chiediamo che siano favorite le proposte volte all'utilizzo dei fondi quali, ad esempio, quelli cospicui della cassa delle ammende pari a circa 159 milioni di euro per incrementare i programmi di esecuzione esterna e rivitalizzare le misure alternative alla detenzione, se è vero che, come risulta da ricerche del DAP, dopo anni dalla conclusione dell'esecuzione della misura alternativa, la recidiva si verifica nel 19 per cento dei casi, mentre, nello stesso tempo di commisurazione, dopo l'esecuzione in carcere, la recidiva è del 68,5 per cento. Quei fondi, ad esempio, potrebbero essere utilizzati in parte proprio per l'assunzione di quegli educatori, quei 300 educatori che mancano all'appello e che sono vincitori di concorso. Purtroppo, siamo stati condannati recentemente dalla Corte europea dei diritti dell'uomo che ha sancito l'illegalità di una detenzione in condizione di intollerabile sovraffollamento in quanto in palese violazione dell'articolo 3 della Convenzione sul divieto di torture e trattamenti disumani e degradanti. Di qui, la proposta di costruire nuovi carceri. Tuttavia, occorre porre mano con priorità al rifacimento di quelle esistenti spesso fatiscenti. Non può essere una soluzione soltanto quella di porre mano ad interventi normativi con aumento della criminalizzazione e, quindi, con divieto anche per i recidivi di accedere ai benefici che ha aumentato in modo esponenziale la crescita della popolazione carceraria. In questo contesto devono essere favorite le proposte di legge tese alla sostituzione di pene detentive brevi, già al momento della condanna, ovvero ad incentivare condotte riparatorie, subordinando effettivamente la concessione del beneficio della sospensione condizionale, anche per più volte, al risarcimento del danno a favore della vittima. Il carcere deve essere l', soprattutto per i minorenni e i giovani adulti fino a 25 anni, nella riaffermazione del principio della flessibilità dell'esecuzione della pena secondo cui quest'ultima non è rigida ma sempre nel quadro della durata della pena detentiva certa, le modalità esecutive della stessa mutano in ragione del mutare del percorso, come è stato più volte affermato dalla Corte costituzionale. Si impone, quindi, un ripensamento, a breve e a lungo termine, del modello unico di istituto penitenziario attuale, partendo da due considerazioni: la preponderanza nel panorama detentivo di soggetti sottoposti a custodia cautelare per periodi brevissimi (30 mila soggetti in media all'anno trascorrono in un istituto penitenziario periodi non superiori agli undici giorni e poi vengono scarcerati) e inoltre il fatto che i detenuti per i quali si esige un regime di elevata sicurezza non raggiungono le 10 mila unità sui 65 mila che oggi popolano le carceri; mentre per gli altri detenuti, quelli anche di media sicurezza, la detenzione in cella come situazione di normale permanenza quotidiana, anziché la fruizione di spazi comuni, diventa una delle cause del sovraffollamento e anche dell'aggravio dei costi e quindi dell'insufficienza del personale.
. La prego di concludere, onorevole Ferranti.
. Guardiamo all'Europa e a quanto accade in Spagna dove il classico fortino è riservato ad esponenti della criminalità organizzata o ad autori di efferati crimini con il connesso obbligo di permanenza in carcere, per gli altri vi sono moduli di diversa organizzazione. Quindi, in un sistema carcerario che ha come fine ultimo la riabilitazione e la reintegrazione sociale del detenuto il lavoro dentro e fuori dal carcere rappresenta, insieme all'istruzione e alla formazione professionale, uno strumento privilegiato di prevenzione della nuova criminalità, una forma essenziale, una possibilità concreta di recupero della dignità morale ed umana della persona detenuta. Con questa mozione, chiediamo un impegno del Governo su questi temi che segni un passo avanti concreto rispetto ad una condivisione di temi che riguardano veramente una delle problematiche della giustizia. Infatti, siamo convinti sino in fondo che la legittimazione dello Stato a punire non può e non deve mai prescindere dalla condizione concreta di esecuzione della pena, perché il buon funzionamento del sistema carcerario ed il corretto trattamento dei detenuti sono importanti indicatori del grado di civiltà e di democrazia di un Paese. In particolare, occorre assicurare ai detenuti quella dignità, quel senso di umanità cui la repressione penale, che sia certa e rigorosa ma ispirata poi sempre al recupero, deve in qualche modo sempre guardare. Quindi, noi confidiamo che vi sia in questo senso uno sguardo attento e vero da parte del Governo . Signor Presidente, come preannunziato all'inizio, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.
. Onorevole Ferranti, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. È iscritto a parlare l'onorevole Vitali, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00309. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo e onorevoli colleghi, mi verrebbe da dire subito: «Tanto tuonò che piovve», dando merito ai colleghi radicali di avere, con la loro positiva pervicacia e con la loro insistenza, frutto di una sensibilità particolare su questo problema, costretto questa Camera, lo dico tra virgolette, a discutere di una problematica credo importantissima (parafrasando le parole del Presidente del Consiglio è il problema più grave dopo il terremoto d'Abruzzo nel nostro Paese). Questo avrà il merito - e l'inizio di questa discussione lo dimostra - di far sì che tutte le forze politiche rappresentate in questo Parlamento si assumano delle responsabilità e dicano, come stanno dicendo, in maniera chiara come intendono risolvere il problema e cosa intendono suggerire al Governo per risolvere il problema. Dico subito che condivido - parlo a titolo chiaramente personale perché è il Governo che dovrà valutare l'accoglibilità o meno delle mozioni in esame - tutte le mozioni fin qui presentate, se non totalmente in larghissima parte, soprattutto quella dei colleghi radicali, ma anche quella del Partito Democratico, persino anche quella dell'Italia dei Valori, oltre a quella dei colleghi dell'Unione di Centro. Abbiamo il dovere di dire in maniera chiara come si intenderà affrontare questa che è diventata un'emergenza non più rinviabile, non soltanto per coloro che, all'interno degli istituti penitenziari, devono scontare una pena per una violazione di legge, ma in condizioni di umanità, in condizioni igienico-sanitarie adeguate, in condizioni di civiltà, ma anche e soprattutto per migliaia di servitori dello Stato che prestano la loro attività all'interno degli istituti penitenziari. Dunque abbiamo necessità di fotografare alcuni dati dai quali partire per poter fare una diagnosi ed immaginare una terapia per risolvere questo problema. Oggi noi abbiamo 65.000 detenuti, con una percentuale di 700-800 detenuti al mese che si aggiungono all'interno dei nostri penitenziari. Se scomponiamo questa cifra vediamo che un terzo (il 37 per cento) è rappresentato da stranieri, per lo più extracomunitari; un quarto (circa il 27 per cento) da tossicodipendenti. Stranieri e tossicodipendenti raggiungono il 64 per cento della popolazione penitenziaria. Già questo dato dimostra come, risolvendo queste problematiche, noi non incorreremmo in una situazione di emergenza e gli stranieri sono in carcere perché, nella stragrande maggioranza dei casi, non possono ottenere, perché privi di una dimora e di una residenza, una misura alternativa alla detenzione. Quindi questo è già un primo problema. Oggi non ha più senso che i tossicodipendenti restino all'interno di strutture penitenziarie, perché creeremmo una manovalanza per la criminalità. Vi è necessità di creare strutture alternative, strutture meno afflittive, che interpretino le problematiche psichiche e fisiche di questi soggetti, che diventano criminali per necessità, ma che nascono come malati, come persone che si drogano. Un altro dato impressionante che ci deve far riflettere e che è emerso da questa discussione è che all'interno delle nostre carceri soltanto il 46 per cento sconta una pena definitiva ed il 50 per cento è in attesa di giudizio. Oggi nel nostro Paese è più facile scontare una misura in custodia cautelare preventiva che una pena emessa in maniera definitiva: anche questo è un elemento che dobbiamo assolutamente affrontare. Inoltre, vi sono indicibili situazioni sanitarie e, con il trasferimento di questa competenza alle regioni, si sarebbe dovuto innalzare il livello di assistenza e, invece, non solo è stato ridotto ma, in molti casi, è stato addirittura eliminato. Questo non è assolutamente possibile. Tuttavia, questa situazione non è di oggi, ma permane da 60 anni nel nostro Paese. Solo che fino a 15 anni fa il problema si risolveva con un'amnistia o con un indulto che venivano concessi con cadenza quasi biennale. Non possiamo né vogliamo - e questa è la parte che ci differenzia e mi differenzia dalla mozione dei colleghi radicali - risolvere un problema così grave, delegando la funzione deflattiva delle carceri ad un provvedimento di clemenza. Abbiamo bisogno di garantire certezza della pena e sicurezza ai cittadini e, allo stesso tempo, abbiamo il dovere di rendere le nostre prigioni assolutamente conformi ai livelli di civiltà e di democrazia ai quale appartiene e si ispira il nostro Paese. Tuttavia, dobbiamo anche ammettere che non tutti i Governi - i quali hanno tutti delle responsabilità - si sono comportati nella stessa maniera di fronte a questi problemi. Voglio ricordare che il secondo Governo Berlusconi - per intenderci il Ministro Castelli - reperì mille miliardi di vecchie lire da destinare all'edilizia penitenziaria. Faccio presente che questo Governo Berlusconi, in particolare il Ministro Alfano, nonostante abbia irrigidito il regime del 41- (altro punto su cui il mio modo di vedere non converge con quello dei colleghi radicali) è stato, tuttavia, il primo Ministro a coinvolgere sul problema dell'affollamento dei nostri penitenziari la Comunità europea. Infatti, se è vero come è vero che nelle nostre carceri vi è il 37 per cento di extracomunitari, ciò significa che si tratta non solo di un problema dell'Italia, ma di un problema che l'Italia sopporta in nome e per conto della Comunità europea. Inoltre, ha ottenuto l'impegno da parte della Comunità europea di prevedere fondi e finanziamenti per l'edilizia penitenziaria in quei Paesi - Italia compresa - dove si verificano questi fenomeni. Ma ha fatto di più, perché ha reperito 500 milioni di euro all'interno della legge finanziaria da destinare al piano carceri e ha previsto ed ottenuto, all'interno della legge finanziaria, l'assunzione straordinaria di 2 mila agenti di polizia penitenziaria, dando così un segnale di grande sensibilità. Lo stesso non si può dire per i Governi precedenti e soprattutto per l'ultimo Governo Prodi, che ha avuto un altro vantaggio, quello di godere dei benefici di un indulto votato anche dall'allora opposizione. Quel provvedimento venne votato anche dal sottoscritto che non si è poi pentito di quel voto, sebbene vi siano stati molti pentiti. Non mi sono pentito, ho votato quel provvedimento con convincimento e lo voterei di nuovo. Tuttavia, il Governo Prodi ha perso una grande possibilità poiché ha avuto l'opportunità di avere una deflazione delle carceri di 25 mila unità. Ciononostante, non ha adottato un solo provvedimento che potesse attrezzare il nostro sistema penitenziario ad un ritorno di quella popolazione penitenziaria. Dunque, dobbiamo capire quali sono le ragioni di questo tipo di affollamento all'interno dei nostri penitenziari per individuare il modo di evitarlo. Innanzitutto, dobbiamo fermarci nella corsa ad un sistema panpenalistico. Infatti da molti anni - e mi riferisco al legislatore - abbiamo reso tutto penalmente rilevante forse per metterci a posto la coscienza e per andare incontro alla pancia degli elettori. Invece, abbiamo bisogno di depenalizzare, perché oggi le carceri devono essere quello strumento di detenzione per quelle persone che non possono essere diversamente rieducate e riportate all'interno di un contesto sociale. La presenza degli extracomunitari è un fenomeno che nel nostro Paese non ha origini antichissime, perché questo fenomeno si è verificato dal 1994 in poi. Inoltre, vi è una massiccia presenza di tossicodipendenti e anche questo è un problema che dobbiamo affrontare non solo, colleghi della rappresentanza radicale, modificando il Testo Unico sulle sostanze stupefacenti. Una restrizione dei benefici della legge Gozzini. Nella filosofia dei Governi di centrodestra - che io stesso ho condiviso - c'era il principio di consentire l'accesso alle misure alternative previste dalla legge Gozzini non a tutti sempre e indiscriminatamente, ma soltanto a quelle tipologie di cittadini che violavano la legge e che consentissero di immaginare un recupero. Per molto tempo nel nostro Paese si sono dati benefici a tutti e sempre in qualunque circostanza e, quindi, si è creato un sistema di restrizione, un sistema quasi di meritocrazia all'interno di questo ambito. Tuttavia, allo stesso tempo, non siamo stati capaci di attrezzarci per sostenere l'impatto della popolazione di detenuti che sarebbe emersa da questo tipo di politica. Vi sono da considerare, inoltre, le lungaggini processuali. L'affollamento delle nostre carceri non è solo un problema di espiazione della pena, ma un problema complessivo e processuale, collegato alla lungaggine dei processi nel nostro Paese. È vero: la Corte europea dei diritti dell'uomo ci ha sanzionato per il caso di quel detenuto extracomunitario perché non disponeva dei tre metri quadrati ritenuti convenzionalmente il minimo da assegnare ad ogni recluso. Tuttavia, la Corte europea dei diritti dell'uomo ci condanna reiteratamente per la lungaggine dei nostri processi, quindi abbiamo il dovere di porre un rimedio a quella condanna che attira la nostra attenzione sulle condizioni di espiazione della pena dei nostri detenuti, ma anche il dovere di affrontare in maniera organica e sistematica il problema. Ho sentito tanti buoni propositi quest'oggi e mi auguro che, quando si comincerà a parlare di proposte concrete, questi propositi non rimangano soltanto all'interno di un dibattito parlamentare, ma possano diventare anche un fatto concreto di collaborazione. Nella nostra mozione affermiamo che è assolutamente necessario l'intervento di 2 mila agenti della polizia penitenziaria, che non soddisfano neanche la carenza che si ha oggi. Vi sono, infatti, 6 mila appartenenti alla polizia penitenziaria in meno rispetto ad una pianta organica bilanciata ad una presenza penitenziaria di 45 mila unità. Vi sono 65 mila detenuti e ci sono 6 mila poliziotti in meno rispetto ad una popolazione di detenuti di 45 mila. Oltre alle 2 mila unità previste nella legge finanziaria, chiediamo che il Governo si impegni ad assumere tempestivamente ulteriori poliziotti penitenziari. Il carcere non è fatto soltanto di polizia penitenziaria, ma anche di educatori e di assistenti sociali ed abbiamo bisogno di prevedere l'assunzione - chiediamo che il Governo lo faccia - di educatori, oltre che di personale amministrativo: vi sono 3.186 unità in meno di personale amministrativo e non è possibile rispondere con un organico di 700 educatori ad una popolazione di 65 mila detenuti. Quindi anche su questo ci aspettiamo che il Governo assuma impegni concreti e soprattutto che adegui quel fondo di 500 milioni di euro stanziato nell'ultima legge finanziaria e che lo rimpingui per consentire un programma adeguato di edilizia penitenziaria nel quale si prevedano istituti differenziati. I tossicodipendenti non possono e non devono stare in un istituto penitenziario normale. Gli extracomunitari non hanno bisogno, il più delle volte, di quei controlli e di quella disciplina che è necessaria all'interno di un istituto penitenziario. Si devono creare dei centri di accoglienza per l'extracomunitario se non è possibile che vada a scontare la pena all'estero, e anche su questo il Ministro Alfano si è impegnato e si sta impegnando moltissimo per sottoscrivere accordi bilaterali che consentano l'espiazione della pena nei Paesi di origine. Infatti, vi è un vincolo costituzionale per cui è il cittadino che decide dove vuole espiare la pena e se in Italia ci sono, nonostante l'affollamento, condizioni migliori rispetto a quelle che si hanno nei propri Paesi, evidentemente non possiamo sottrarci alla necessità di far scontare la pena nel nostro Paese. Dobbiamo creare delle strutture alternative dove anche gli extracomunitari possano avere la possibilità di accedere a strumenti alternativi di detenzione come i tossicodipendenti. Da un'indagine fatta dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria è venuto fuori che il 20 per cento dei detenuti soffre di patologie psichiatriche. Anche questo è un elemento da prendere in considerazione. Chi soffre di depressione, chi soffre di psicosi, chi soffre di problemi neurologici, ha bisogno di strutture più leggere e specialistiche dove possa alleviare queste patologie e non essere invece inserito in contesti di detenzione normale. Inoltre, vogliamo anche porre mano ad una riforma organica della giustizia a partire - come ho sentito dire - dalle forme alternative di detenzione. Voglio ricordare che il Ministro Alfano qualche mese fa era sul punto di presentare un disegno di legge che introduceva l'istituto della messa alla prova, così come è previsto nell'ordinamento minorile, e ci fu una grande levata di scudi, per la verità anche all'interno della mia maggioranza, che costrinse il Ministro a ritirare quel disegno di legge. Oggi, leggendo le mozioni di tutti i gruppi parlamentari, viene riproposta questa misura. Personalmente ho presentato una proposta di legge in questo senso e auspico che il Ministro riprenda nuovamente questo percorso. Se c'è un istituto che ha ben funzionato e ben funziona all'interno del sistema minorile, non ho capito per quale motivo non possa essere introdotto - visto che stiamo parlando di forme alternative di detenzione - nel nostro sistema. Anche questo servirebbe a deflazionare le nostre carceri, come sarebbe anche importante stabilire una differenziazione nell'espiazione della pena per quei reati che non incutono un particolare allarme e non prevedono una particolare pericolosità sociale. Quindi, queste sono le cose che domandiamo al Governo sulle quali chiediamo un impegno, oltre a favorire tutte le forme possibili di incentivazione al lavoro all'interno degli istituti penitenziari, oltre a prevedere tutte le forme di innalzamento dei livelli assistenziali e sanitari all'interno dei nostri istituti, oltre a prevedere la possibilità di non assistere più a quello scempio di vedere oggi nel nostro Paese 71 bambini all'interno delle nostre carceri. Ci possono essere delle strutture diverse, delle comunità, delle case famiglia all'interno delle quali le donne con figli fino a tre anni possano scontare, in un sistema e in una maniera più civile e più degna, la pena per quello che hanno commesso. Queste sono le cose che noi chiediamo al Governo dopo aver detto che gran parte dei suggerimenti delle mozioni degli altri gruppi sono, per quel che ci riguarda, assolutamente condivisibili. Voglio concludere ancora una volta ringraziando i colleghi della componente dei radicali e dicendo, con la stessa franchezza e con la stessa sincerità con la quale ho evidenziato il loro impegno a portare questo argomento in Parlamento, che mi auguro che non si creino fuori da questo Parlamento delle aspettative con le nostre parole e con le nostre dichiarazioni per quel mondo penitenziario che è giusto che richieda ad uno Stato civile un adeguamento delle condizioni di vita. Ma non creiamo delle aspettative promettendo o facendo immaginare che ci possano essere provvedimenti clemenziali. Noi non riteniamo che questa sia la strada, cioè non pensiamo che si possano deflazionare le carceri con provvedimenti clemenziali. Riteniamo che ci debbano essere provvedimenti strutturali e organici e ci impegniamo ad adottarli, perché non vogliamo sacrificare le esigenze di sicurezza e non vogliamo abdicare alla necessità che vi siano una pena e un'espiazione certa, sia pure in maniera civile. Quindi, anche per quanto concerne il 41-, riteniamo che non possa essere accettata la richiesta di quanti ritengono di dover proporre una modifica. Infatti, per noi il carcere duro non deve essere tale nell'espiazione e nelle condizioni di vivibilità, ma nella impossibilità di mandare all'esterno delle indicazioni e di creare dei contatti con l'esterno. Infatti, l'esperienza ci insegna che la criminalità organizzata (che è una «mala pianta» che non soltanto dobbiamo cercare di far seccare, ma che dobbiamo estirpare e siamo ancora molto lontani da questo risultato) utilizza tutti gli strumenti per poter, anche dalle carceri, inviare ordini al di fuori delle carceri stesse. Quindi carcere duro non violando i principi minimali di convivenza civile all'interno delle carceri, ma carcere duro cercando di evitare le possibilità di contatto con l'esterno per quei soggetti che appartengono ad un mondo che troppo spesso ferisce anche lo Stato, non soltanto i cittadini, con la morte nell'adempimento del dovere di molti suoi servitori. Quindi, ben vengano i suggerimenti e le iniziative che possono portare il nostro Paese ad un livello di civiltà degno della nostra storia e della nostra cultura, ma senza modificare alcune garanzie minimali che sono garanzie per le istituzioni e per i cittadini. Per questo noi chiediamo al Governo un impegno chiaro e siamo sicuri che esso saprà dare le risposte adeguate, pur nella contingenza economica sicuramente non favorevole, pur avendo dovuto affrontare problemi come il terremoto in Abruzzo e la necessità di potenziare gli ammortizzatori sociali e la cassa integrazione, venendo incontro alle esigenze dell'industria per salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro. Credo che il Governo saprà essere capace di interpretare anche l'esigenza di porre fine a questo spettacolo che il nostro Paese non può e non deve permettersi il lusso di consentire .
. È iscritto a parlare l'onorevole Melis. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, lo scorso mese di dicembre ho passato quasi tre ore nel carcere circondariale di Sassari, era la terza volta da quando sono deputato che ho visitato questa struttura. Essa è ancora ospitata in un edificio ottocentesco fatiscente, l'edificio di San Sebastiano al centro della città. Dico «ancora» perché, come più volte ribadito dal Ministro e dal sottosegretario anche in risposta ad una mia specifica interrogazione ormai vecchia di quasi un anno, questo carcere dovrebbe essere interamente trasferito in altro edificio più idoneo, da anni in fase di costruzione; solo che l'inaugurazione del nuovo complesso, prevista tassativamente entro il 2010, slitterà quasi sicuramente - dicono notizie oramai ufficiali - almeno al 2011, se non oltre. Intanto però questo edificio è in funzione ed è, senza timore di smentite, il peggior carcere che abbiamo in Italia, ed è per questo motivo che ho cominciato citando questa situazione. Si tratta di una costruzione, come ho detto, fatiscente: il piano superiore è a rischio di crollo e perciò è stato sgombrato; 200 detenuti sono ammassati in celle anguste - altro che standard europei! - con quattro o sei persone in celle di tre metri per due, senza luce, con poca aria, al caldo d'estate e al freddo d'inverno. Il mese scorso il riscaldamento centrale era interrotto perché il fornitore della nafta non era stato pagato dal Ministero; esistono anche queste miserie nella situazione che stiamo descrivendo. Ci sono delle condizioni di promiscuità subumane; 125 tossicodipendenti, come diceva il collega Vitale. Il personale di grande professionalità è umiliato, ampiamente sotto organico: su una pianta di 212 solo 168 sono in servizio effettivo. L'ora d'aria avviene in uno squallido cortile riparato da una tettoia di lamiera; sui servizi igienici è meglio soprassedere; vi sono gravi problemi perfino nell'assicurare la pulizia ordinaria dei locali. La direttrice del carcere di Sassari mi ha riferito che i tagli recenti incidendo sul capitolo delle mercedi - un'inezia sembrerebbe - impediscono di utilizzare i detenuti nelle piccole pulizie quotidiane; sicché anche questo aspetto sta peggiorando velocemente. Signor Presidente, Sassari non è un'eccezione, ho visitato l'anno passato diverse carceri: a Rebibbia nuovo complesso a Roma, un carcere molto più moderno, i problemi strutturali che ho elencato si ripresentano puntualmente. Anche in questo caso c'è poco personale, demotivato, lasciato a se stesso; locali ampiamente insufficienti a contenere un flusso di detenuti sovradimensionato; detenzione comune tra condannati a reati anche gravissimi e persone in attesa di giudizio. A Rebibbia nuovo complesso un folto gruppo di detenuti di nazionalità romena, condannati in primo grado per reati vari, ha chiesto di poter scontare la pena nel proprio Paese, rinunciando perciò ad esperire l'appello contro le sentenze che li condanna, ma non ci riescono. Abbiamo interrogato su questo specifico punto il Ministro che ci ha dato ampie rassicurazioni, ma siamo ahimè sempre al punto di prima, perché in Italia non solo non si fanno le riforme grandi ma neppure si mettono in pratica i rimedi piccoli, quelli che intanto potrebbero alleviare almeno un poco situazioni già gravemente compromesse. A Rebibbia c'era in luglio un detenuto romeno - ci ho parlato a lungo - ammalato di cancro. Gli erano state interrotte le cure anche per effetto del disordine nel quale è avvenuto il passaggio dalla sanità gestita dal Ministero della giustizia alla sanità gestita dalle ASL, con interruzioni, spesso, dell'assistenza. Anche in relazione a questo episodio una mia interrogazione sul punto al Ministro competente è rimasta, dopo oltre sei mesi, senza risposta. La sequenza dei morti nelle carceri italiani è impressionante, l'hanno ricordato già molti colleghi, muoiono persone giovani, giovanissime. Nel 2009 ci sono stati 171 morti, undici nel solo mese di novembre, dei quali otto in giovane età, stroncate dal mal di carcere, suicidi, morti che spesso restano senza una spiegazione. I detenuti morti in questo modo dall'inizio dell'anno sono 159, 72 sono i suicidi accertati, ma chissà quanti sono, invece, i suicidi reali e il 60 per cento di questi detenuti era in attesa di giudizio. In Italia ogni anno muore in carcere un detenuto su mille, dicono le statistiche, contro il dato, per esempio, degli Stati Uniti che è di un detenuto su quattromila. I quotidiani degli ultimi giorni hanno provato a stilare l'elenco di questi morti sconosciuti: se ne perde il conto. Voglio qui ricordare, a titolo di mero esempio, due casi, ancora di detenuti romeni, perché mi sto occupando in particolare di questa popolazione carceraria: quella di Cristian Lupu, a Frosinone, di 24 anni, suicidatosi, secondo i carabinieri, dando testate sulle pareti della cella nella quale era custodito (ma l'espressione «custodito» naturalmente è un eufemismo!) e quello avvenuto la scorsa settimana di Sorin Kalin, a Montecatini, morto in caserma, secondo fonti ufficiali, per essersi suicidato. Nessuno ne sa più nulla. Di recente ho visitato la struttura dell'ospedale Pertini di Roma, dove è morto il povero Stefano Cucchi, un caso sul quale il vicesegretario del mio partito, l'onorevole Enrico Letta, ha poco tempo fa sollecitato energicamente il Presidente del Consiglio ad intervenire di persona ed ha fatto benissimo. Questo ragazzo, che avrà fatto pure fatto uso di droghe, che avrà pure commesso i reati che gli si addebitavano, è stato prelevato dai carabinieri e, da quel momento, era quindi sotto la responsabilità dello Stato italiano ed è deceduto perché selvaggiamente percosso, non si riesce ancora a sapere da chi, come, perché, in quali circostanze e in quali luoghi nella colpevole inerzia di tutte le strutture che lo hanno avuto in custodia. Nessuno, dico nessuno, dei medici che l'hanno visitato (e sono stati quattro o cinque, non ricordo bene) ha sentito il bisogno e il dovere di denunciare quanto stava accadendo all'autorità giudiziaria, come sarebbe stato suo preciso dovere. Signor Presidente, ma in quale Paese viviamo? Di casi come questo di Stefano Cucchi, venuto alla luce anche per il coraggio ed il senso civico dei suoi familiari, come è stato ricordato dall'onorevole Rao, ce ne sono moltissimi, censurati, letteralmente sepolti nell'indifferenza delle autorità, nella debolezza stessa di chi li subisce e non ha la forza e il coraggio di denunciarli. Siamo un Paese a democrazia limitata perché solo in questo modo si può definire una situazione nella quale il sistema delle garanzie costituzionali non riesce ad oltrepassare i cancelli del carcere. Molte cose si potrebbero e si dovrebbero fare. Non ci venite a dire che tutto si risolverà con il piano carceri però, siamo stanchi di sentir parlare di questo fantomatico piano carceri, ne sentiamo parlare ormai da più di un anno. Il Ministro stesso ammette che i finanziamenti non sono disponibili. Qui il problema è molto più serio, richiede intanto una presa d'atto da parte dell'intera classe dirigente, a cominciare dalla politica. Mi auguro che l'occasione dell'esame di queste mozioni possa essere l'inizio della riflessione collettiva che dobbiamo svolgere, innanzitutto su una politica concreta di depenalizzazione - ha ragione l'onorevole Vitali - di ricerca di pene alternative, l'esatto contrario di quanto state facendo, però, da quando siete al Governo, penalizzando sino al parossismo ogni angolo del codice. Il reato di clandestinità, che tanto ha gravato nel riempire le nostre carceri, non l'abbiamo inventato noi, l'avete inventato voi e ce lo avete imposto a colpi di voti di fiducia. Credo che la situazione richieda anche un po' di umiltà: ci sono cose anche piccole che possono essere fatte subito, allora facciamole, anche insieme. Mi fa piacere ricordare qui una battuta dell'onorevole Lener che, parlando di carceri, qualche tempo fa, suggerì con un'espressione forse un po' cruda, ma che rende bene l'idea, di applicare - diceva - la raccolta differenziata, evitando di mettere insieme detenuti condannati e pluricondannati con persone in attesa di giudizio o condannate a pene lievi distinguendo la detenzione per tipi di reati. Magari, aggiungo, affrontando il paradosso che un'altissima percentuale di ospiti nelle nostre carceri trascorre in detenzione solo pochi giorni e poche notti (l'effetto «porta girevole», come l'ha chiamato una volta l'onorevole Tidei). Ciò suggerisce che si potrebbero subire altre forme meno invasive e pesanti di carcerazione provvisoria. Mi ha molto colpito quello che ha detto l'onorevole Vitali oggi ed è significativo che lo dica un esponente della maggioranza, ma alle parole naturalmente bisogna far seguire i fatti. Bisogna, insomma, affrontare il problema in tutte le sue reali dimensioni, da quelle strutturali a quelle più occasionali, sulle quali è possibile intanto agire immediatamente e naturalmente accrescere l'investimento. Non si può, infatti, applicare il «Tremonti pensiero», tagliando in maniera uniforme dappertutto: non tutte le materie hanno la stessa valenza. Questa è una materia che ha un nesso con la civiltà giuridica del nostro Paese e non si possono fare risparmi e consistenti tagli in una materia come quella che ci troviamo di fronte. Dobbiamo essere capaci di scegliere e la scelta ci deve indurre a non tagliare sulle carceri. È possibile agire, naturalmente è possibile accrescere l'investimento, non tagliare fondi, assumere il personale che necessita, curarne di più la selezione e la formazione. Il carcere è una grande questione nazionale e sarebbe ora che venisse messa nell'agenda del Governo e del Parlamento nel posto che le spetta .
. È iscritto a parlare l'onorevole Tidei. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il nostro sistema penitenziario, come già detto, versa in una condizione drammatica e direi sicuramente vicina al collasso. Il problema fondamentale è arcinoto ed è quello del sovraffollamento ormai a livelli insostenibili. L'ultimo dato del Dap, come è stato già detto, al 7 dicembre riferisce di 65.780 detenuti di cui quasi il 38 per cento stranieri e quasi la metà in attesa di giudizio definitivo. Siamo nella situazione di oltre 22 mila unità in più rispetto alla capienza regolamentare dei 206 istituti: un esborso astronomico per le casse dello Stato. Se è vero come risulta che un detenuto costa 300 euro al giorno, si tratta di un salasso di quasi 20 milioni di euro al giorno. Il sovraffollamento, certamente quantitativo ma anche qualitativo, è diventato ormai una vera e propria pena accessoria - questo è il problema - per i reclusi che costringe in pochissimi metri quadrati, giovani e adulti, imputati e condannati di diverse razze e religioni, sani e con problemi di tossicodipendenza quando non addirittura di sieropositività: tutti costretti a convivenze difficilissime. Inutile dire come tale situazione ostacoli la possibilità di un proficuo contatto con gli operatori penitenziari dediti al trattamento, impedendo di fatto ogni tentativo di risocializzazione del detenuto che l'articolo 27 della Costituzione invece garantisce. Ci sono stati casi assurdi denunciati dall'Osapp come quello di Milano San Vittore, dove i reclusi sono più di 1.500 a fronte di una capienza di regolamento di 800 posti letto, o quello di Napoli, Poggioreale, dove la situazione è, se possibile, ancora peggiore con circa 2.700 detenuti dove al massimo ce ne potrebbero essere 1.400, e con camerate da 15 posti letto che ne ammassano 40 con letti a castello fino al quarto piano (e stiamo parlando di letti a castello). A fronte di una media di mille nuovi ingressi al mese, a fine 2009 si è arrivati quasi a 66 mila detenuti. Le strutture carcerarie italiane non appaiano assolutamente in grado di sopportare a lungo un simile carico umano. La Corte europea dei diritti dell'uomo, è stato già detto, con sentenza del 16 luglio 2009 ha condannato per la prima volta l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali proprio a causa delle disumane condizioni di detenzione sopra indicate. Il noto piano straordinario carceri del Governo, atteso ormai da aprile, appare come l'araba fenice. La mancanza di risorse è drammatica e i 500 milioni di euro della legge finanziaria per l'anno 2010 permetteranno eventualmente solo un primo stralcio dei lavori, senza contare che i tempi medi di realizzazione di nuove carceri, tra gare, ricorsi al TAR e intoppi vari, non sono certamente inferiori a cinque anni. Voglio qui riferire di un fatto che la stessa trasmissione ci ha più di una volta documentato. Famoso è il carcere di Gela: dotato di 48 celle, tutte con servizi igienici, progettato nel 1959, finanziato nel 1978, cantiere aperto nel 1982, ultimato mezzo secolo dopo la progettazione, è stato inaugurato dall'allora Ministro della giustizia Mastella nel novembre 2007. Il provveditore regionale siciliano all'amministrazione penitenziaria, Orazio Faramo, ne ha ipotizzato l'apertura il 1o luglio 2010. Dal 1959 al 2010! Incredibile, è passato mezzo secolo dal momento in cui è stato progettato al momento in cui sarà, se sarà, aperto nel luglio 2010. Appare, quindi, miope l'atteggiamento del Governo, che, nel puntare solo sull'edilizia carceraria, in maniera più lungimirante dovrebbe, invece, attuare una seria politica di depenalizzazione, affiancata ad un ripensamento delle normative sulla sicurezza dei cittadini, volte alla sola repressione sul versante penale. Allo stesso modo, appare necessaria un'azione riformatrice, volta all'ampliamento dell'applicazione delle misure alternative. Se ne parla, se ne parla, ma difficilmente, poi, si va su questo sentiero, che è quello probabilmente più necessario. Da qualche anno il sistema delle misure alternative è statisticamente in netta discesa. In particolare, i tossicodipendenti, che sono autori per lo più di reati non gravi, andrebbero «decarcerizzati». È necessario trovare uno strumento che ne permetta l'uscita dal circuito detentivo e l'inserimento in strutture sanitarie protette, a custodia attenuata, che permettano di conciliare le esigenze di cura con quelle rieducative, perché sappiamo tutti che dentro il carcere il tossicodipendente non viene curato, non viene assolutamente risocializzato. In generale, la sanità penitenziaria appare lontana dall'assicurare a tutti i detenuti il diritto alla salute costituzionalmente garantito. Il passaggio a regime delle competenze del Servizio sanitario avanza a macchia di leopardo e le dotazioni finanziarie alle regioni arrivano con il contagocce. Più di una ha dovuto mettere mano al portafoglio, magari solo per l'acquisto di medicine. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il 2 per cento dei detenuti è portatore di HIV; il 17,9 per cento, cioè circa il 18 per cento, è risultato positivo al test della TBC: parliamo di tubercolosi, malattia che pensavamo praticamente debellata. Il 38 per cento dei detenuti soffre di epatite e ben 15 mila risultano essere tossicodipendenti. Di questi, soltanto il 4,5 per cento è in trattamento metadonico, solo il 4,5 per cento. Pensiamo, poi, che negli ultimi dieci anni, come è stato già detto, su 1.500 detenuti che sono morti nelle nostre carceri, ben un terzo sono morti per suicidio. Regime alimentare, mancanza di movimento, scarsa salubrità degli ambienti, grande consumo di sigarette - è ovvio, inevitabile - sono alcuni dei fattori che tendono a spiegare perché fra i carcerati siano maggiormente diffuse, rispetto alla popolazione libera, malattie quali quelle cardiologiche, che in genere colpiscono persone più giovani rispetto all'esterno, le broncopneumatie croniche ostruttive e le patologie osteoarticolari. La diffusione degli psicofarmaci - ne parlava l'onorevole Vitali - spesso introdotti abusivamente in carcere, testimonia un disagio e una scarsa tutela della salute mentale, che avrebbe, invece, un ruolo decisivo nella prevenzione dei fenomeni di autolesionismo, più o meno gravi, e indiscutibili effetti positivi anche nella custodia. È indubbio che in carcere si muoia troppo spesso, a volte in situazioni poco chiare. Nel recente «Morire di carcere», scriveva Ristretti Orizzonti, esiste un protocollo per quanto riguarda la gestione dei casi a rischio di suicidio. Badate bene, questo è un fatto che credo dobbiamo tenere bene a memoria: il detenuto viene messo in cella di isolamento, una cella che a volte, in termini tecnici, viene detta «liscia». Significa, cioè, che dietro le sbarre non ci sono oggetti che il carcerato possa usare: non c'è una branda, non ci sono coperte né armadietti, nessun lenzuolo e nemmeno il bagno. L'isolamento spesso è accompagnato dalla camicia di forza chimica, ovvero dagli psicofarmaci. Per 60 suicidi che avvengono, ogni anno ci sono 500 tentativi. Il 70 per cento di questi tentativi viene sventato dai compagni di cella. È per questo che viene contestato dagli addetti ai lavoratori e dalle associazioni di settore l'isolamento come strumento di prevenzione, tant'è che non è così. Più in generale, il regolamento di esecuzione dell'ordinamento carcerario prevederebbe centri clinici e chirurgici dislocati sul territorio nazionale per rispondere alle necessità sanitarie della popolazione. Eppure, in tutto il territorio nazionale, ve ne sono soltanto due: uno a Pisa e uno a Roma, a Regina Coeli. E nel resto dell'Italia cosa è successo? Va detto infine, a dimostrazione di quanto sopra, che oggi il trasferimento al Servizio sanitario nazionale, che doveva avvenire dal 1o ottobre 2008, non c'è stato, di fatto. Le risorse non ci sono; sui 157,8 milioni di euro che dovevano essere attribuiti nel 2008 ne sono stati assegnati solamente 32; il che significa che il resto è stato messo dalle regioni: come segnalato in numerose interrogazioni parlamentari, in gran parte delle regioni pochi soldi sono arrivati, e sono state poi le regioni stesse, più oculate, che hanno dovuto anticipare risorse per garantire livelli minimi di assistenza ai detenuti. Un esempio per tutti: è passato oltre un anno dall'entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1o aprile...
. La invito a concludere.
. Un altro minuto e ho concluso, signor Presidente. E anche qui dobbiamo dire che tutte le proposte, tutte le indicazioni non sono state minimamente attuate. Peccato che l'onere di tutto ciò sinora ha gravato sulle regioni che hanno autonomamente attivato iniziative interessanti. In ultimo - e concludo, signor Presidente - è la situazione del personale che va assolutamente adeguata alle impellenti esigenze dettate dal sovraffollamento: mancano 6 mila agenti, 500 educatori e altri assistenti sociali, personale di custodia e di trattamento, che la grave carenza costringe a lavorare in condizioni drammatiche, difficili e frustranti, rendendo peraltro difficile - e questo è importante - la valutazione della magistratura di sorveglianza sull'applicazione dei benefici carcerari e delle misure alternative. Vorrei quindi concludere con le stesse parole con cui pochi giorni fa si è chiuso un convegno a Palazzo Valentini sul sistema carcerario. Successivamente alla legge cosiddetta Gozzini si parlò con entusiasmo del «carcere della speranza»: dopo oltre dieci anni di proposte, di dibattiti e di totale indifferenza, dico io, è il caso di parlare di «carcere della disperazione», e tale rimarrà se Governo e Parlamento non considereranno prioritaria e centrale la riforma del sistema carcerario e di quello giudiziario. Altro che riforme che non risolveranno mai questi problemi, ma che forse salveranno il Capo del Governo dai processi . Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.
. Onorevole Tidei, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. È iscritto a parlare l'onorevole Baldelli. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, il dibattito in corso sulla situazione del sistema carcerario italiano incrocia diverse sensibilità e diversi punti di vista da parte dei rappresentanti dei diversi gruppi. Si è parlato unanimemente di sovraffollamento, e sotto la voce «sovraffollamento» in realtà si annidano diverse altre questioni molto importanti, che non attengono soltanto alla quantità dei detenuti presenti nelle carceri italiane. Vi sono, è vero, questioni che riguardano l'edilizia carceraria, vi sono questioni che riguardano la presenza di molti detenuti in custodia cautelare: il collega e amico Vitali ha fornito cifre concrete da questo punto di vista, esemplificative della situazione carceraria presente in questo momento. Vi sono però poi questioni relative a persone detenute in custodia cautelare, relative all'eccessiva lunghezza dei nostri processi; vi sono quantità importanti di stranieri, spesso extracomunitari, e la questione dei rimpatri di tali stranieri. Vi è, ancora, la questione dei tossicodipendenti in carcere, di coloro che sono in carcere per reati legati al Testo unico sulle tossicodipendenze. Vi sono patologie psichiatriche, citate in ultimo dal collega che ha parlato prima di me, e inoltre la questione delle condizioni sanitarie, del contributo al sistema sanitario che le regioni devono fornire, le condizioni dei rapporti familiari dei detenuti, il problema dei bambini, 71 bambini attualmente detenuti nelle carceri italiane. Abbiamo poi l'altro versante, quello di coloro che nel carcere operano, quindi la polizia penitenziaria sotto organico, con la necessità di un numero maggiore di educatori, un numero maggiore di assistenti sociali, di psicologi, di psicoterapeuti, e la questione del lavoro in carcere, e di un binario di reinserimento per coloro che vivono l'esperienza carceraria e scontano la pena. Tutti questi elementi sono all'ordine del giorno di questo dibattito, e sono oggetto delle mozioni presentate dai gruppi. Ritengo che il Ministro Alfano e il sottosegretario Caliendo che, in rappresentanza del Ministero oggi è qui a seguire con attenzione la questione in oggetto, abbiano dato prova, nel corso di vicende che hanno riguardato la situazione delle carceri italiane, di una grande sensibilità su questo tema che è, lo sottolineo, molto importante. Credo anche che le parole - le ricordava il collega Rao nel corso di questa discussione sulle linee generali - pronunciate dal Capo dello Stato sul medesimo tema nel suo intervento di fine anno, siano certamente da cogliere come un auspicio. Questa discussione sulle linee generali stessa è un segnale importante di un'attenzione del legislatore al tema in oggetto, alla popolazione carceraria e agli operatori che lavorano all'interno del medesimo contesto. Credo che tutte queste proposte, delucidate dal collega Vitali nella mozione che porta la sua prima firma, siano importanti, serie e in grado di dare risposte anche concrete a molte delle questioni - forse non a tutte - emerse all'interno di questo dibattito. Credo che il tema centrale sia quello di riuscire a commisurare in maniera dignitosa le due grandi funzioni che la nostra Costituzione attribuisce al sistema carcerario anche cercando pene alternative, senza inseguire sempre e comunque la deriva di penalizzazione di qualsivoglia reato, come giustamente diceva l'onorevole Vitali, ma cercando di commisurare, da un lato, la funzione punitiva della pena e, dall'altro, quella rieducativa, ben sapendo che le condizioni carcerarie sono lo specchio della civiltà di un Paese. Pertanto, anche le condizioni delle carceri italiane devono essere all'altezza di una grande civiltà di un Paese, la cui storia e in specie l'opera di Cesare Beccaria testimonia una sensibilità su questo tema. Credo che il Governo possa impegnarsi e fare molto, che stia dando segnali importanti e che possa cogliere l'occasione di questo dibattito per dare ulteriori segnali importanti di attenzione per la soluzione dei problemi in oggetto che sono - lo ripeto - la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese democratico, civile e moderno come l'Italia è e deve continuare ad essere .
. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Ghiglia ed altri n.1-00269, concernente iniziative per la riduzione delle emissioni di gas serra con particolare riferimento allo sviluppo delle reti di ricarica dei veicoli elettrici sul territorio nazionale . Ricordo che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati per la discussione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea . Avverto che sono state presentate le mozioni Piffari ed altri n. 1-00303 e Libè ed altri n. 1-00306 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente . I relativi testi sono in distribuzione. Avverto altresì che la mozione Ghiglia ed altri n. 1-00269 è stata riformulata dai presentatori. Il relativo testo è in distribuzione.
. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni. È iscritto a parlare l'onorevole Ghiglia, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00269 . Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, l'argomento che trattiamo oggi - e ringrazio anche i colleghi degli altri gruppi parlamentari di avere voluto a loro volta presentare delle mozioni sullo stesso tema - è estremamente importante e, oserei dire, qualora le mozioni fossero approvate, rivoluzionario. L'Italia potrebbe così diventare un Paese-pilota nella infrastrutturazione di una rete di ricarica per veicoli elettrici dando così un contributo sostanziale, effettivo e visibile alla lotta contro le emissioni di gas serra. Ancora oggi infatti, nel nostro Paese la strada rappresenta il mezzo di trasporto prevalente per quanto concerne la mobilità, soprattutto quella urbana, e circa il 90 per cento della mobilità totale del Paese. Negli ultimi anni le città hanno registrato un aumento esponenziale del traffico automobilistico, che rappresenta una delle cause di maggior inquinamento e di maggiore produzione di sostanze nocive nell'ambiente, soprattutto nelle grandi aree urbane. Ciò è dovuto alla scarsa efficienza che sovente si riscontra nell'infrastrutturazione del trasporto pubblico, ma sicuramente anche al fatto dell'alto tasso di inquinamento prodotto dalla stragrande maggioranza dei mezzi in circolazione (nonostante gli sviluppi della tecnologia dei motori di nuova generazione, che hanno sicuramente contribuito a ridurre le emissioni nell'ambiente). Solo per citare l'ultimo degli atti cui l'Italia ha aderito, nel 2008 il Governo ha sottoscritto appunto il pacchetto «clima-energia» per la riduzione del 20 per cento delle emissioni di CO2, per l'incremento dell'efficienza energetica del 20 per cento e per l'aumento, sempre del 20 per cento, della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Tuttavia, riteniamo che proprio per perseguire questi obiettivi al meglio sia necessario imprimere una svolta che veda nella infrastrutturazione di una rete di ricarica dei veicoli elettrici uno dei punti attraverso cui affrontare in maniera efficace e veloce quella che potrebbe essere una riduzione dei gas nocivi, questione che spesso viene affrontata - parlo ovviamente delle città, dei comuni e delle grandi aree urbane - in maniera estremamente estemporanea ed episodica (come ad esempio accade con la chiusura al traffico privato di porzioni di città sempre maggiori nel tentativo di diminuire le emissioni nocive). Peccato che questi provvedimenti servano soltanto a spostare il problema di qualche isolato, a congestionare maggiormente il traffico nelle aree limitanee a quelle bloccate, ma non abbiano assolutamente alcun tipo di incidenza reale sulla qualità dell'aria, salvo quella - queste iniziative sono trasversali, e da questo punto di vista non vi sono comuni particolarmente virtuosi - di vessare i cittadini, soprattutto quelli a reddito più basso che si trovano spesso nella impossibilità di cambiare veicolo e nella conseguente impossibilità di poter usare il loro vecchio veicolo per poter circolare liberamente nelle loro città di appartenenza. È vero che questi veicoli di vecchia generazione (gli euro 0, gli euro 1, gli euro 2 e via dicendo) sono molto inquinanti, ma è altrettanto vero che il blocco del traffico, le zone a traffico limitato, le telecamere e i vari tipi di non hanno assolutamente contribuito a migliorare la qualità dell'aria e dell'ambiente (anche perché sfortunatamente questi gas, queste sostanze tossiche e nocive circolano liberamente indipendentemente dalle barriere cittadine ed urbane nelle quali le si vorrebbe confinare). Le sostanze responsabili dell'inquinamento ambientale, soprattutto nelle grandi aree urbane, sono in crescita decisa e ciò ovviamente è dovuto, come ho detto prima, all'aumento del traffico. Soltanto l'innovazione tecnologica è in grado di fornire nel breve e medio termine una risposta concreta ed efficace alla lotta contro l'inquinamento ambientale, aiutando quindi lo Stato e gli enti locali a controllare e a contenere l'emissione di sostanze inquinanti, nel rispetto degli standard comunitari ed internazionali. A tale proposito, nel 2009 un'iniziativa importante è stata adottata dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, che si è fatto promotore del finanziamento dell'installazione di dispositivi per l'abbattimento delle emissioni di particolato dei gas di scarico su veicoli di classe euro 0, euro 1 ed euro 2 di proprietà di aziende che svolgono servizi di pubblica utilità. Questa è stata un'iniziativa importante da parte del Ministero; giova ricordare, infatti, che in molte città, in molte aree metropolitane, si impedisce il traffico privato a quei motori che, invece, sono ancora usati per il trasporto pubblico; quindi, il privato non può circolare liberamente, ma il comune può liberamente usare degli autobus altamente inquinanti. Questa è una disparità di trattamento; è una limitazione alla libera circolazione del traffico che non è ulteriormente accettabile. L'iniziativa del Ministero, dunque, è stata particolarmente positiva, ma dobbiamo fare un ulteriore salto di qualità. A nostro avviso i veicoli elettrici a batteria sono oggi una delle soluzioni tecnicamente disponibili in grado non soltanto di ridurre ad «impatto zero» le emissioni di polveri sottili nell'ambiente, ma anche di garantire degli enormi risparmi energetici. Le nuove batterie, quelle di nuova generazione (c'è un'evoluzione continua in questo settore), sono in grado ormai di raggiungere autonomie di percorrenza che vanno oltre 250 chilometri. Il peso di queste batterie viene continuamente ridotto e molte aziende private a livello mondiale, con particolare riferimento al Giappone e alla Cina, stanno investendo e gran parte della loro ricerca è finalizzata allo sviluppo dei motori elettrici di ultima generazione, perché sono gli unici ad assicurare un impatto ambientale ed un inquinamento zero (altra cosa è lo smaltimento delle batterie, ma non è oggetto della discussione di oggi) che, unitamente al metano e ad altri tipi di combustibili, può rappresentare oggi un'alternativa valida, e già presente, rispetto al trasporto privato. Oggi, quindi, non vi sono logiche economiche che possano o debbano frenare lo sviluppo dell'auto elettrica. L'ultimo salone dell'auto di Tokio - lo voglio ancora sottolineare - aveva in mostra l'80 per cento dei veicoli elettrici. È decisiva la creazione di una grande rete infrastrutturale di ricarica per i veicoli elettrici. Non serve soltanto investire in tecnologia, questo lo fanno le aziende, ma occorre investire in una rete che dia la possibilità di circolare liberamente a chi, dando il proprio contributo alla tutela dell'ambiente, intende acquistare e servirsi di un'auto elettrica. Occorre assicurare a questi soggetti una rete, un'infrastrutturazione che dia la possibilità di circolare liberamente. Si tratta di una svolta importante. L'avvento della locomotiva a vapore ha richiesto la costruzione delle ferrovie. La diffusione del motore a combustione ha richiesto strade e autostrade. L'affermazione e l'utilizzo dell'auto elettrica richiede lo sviluppo di infrastrutture per la ricarica di veicoli e, soprattutto, una standardizzazione dei sistemi di alimentazione dal punto di vista delle variabili elettriche, della tensione, della corrente, della frequenza, nonché la definizione di opportune norme di sicurezza. La realizzazione di questi interventi infrastrutturali finalizzati all'eliminazione degli ostacoli alla diffusione della propulsione elettrica passa necessariamente attraverso l'azione coordinata e sinergica tra Stato, enti locali, industria, gestori delle reti stradali, degli spazi pubblici e privati destinati ai parcheggi. Per questo motivo, unitamente all'onorevole Bocchino, all'onorevole Iannaccone, ai colleghi della Lega Nord e di altri partiti della maggioranza, abbiamo presentato questa mozione che impegna il Governo ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, una serie di provvedimenti finalizzati a creare un sistema di ricarica dei veicoli - a partire dalle aree urbane - applicabile estensivamente sia nell'ambito del trasporto privato che pubblico, e che sia compatibile con quanto in fase di sviluppo in tutti i Paesi dell'Unione europea, al fine di garantire l'interoperabilità dei sistemi in ambito internazionale; ad introdurre procedure di gestione del servizio di ricarica facendo leva sulle peculiarità e potenzialità dell'infrastruttura del contatore elettronico, con particolare attenzione all'assegnazione dei costi di ricarica al cliente che la effettua, alla predisposizione di un sistema ad applicazioni tariffarie differenziate, alla regolamentazione dei tempi e dei modi di ricarica, coniugando le esigenze dei clienti con l'ottimizzazione delle disponibilità di rete elettrica, assicurando la realizzazione di una soluzione compatibile con le regole del libero mercato che caratterizzano il settore elettrico. Impegna, altresì, a prevedere da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare la possibilità di cofinanziare (e quindi abbiamo richiesto nella nostra modifica di dotare il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di apposite risorse) le spese sostenute per l'installazione degli impianti e per i progetti presentati dalle regioni e dagli enti locali relativi allo sviluppo di infrastrutture per la ricarica dei veicoli. Impegniamo, inoltre, il Governo a prevedere, di concerto con i Ministeri dello sviluppo economico e delle infrastrutture e dei trasporti, le regole per garantire uno sviluppo unitario delle reti di ricarica sul territorio nazionale. È evidente che anche in questo caso si tratta di un impegno molto importante perché, mentre esistono in Italia molti progetti pilota, sarebbe abbastanza paradossale che, nel momento in cui finalmente veniamo ad interessarci in maniera così evidente e impegnata da parte di tutti dell'infrastrutturazione elettrica, vi fosse poi una differenziazione di sistemi che rendesse impossibile interagire fra comuni, impedendo quindi un'infrastrutturazione di carattere veramente nazionale. Auspico che questa mozione possa essere approvata dalla Camera. Restiamo ovviamente disponibili anche al contributo di altre forze politiche in modo tale che si possa fissare, una volta per tutte, il principio che in Italia potrà nascere nel breve termine una rete nazionale di infrastrutturazione dell'offerta elettrica .
. È iscritto a parlare l'onorevole Piffari che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00303. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, colleghi, rappresentanti del Governo, anche l'Italia dei Valori ha voluto contribuire in questo momento a sollecitare il Governo e il Parlamento ad adottare provvedimenti a tutela del nostro ambiente e del nostro territorio con particolare richiamo naturalmente al danno che ci sta creando questo, così definito, gas serra, che è un qualcosa di molto più complicato rispetto a quello che sembra. I mezzi di trasporto privati sono responsabili della maggior parte delle emissioni di CO2 nelle nostre città. Un recente rapporto dell'associazione «Amici della terra» ha denunciato come nel periodo compreso tra il 1990 e il 2006 in Europa le emissioni di gas serra, quelle prodotte naturalmente dai veicoli a motore, sono aumentate ben del 25 per cento, e l'Italia è quella che presenta comunque l'incremento maggiore (quindi oltre la soglia del 25 per cento). La voce trasporto, di cui quello urbano compone una fetta molto significativa, rappresenta in Italia circa un terzo delle emissioni totali di questi malefici gas serra. Una quantità di veleni - sottolineo il termine «veleni» - ancor più impressionante se si considera che per grossa parte viene prodotta e respirata nelle grandi città, ovvero nelle zone più densamente abitate del nostro Paese. Vorrei richiamare l'attenzione quindi sul fatto che non vi è solo il problema del surriscaldamento della terra cui oggi la definizione gas serra ci richiama. C'è un problema ben più impellente, che ogni giorno fa una strage, che è quello delle polveri sottili, che noi abbiamo cominciato a conoscere come PM10, sigla che richiama le loro dimensioni microscopiche, solo che il PM10 è - tanto per far capire - molto più piccolo del diametro di un nostro capello. Ma non c'è solo il PM10: i ricercatori ormai hanno chiarito che le polveri sono anche di dimensioni più piccole. Ci sono i PM7, fino a 7 micromillimetri, molto più piccoli di un capello, che riescono comunque a penetrare la cavità orale e nasale. Sappiamo che al di sotto di questa dimensione e fino a 4,5-4,7 micromillimetri penetrano nella laringe e cominciano a intaccare la trachea e i bronchi primari. Ma quando divengono molto più piccoli vanno ad attaccare i bronchi secondari, i bronchi nominali e gli alveoli polmonari. Di fatto vanno a devastare tutto l'apparato respiratorio del nostro corpo umano. Queste polveri sottili ormai sappiamo che fanno decine, centinaia e migliaia di morti: soltanto in Italia sono state quantificate nelle nostre grandi città in circa 7 mila morti all'anno. Oltre a questo bisogna considerare il danno che si continua ad arrecare alle generazioni future, ai nostri bambini e ai nostri ragazzi che sono quelli strutturalmente più deboli e i più soggetti a respirare nelle nostre città questi continui gas serra, in realtà veleni. Infatti, purtroppo, sono emessi dalle automobili ad un livello molto basso. Noi oggi li rileviamo ad altezze di un metro e mezzo o due metri. Le centraline sono collocate sopra le automobili anche a difesa dell'eventuale sabotaggio o a cattivi usi da parte dei cittadini, ma in realtà vi sono stati studi al suolo, sulle foglie cadute che dimostrano invece che purtroppo le quantità rilevate all'altezza del bambino sono superiori rispetto a quanto le centraline nelle città rilevano. Vi sono studi fatti da istituti scientifici non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti, in Olanda, in Canada e anche in Inghilterra dove sono state prese a campione proprio le fasce di età relative ai ragazzi. È ormai consolidato e accertato che in queste fasce sino ad 11 anni la capacità di respirazione di queste nuove generazioni è ridotta del 5-7 per cento. Quindi c'è un incremento ormai accertato di malattie bronchiali e asma che poi degenerano in tumori. Queste particelle sottili che risultano dalle combustioni dei motori sono capaci come abbiamo detto di penetrare nel profondo dei polmoni. Sono veleni chimici, di fonte minerale, che portano anche ad alterazioni cardiache e non solo respiratorie. È ormai accertato che ogni aumento di 10 microgrammi di queste polveri sottili provoca, in una città di un milione di abitanti, 340-370 nuovi decessi in un anno. Queste fonti di ricerca le abbiamo ormai in città come Roma, Milano, Napoli e Torino e sono abbastanza simili città per città. Vi sono diversi centri di ricerca che si sono cimentati nell'approfondire questi dati. Non si tratta dunque soltanto di qualche ricercatore che vuole allarmare le popolazioni e, quindi, i criteri di limitare il traffico urbano non vanno visti come uno spostamento locale di un veleno o più semplicemente di un'automobile che dal centro della città viene spostata in periferia. C'è assolutamente necessità di ridurre il traffico urbano. È una necessità importante come le battaglie che facciamo per ridurre i morti sul lavoro e per ridurre gli incidenti stradali. I numeri sono veramente allarmanti e per di più, come ripeto, vanno ad intaccare le future generazioni. In quest'ottica quindi noi cerchiamo di analizzare la questione della riduzione dei gas serra. È un problema che rende fondamentale il potenziamento del trasporto pubblico e la riduzione progressiva del trasporto privato. Serve un'innovazione verso una mobilità alternativa, dal trasporto collettivo a quello pedonale e ciclabile, a quello privilegiato per vetture elettriche e ibride, al fine di favorire il decongestionamento e la riduzione dei gas inquinanti delle nostre società. Anche se da posizioni diverse, credo che ognuno dei gruppi abbia presentato mozioni che concordano su tale punto. Se però non insistiamo su questi provvedimenti il traffico veicolare continuerà a contribuire notevolmente all'inquinamento atmosferico, rendendo sempre più difficile il raggiungimento degli obiettivi che, come si è già detto, l'Europa si è prefissata. Gli Stati membri dell'Unione europea infatti si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 20 per cento entro il 2020. Per fare questo e per sensibilizzare l'opinione pubblica, tutti i Governi d'Europa, dal 16 al 22 settembre scorso, hanno mobilitato più di 2.000 città europee, con l'adesione alla sesta edizione della settimana europea della mobilità sostenibile, sollecitando i comuni nello sforzo di creare sistemi di mobilità più efficienti, fondamentali tanto nella lotta all'inquinamento globale quanto nel miglioramento della qualità della vita dei milioni di cittadini che vivono nelle città. In occasione della suddetta manifestazione, il Commissario europeo per l'ambiente dichiarava che le automobili private sono tra le maggiori fonti di emissione di gas serra, che contribuiscono ai cambiamenti climatici ed hanno anche una serie di impatti sulla qualità della vita in città. Non vi sono dubbi: i dati oggi disponibili, anche dei nostri dipartimenti nazionali sulla salute e dello stesso centro di ricerca presso il Ministero dell'ambiente, ci danno una serie di informazioni sui danni che sta portando nelle nostre città questo tipo di inquinamento. Serve quindi adottare una modalità di trasporto più sostenibile. Va purtroppo invece sottolineato come non vi sia alcun incremento di risorse per migliorare le politiche di mobilità urbana, ma anzi, al contrario, abbiamo assistito ad una sostanziale riduzione delle già scarse risorse a disposizione della mobilità ecosostenibile. Quindi, noi capiamo che, quando facciamo lo sforzo di sollecitare il Governo a porre in essere interventi in alcuni settori, è necessario utilizzare in modo preciso e mirato le risorse che sono a disposizione - e sono poche - ma, nello stesso tempo, non dobbiamo più attivare soluzioni ed incentivi per cui, in realtà, uno fa «spegnere» l'altro. Con il decreto-legge n. 5 del 2009 è stato infatti ridotto di 11 milioni di euro il fondo per la mobilità sostenibile, al fine invece di sostenere un altro tipo di intervento sulle auto ecologiche: di fatto togliamo da una parte ed attiviamo dall'altra, ma così non è sufficiente. Ricordiamo che il fondo per la mobilità sostenibile è uno strumento fondamentale per le politiche di mobilità urbana ecosostenibile. Il fondo finanzia una serie di interventi, fra i quali il potenziamento e l'aumento dell'efficienza dei mezzi pubblici, con particolare riguardo a quelli meno inquinanti ed a favore dei comuni a maggiore crisi ambientale (costretti comunque, per sostenere il trasporto urbano, a far viaggiare nelle nostre città mezzi che sono veramente ); è prevista l'incentivazione dell'intermodalità e la valorizzazione degli strumenti del e del ; la riorganizzazione e razionalizzazione del settore di trasporto e consegna delle merci dentro la città, attraverso la realizzazione di centri direzionali di smistamento che permettano una migliore organizzazione logistica; nella logistica sicuramente si aprirebbe un altro capitolo, che spero avremo occasione magari più avanti di approfondire. Si passa dalla logistica sulle vie del mare a quella ferroviaria, a questi interporti necessari perché in questo momento non abbiamo una grande rete collegata e, quindi, facciamo magari qualche centinaio di chilometri con la ferrovia ma poi dobbiamo trasportare di nuovo la merce su camion, poi sulla nave per poi ritrasportarla ancora con i camion. In questo momento abbiamo un sistema che va sicuramente riorganizzato. Ma non voglio parlare adesso di questo problema. È necessario, inoltre, il progressivo obbligo di utilizzo dei veicoli a basso impatto ambientale, la realizzazione e il potenziamento della rete di distribuzione del gas metano, del GPL, dell'alimentazione elettrica e ad idrogeno nonché la promozione di reti urbane di percorsi destinati alla mobilità ciclistica. Faccio notare, tuttavia, sulla questione delle reti di gas e di metano attivate e avviate sul territorio italiano, che si tratta di infrastrutture ancora incompiute. Buona parte del territorio italiano, purtroppo, non ha ancora completato questa rete di servizio alla mobilità attraverso l'utilizzo del metano o del gas e, dunque, di fonti meno inquinanti e velenose rispetto agli idrocarburi. Tuttavia, faccio notare che la Sardegna non ha ancora distributori di metano; la Campania, così attiva con città come Napoli, non ha ancora un distributore a metano o meglio ne ha uno ma non è possibile pensare che per fare il pieno si debbano percorrere centinaia di chilometri dalla propria residenza o dal proprio posto di lavoro. Tuttavia, negli ultimi sei mesi del 2009 i dati indicano che le auto alimentate con motori a metano, a gas o ibridi acquistate in Italia hanno comunque superato le autovetture che sono alimentate a benzina. Questi incrementi, che sono molto forti - e non del 100 o del 200 per cento, ma quasi del 300 per cento rispetto all'anno precedente - vanno comunque sostenuti su tutto il territorio. È bene che il Governo, le regioni e gli enti locali compiano un ultimo sforzo affinché questa rete di distribuzione di metano e di gas venga completata. Dunque, per quanto concerne l'indispensabile trasporto privato oltre a quanto già detto è sicuramente interessante accelerare anche la diffusione e la commercializzazione delle auto elettriche. Per il momento, comunque, si deve fare il massimo dello sforzo anche solo per chiarire la normativa relativa alla tipologia di costruzione delle colonnine per l'erogazione di combustibili. Si tratta, infatti, di sforzi che hanno dei costi ridotti in questo momento ma che chiariscono le soluzioni di mercato per impedire che la prima casa automobilistica che approda sul mercato possa divenire monopolista e obbligare gli altri a ricorrere a brevetti o modelli già immessi sul mercato. Vi sono diverse case automobilistiche che stanno investendo in questo ambito anche sul territorio italiano e, quindi, questo settore deve essere assolutamente regolamentato e reso più concorrenziale anche attraverso norme chiare per tutti. In questo ambito, quindi, chiediamo al Governo di sostenere la crescita del settore dell'auto elettrica che è sicuramente a ridottissimo impatto ambientale. Per produrre elettricità naturalmente dobbiamo comunque andare ad inquinare da qualche parte, sia che la produciamo con le centrali a gas o con quelle a carbone o che la produrremo con quelle nucleari. Auspichiamo che questo non avvenga e faremo di tutto per impedirlo. Infatti, è un grande imbroglio sostenere che così l'energia è più pulita. Tuttavia, si tratta di un altro argomento e credo che ne discuteremo in un'altra occasione. Sicuramente la mobilità con l'auto elettrica è quella a minor impatto ambientale, perlomeno per le persone che vivono nelle città. Dunque, il settore dei veicoli dell'auto elettrica in questo senso è ormai maturo per una reale diffusione sul mercato. Altre industrie automobilistiche, oltre a quelle grandi che si sono presentate sul mercato, si stanno muovendo, come dicevo, e si tratta anche di piccole industrie. È vero, in futuro avremo delle auto che potranno ricaricarsi con poche ore ed avere un'autonomia di parecchie centinaia di chilometri ed è questo che dobbiamo sostenere. Probabilmente, se non inventeremo delle aggravanti sulla bolletta della ricarica, anche il costo dell'energia per viaggiare sarà contenuto. Però dobbiamo dire agli italiani che, quando su benzina, gasolio, o metano, decidiamo di mettere tariffe aggiuntive è chiaro che i costi poi variano e quindi anche il costo dell'energia elettrica potrebbe diventare caro, come di fatto lo è già sul mercato per certi settori. L'auto a trazione elettrica sicuramente può fare da apripista verso nuovi scenari e rappresenta una nuova era dell'automobile. Mi è piaciuto il richiamo da parte del collega Ghiglia alle motrici a vapore per i treni e alla rivoluzione che c'è stata. Sicuramente l'auto elettrica e il motore elettrico sono innovazioni di portata similare. L'ipotesi, a quanto pare, allo studio del Governo di una possibile proroga degli incentivi all'auto con la continuità quindi di quanto già stabilito dal decreto-legge del 2009, se confermata, deve in questo senso essere l'occasione per attivare interventi fiscali mirati ad agevolare e favorire mezzi di trasporto ad emissione zero o a ridottissimo impatto ambientale, quali appunto non solo le auto elettriche, ma le auto a metano, le auto ibride e parallelamente avviare la creazione delle conseguenti indispensabili infrastrutture relative alle reti di distribuzione. Ribadisco che è necessario avere il coraggio, nel giro di poco tempo, di completare quella rete di distribuzione di gas e di metano sul territorio per potere in modo efficace passare alla concessione di una rete anche di distribuzione di quella che è l'energia elettrica per questi motori nel trasporto urbano. Parallelamente andranno altresì incentivati gli acquisti di biciclette - è a macchia di leopardo la cultura della bicicletta nelle nostre città - come le biciclette a pedalata assistita (che probabilmente agevolerebbero anche fasi di riabilitazione per molti cittadini, piuttosto che stare chiusi in casa), nonché i ciclomotori a trazione elettrica. Ricordiamo, in questo senso, come il fondo finalizzato a finanziare i suddetti incentivi, a seguito dell'accordo siglato tra il Ministro dell'ambiente e l'Associazione nazionale ciclo e motociclo aveva consentito nella primavera scorsa a circa 60 mila acquirenti di poter beneficiare dei medesimi incentivi. Quindi, con questo vorremmo impegnare il Governo: a prevedere un incremento della dotazione del fondo per la mobilità sostenibile quale fondamentale strumento di finanziamento a disposizione delle grandi aree urbane per interventi finalizzati alla riduzione dell'inquinamento atmosferico e per lo sviluppo della mobilità urbana a minore impatto ambientale al fine di favorire lo sviluppo del mercato dei veicoli a propulsione elettrica e, nell'ambito delle proprie competenze, in coordinamento con gli enti locali; a prevedere le opportune risorse e iniziative volte alla realizzazione di una rete di punti di ricarica quale premessa indispensabile per la crescita del medesimo mercato; a dare un forte impulso, anche attraverso appositi accordi di programma con gli enti locali (in particolare le regioni) coinvolti e le associazioni e le categorie interessate allo sviluppo della rete di distribuzione sul territorio nazionale di carburanti a minore impatto ambientale, con specifico riferimento, come dicevo già prima, al metano per autotrazione; a rifinanziare il fondo messo a disposizione del Ministero dell'ambiente finalizzato al contributo statale per l'acquisto di una nuova bicicletta, compresa quella elettrica, a pedalata assistita, nonché di ciclomotori a Euro 2, termici o anche elettrici; a provvedere con particolare riferimento alle aree urbane - dove attraverso l'inquinamento viene causato il maggior danno - con interventi mirati a incentivare il trasporto pubblico locale e una mobilità alternativa, anche attraverso la riproposizione di importanti strumenti che hanno mostrato in questi anni tutta la loro efficacia quale il rimborso parziale dell'abbonamento al trasporto pubblico locale e maggiori incentivi per la diffusione del servizio di condivisione di veicoli In sostanza, vorremmo che fosse sempre presente tutto il quadro delle azioni volte a ridurre, quindi, questi gas serra e questi veleni, non limitandoci ad un settore solo con il rischio di agevolare magari qualche nicchia di imprese in questo settore dell'autotrasporto, e di farci perdere l'obiettivo finale che è sicuramente quello sostenere alcuni settori dell'industria, ma nello stesso tempo qualificare la vita nelle nostre città che oggi è veramente a rischio. Non ce ne vogliamo rendere conto perché pensiamo che succeda sempre al vicino di casa e non a noi stessi. Purtroppo, invece, capita anche a noi stessi.
. È iscritto a parlare l'onorevole Libè, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00306. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, cercherò di essere abbastanza rapido, perché ho ascoltato le illustrazioni delle mozioni precedenti e debbo dire che una cosa sicuramente ci fa ben sperare: vi sono considerazioni e valutazioni comuni che consideriamo positive per il prosieguo del dibattito. Vorremmo essere altrettanto ottimisti come l'onorevole Ghiglia, che ha detto che se venissero approvate queste mozioni ci sarebbe un cambiamento epocale. Con tutte le mozioni approvate in questo Parlamento avremmo già dovuto cambiare e stravolgere il corso di vita della nostra Nazione. Purtroppo, le mozioni sono degli impegni spesso un po' aleatori, sui quali vincoliamo noi stessi e cerchiamo di vincolare il Governo sulle politiche da fare per il futuro. Questo - continuo a dire - è meglio di niente, però dobbiamo renderci conto che anche oggi discutiamo su degli impegni che vorremmo che fossero realmente presi in modo formale, che fossero vincolanti, ma purtroppo restano spesso - ahimè - dichiarazione di intenti. Ci sono considerazioni comuni. Infatti, credo di rappresentare totalmente il mio gruppo, non ci annoveriamo tra i catastrofisti, ma non siamo nemmeno gli iscritti al partito di quelli che dicono che non succede nulla. Purtroppo - lo dico al collega Ghiglia che stimo molto - al Senato, per esempio, il presidente della Commissione ambiente del suo stesso partito continua a negare che l'influenza dell'uomo c'entri con i cambiamenti climatici. In che quota parte è da discutere, nemmeno gli scienziati sanno dirci chiaramente quanto può essere, però sicuramente c'è un dibattito aperto che deve portarci ad essere sicuramente molto seri, ma molto riflessivi e anche decisi. Cosa significa ciò? Cerco sempre di guardare le cose da una parte e dall'altra. Sicuramente l'obiettivo di voler migliorare la qualità della nostra vita è legittimo, anzi doveroso, specialmente per le generazioni che verranno dopo di noi, ma possiamo legare a questo una cosa importante. Lo hanno detto i due interventi di prima, sia l'amico Ghiglia, che l'amico Piffari. Dobbiamo legare anche la questione dello sviluppo. Abbiamo un obiettivo: leghiamo almeno ad esso la possibilità - lo dico in modo brutale, come direbbe magari Di Pietro - di farci anche dei soldi (parlo per il sistema Paese). Ogni tanto sono preoccupato perché, a fronte di dichiarazioni catastrofiste, si fanno sempre gli interessi magari di quei prodotti che vengono realizzati fuori dai nostri territori nazionali e questo - ahimè - è successo a lungo per il fotovoltaico e non vorrei che succedesse anche in questo settore. Questo - lo ripeto per essere chiaro - non significa fermarsi. Dobbiamo andare avanti e anche velocemente; tuttavia, quando mi vesto cerco di iniziare dall'abbigliamento intimo e non dal cappello. Quindi, le colonnine sono importanti e mi sento di dire che non possiamo votare contro una mozione di questo tipo, ma bisogna costruire delle premesse per arrivare a quei sogni che sono importanti. Noi nei mesi e nei giorni scorsi abbiamo assistito, anche se è passato un po' sottotraccia, alla fine di un altro sogno: ci sono stati grandi relatori mondiali che hanno girato dappertutto sostenendo la propulsione ad idrogeno, ma quindici giorni fa la BMW, il più grande investitore in questo campo, ha abbandonato totalmente tutti gli esperimenti sull'idrogeno; ma di soldi ne abbiamo cacciati tantissimi, mi riferisco all'intero globo; le aziende hanno investito molti soldi magari togliendoli alla produzione o ad altri progetti. Per quanto riguarda il tema della riduzione delle emissioni di CO2 da autotrasporto ritengo che esso dovrebbe essere considerato in modo più ampio, ma per ora ci rifacciamo alla mozione Ghiglia. Noi abbiamo il sistema dell'autotrasporto specialmente delle merci che nel nostro Paese, ma anche in Europa (basta vedere i dati di questi giorni) continua a soffrire. Questo grande incremento, per esempio, del trasporto su rotaia lo vediamo più a parole e come dichiarazione di intenti che nella realtà vera. Da noi c'è il caso della TAV e altri casi che ci dimostrano che siamo ancora più bloccati e ancora più lenti. Nella nostra mozione, per dirla in poche parole e in modo anche politico, riteniamo che si debba svolgere un'iniziativa da parte del Governo per creare quel sistema che è anche a monte della realizzazione delle colonnine per la distribuzione dell'energia che è importante. Io mi sono anche letto la parte finanziaria: sarebbe opportuno conoscere i pareri dei Ministeri competenti perché qui si chiede un impegno ad investire cifre notevoli per la realizzazione di queste piccole, ma importanti strutture che devono essere realizzate in modo diffuso su tutto il territorio. Ma vorrei tornare all'inizio, quando ho parlato del fotovoltaico. Noi abbiamo la necessità in questo Paese di fare anche tutto quello che sta a monte. Abbiamo bisogno di incentivare e sostenere un'industria che non esiste purtroppo, o che quando esiste si è costruita da sola, magari facendo anche fortuna in altri Paesi del mondo, specialmente in quelle aree emergenti, ma che fa ancora fatica all'interno del nostro territorio: l'industria della ricerca, l'industria delle produzioni di tecnologie nuove che ci ha portato, come dicevo all'inizio, ad incentivare il fotovoltaico. Ma se si va a vedere, tutti questi incentivi finiscono alle aziende tedesche, a quelle dei Paesi emergenti e a quelle israeliane, sicuramente non finiscono alle aziende italiane che non hanno fatto ricerca in questo campo perché non supportate. Dunque occorre un impegno che, a mio avviso, si può unire per ampliare e allargare la prospettiva, perché la tecnicalità dell'altra mozione presentata rischia di chiuderci molto senza guardare ad una situazione molto più complessa. Come prima ha detto in modo diverso anche il collega Piffari, noi abbiamo anche il problema della sostenibilità del trasporto nei nostri centri urbani. Non sono tra quelli che dicono che le polveri sottili ci uccideranno. Dico una cosa poco scientifica, ma solo per rendere l'idea: l'uomo ha una capacità di adattamento notevole, ma questo non ci deve spingere a sfidare la natura e a sfidare noi stessi. Dobbiamo essere persone con la sensibilità e la volontà di guardare avanti con grande serietà. Un'altra cosa che dobbiamo impegnarci a fare insieme è dare un sostegno vero alla sostenibilità dei trasporti pubblici locali. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione: non è semplice per un amministratore pubblico avere la forza, il coraggio e la determinazione. Il federalismo sarà pure importante, ma più si porta il centro decisionale vicino al cittadino, più il decisore è costretto dai mal di pancia, dalle necessità e dalle volontà di chi poi lo deve votare. Questo può essere un bene, ma può essere anche un male perché quando il decisore ha la capacità forte di decidere ascolta e va avanti. Molte volte, invece, nelle nostre città si riscontra l'incapacità di svolgere o di attuare una politica seria, ad esempio, per quanto riguarda il blocco dei centri storici ai veicoli privati e l'abbiamo visto giorno per giorno. Certamente occorre essere chiari, non si può dire al cittadino: da oggi non arrivi più vicino al lavoro con il tuo mezzo privato se non c'è un sistema di trasporto pubblico efficiente, poco inquinante e veloce. Tuttavia, se riuscissimo con l'impegno di tutti (solo in tal modo potremmo raggiungere l'obiettivo) a contestualizzare e a dare una soluzione rapida alle due questioni insieme, si potrebbe arrivare ad una svolta. Infatti, nel momento in cui dico al cittadino che non può circolare con il suo mezzo privato e lo obbligo per un mese a prendere un mezzo pubblico efficiente, sfido qualunque cittadino, che spenderebbe meno, sarebbe più tranquillo e si sposterebbe più velocemente, a non prendere, dopo un mese di assuefazione, quel mezzo pubblico. Abbiamo visto tante pedonalizzazioni che sono state realizzate nelle nostre città da sindaci coraggiosi contro la volontà dei cittadini; ebbene, dopo un mese, quegli stessi cittadini non avrebbero mai più voluto tornare sui loro passi e riavere le macchine sotto casa e nel centro storico, e questo vale per tutte le altre scelte. Dunque, con questa mozione manifestiamo anche noi la disponibilità ad unire il più possibile le forze perché questo è un fronte comune e ampio che si deve affrontare con un atto d'indirizzo vero che vincoli anche il Governo. Non dimentichiamo che su queste richieste che sembrano parole, chiacchiere, occorre investire risorse notevoli. Siamo in un momento di difficoltà, allora insieme, senza polemiche, ma per dare veramente un futuro alle nuove generazioni, tiriamoci su le maniche e decidiamo insieme dove vogliamo andare non solo a parole, ma nei fatti .
. È iscritto a parlare l'onorevole Margiotta. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, colleghi deputati, la discussione di questa sera a venti giorni dalla conclusione della Conferenza di Copenaghen non può non rappresentare per questa Camera anche l'occasione di una riflessione sugli esiti della medesima Conferenza. Inoltre, questa discussione è la terza tappa di un lavoro che le forze politiche che siedono in questo ramo del Parlamento hanno compiuto nel corso dell'attuale legislatura che ha già visto discutere e approvare unanimemente e unitariamente, con il parere favorevole del Governo, una mozione sullo sviluppo sostenibile nel febbraio dello scorso anno ed un'altra, recentissima, nel novembre 2009, a proposito della Conferenza di Copenaghen. Auspico che l'unità e l'unanimità che si sono trovate in quei due casi su un unico testo sia ancora una volta riscontrabile anche in questa circostanza. Il testo presentato dal collega Ghiglia, pur con qualche approfondimento e con qualche riflessione che riprenda alcune delle questioni affrontate dal collega Piffari e sulle quali interverrà la collega del gruppo del Partito Democratico, Elisabetta Zamparutti, è un testo che, se nella giornata di domani riusciremo a fare uno sforzo di sintesi tra le diverse mozioni, può consentire di giungere ad un risultato unitario. A nostra volta, come Partito Democratico, abbiamo presentato e poi ritirato per poter apportare alcune correzioni, il testo di una mozione che domani mattina presenteremo in maniera definitiva e auspichiamo che nel corso della giornata si possa lavorare per giungere ad un testo unico. Ho fatto riferimento alla COP 15, a Copenaghen, che non ha sortito i risultati sperati. Ho avuto l'onore di essere parte della delegazione che ha rappresentato la Camera dei deputati e la delegazione italiana ai lavori della Conferenza di Copenaghen, l'ho vissuta dunque da vicino, in diretta, e sono tra quelli che si aspettava di più in quanto ad esiti e a concretezza. Per la verità, gli impegni attesi da parte degli Stati Uniti sono stati soltanto parzialmente confermati; l'intervento di Obama, pur coraggioso, pur di svolta rispetto alle politiche industriali e ambientali statunitensi degli anni scorsi, è stato ritenuto insufficiente dal G77, dai Paesi in via di sviluppo guidati dalla Cina. Il meno 17 per cento di emissioni nel 2005 corrisponde solo a meno 4 per cento di riduzioni di emissioni nel 1990. Ci si aspettava di più. La Cina a sua volta ha tenuto una posizione di forte opposizione rispetto alla richiesta di monitoraggio internazionale sull'effettiva utilizzazione dei 100 miliardi di dollari che pure i Paesi più ricchi si sono impegnati a spendere a favore dei Paesi in via di sviluppo. È evidente che senza un controllo che possa certificare che effettivamente tali finanziamenti siano spesi in modo dedicato e finalizzato a questi obiettivi, è difficile chiedere ulteriori impegni. Su queste due posizioni si è un po' infranto il sogno di chi pensava che Copenaghen potesse essere davvero risolutiva. È stato sbagliato, inoltre, il metodo secondo il quale quattro Paesi soltanto (Stati Uniti e Cina, insieme a India e Sudafrica) hanno redatto un documento e trovato un accordo su questo documento minimale e l'hanno portato all'attenzione dell'intera Conferenza. Quest'ultima inevitabilmente non lo ha né votato, né approvato ma si è limitata, come leggiamo nel dispositivo, a prendere nota dello stesso testo. La europea su questi temi è fatta soprattutto di proposte concrete ed è stato richiamato il pacchetto clima e l'impegno del 20-20-20, ma in questa Conferenza è stata purtroppo un po' appannata e, nonostante i grandi interventi e i grandi impegni dei leader conservatori o progressisti (Sarkozy e Merkel, Zapatero e Gordon Brown), il bandolo della matassa della Conferenza non è mai passato per la verità nelle mani dell'Europa. Da questo punto di vista, è stato molto positivo che la Merkel, di concerto con gli altri leader europei, abbia annunciato per giugno un incontro a Bonn, che preceda la COP 16 di Città del Messico per provare a ridare centralità all'azione europea. È una centralità che non può che essere data se non insistendo come miglior viatico sugli impegni del 20-20-20 entro il 2020. Questi sono gli impegni massimi che le nazioni assumono e continuo a ritenere che sia una cosa assolutamente positiva che siano soprattutto gli europei ad esserne artefici e alfieri. Ciò detto, con altrettanta chiarezza però affermo che sarebbe un errore vedere Copenaghen tutto in negativo. Il bicchiere è anche mezzo pieno e ci sono positività forti e punti di svolta evidenti. Il primo è che 138 Paesi hanno ritenuto e certificato che sia cruciale e non rinviabile per nessuno il tema della sfida ai cambiamenti climatici. È stato definitivamente sconfitto il negazionismo ed ha ragione il collega Libè quando dice che anche in Italia, in particolar modo nell'altro ramo del Parlamento al Senato, alligna un germe di negazionismo che, per la verità, non appartiene all'intera maggioranza di Governo, né tanto meno, voglio dirlo, al Ministro Prestigiacomo. C'è stato, inoltre, un impegno concreto e quantificato di 100 miliardi di dollari da spendere entro il 2020. Dunque, ce ne è abbastanza se non per essere soddisfatti, almeno per ritenere che non bisogna mollare su questi temi e che bisogna, invece, rilanciare con rinnovata lena l'impegno di tutti i Paesi a lavorare su questi aspetti e l'Italia dovrà fare la sua parte. Peraltro, abbiamo visto con costernazione ancora una volta nell'ultimo mese quanto gli eventi meteorologici di intensità eccezionale producano effetti disastrosi nel nostro Paese, anche a causa di un non sempre prudente sviluppo urbanistico ed infrastrutturale che, come abbiamo visto, riguarda non solo tipicamente e classicamente il Mezzogiorno del Paese, ma anche tante altre zone della nostra Italia. Abbiamo anche ormai scongiurato la teoria secondo cui, essendoci crisi economica, la crisi climatica vada messa in secondo piano: così non è. È stato dimostrato e detto benissimo da Al Gore in un'intervista a ma ultimamente dimostrato dal «Green jobs» report dell'agenzia dell'United environment development quanto invece, attraverso la e un approccio ai problemi ambientali virtuoso, si possano creare economia e posti di lavoro e dare una risposta alla crisi economica. C'è bisogno in Italia di maggiore impegno e di maggior determinazione non solo da parte della politica, ma anche da parte del mondo dell'impresa. L'impresa deve sapere che questi temi possono rappresentare una straordinaria prospettiva di progresso, in cui sarà possibile trovare un nuovo slancio economico, industriale e tecnologico, e, soprattutto, creare nuova occupazione e nuovi posti di lavoro. L'Italia è in ritardo rispetto agli impegni di Kyoto: non solo non ha ridotto le emissioni di quanto sarebbe stato necessario e di quanto ci si era impegnati a fare, ma, addirittura, le emissioni sono aumentate. Però, non siamo neppure all'anno zero: qualcosa negli ultimi anni è stato fatto. Penso alle agevolazioni sugli interventi di ristrutturazione energetica degli edifici e al sostegno alle energie rinnovabili. Noi del Partito Democratico riteniamo di dover invitare e impegnare il Governo ad essere parte integrante del blocco europeo che guida le politiche ambientali in questo momento su questi aspetti. Il Governo si deve impegnare ad incentivare la e, soprattutto, a dare tutto il possibile appoggio alle imprese che vi operano in modo virtuoso, creando produzione, profitto e posti di lavoro. In questo contesto, riteniamo che le proposte contenute nella mozione Ghiglia n. 1-00269, come dicevo, fatti salvi alcuni importanti accorgimenti, che pure sono sin qui emersi e che emergeranno nell'intervento che verrà dopo, sempre a nome del gruppo del Partito Democratico, possano dare un contributo. Infatti, non c'è dubbio che uno dei campi in cui agire per la riduzione dei gas serra sia quello dei trasporti e della mobilità sostenibile, che si ottiene, però, non solo attraverso i motori elettrici, e dunque le infrastrutture di ricarica delle batterie per i veicoli elettrici ai quali si faceva riferimento, ma anche, e noi diciamo soprattutto, disincentivando il trasporto privato, ammodernando le reti, i mezzi di trasporto e le infrastrutture, e puntando sulla riduzione dell'impatto ambientale del medesimo trasporto. Non basta, bisognerà continuare ad agire con rinnovata lena sull'edilizia a basso impatto ambientale; non solo l'edilizia di nuova costruzione, ma anche gli interventi di recupero, manutenzione e ristrutturazione del vecchio. Bisognerà ridurre i consumi energetici, lavorare - vi ho fatto cenno in precedenza - sulla sicurezza idraulica, ahimè, uno dei temi che a turno rende disastrosi gli effetti di eventi meteorologici in diverse parti del nostro Paese. Occorre poi investire seriamente - il Governo dovrà farlo - sulla comunicazione, sulla formazione, sull'informazione e sull'educazione ambientale, ad iniziare dall'impegno che su questi temi può venire dal mondo scolastico. Occorre migliorare finalmente la gestione integrata del ciclo dei rifiuti, che, soprattutto in questo caso nel Mezzogiorno, continua ad avere livelli assolutamente non sostenibili per un Paese bello, civile e importante come il nostro. È importante dunque - lo dicevo in premessa - che anche in questo caso la Camera possa trovare convergenza su questi argomenti, ma non sarebbe risolutivo né è assolutamente consolatorio approvare una mozione in maniera unanime, se non vi fosse la certezza che poi il Governo operi concretizzando finalmente le cose che abbiamo detto e che, in maniera così diffusa e omogenea, diciamo anche in questa discussione. Da questo punto di vista abbiamo qualche timore, perché non sempre così è stato, anzi, dovrei dire che quasi mai così è stato nella misura in cui lo avremmo ritenuto utile e nella misura nella quale avremmo desiderato che accadesse. Ci auguriamo dunque, come gruppo del Partito Democratico, che almeno su questi temi il Governo non ci deluda e faremo ovviamente la nostra parte di forza responsabile di opposizione di stimolo e di controllo perché ciò accada, affinché, cioè, la politica ambientale di questo Governo possa essere in linea con i grandi indirizzi che vengono dall'Unione europea e affinché anche l'Italia possa essere a pieno titolo tra i Paesi che combattono in maniera seria ed adeguata il cambiamento climatico e l'inquinamento e fanno la propria parte fino in fondo. Il Partito Democratico lavorerà in tal senso .
. È iscritta a parlare l'onorevole Zamparutti. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, mi dispiace che l'onorevole Ghiglia abbia lasciato l'Aula in questo momento di confronto con l'opposizione. Spero comunque che possa ascoltarci in un'altra sede. Quello che vorrei dirgli è che quando si parla di auto e di infrastrutture in Italia, credo si debba tenere presente il dato relativo all'aumento inarrestabile del numero dei mezzi circolanti, e in particolare delle auto private. Oggi in Italia circolano più di 35 milioni di auto: appena dieci anni fa erano solo 30 milioni, e nel 1986 si fermavano a quota 24 milioni. Secondo l'ultima ricerca di Euromobility, il nostro Paese continua ad avere il parco macchine più numeroso dell'intera Unione europea: 61,32 veicoli ogni 100 abitanti contro un valore europeo di 46, in una situazione in cui i mezzi pubblici sono poco utilizzati e il trasporto alternativo è scarsamente diffuso. Siamo però tra i primi in Europa anche per vittime da incidenti su strada. Spesso si parla di tale problema legandolo alla velocità, legandolo all'inadeguatezza delle strade, del sistema infrastrutturale: io lo lego invece anche al numero eccessivo di auto circolanti nel nostro Paese. Da questo punto di vista mi preoccupa l'impostazione che Ghiglia ha voluto dare alla sua mozione, perché quando si dice che le auto elettriche sono perfettamente compatibili con le esigenze di una frazione significativa della mobilità pendolare, le seconde vetture di famiglia e gran parte dei veicoli leggeri per usi commerciali e aziendali, si indica una prospettiva di stimolo all'acquisto di seconde o terze auto familiari e di ulteriori auto aziendali, aumentando quindi il parco circolante nei nostri centri urbani; e per quanto ho detto prima, tale punto è particolarmente preoccupante. Noi radicali riteniamo che soltanto un serio e convinto impegno nella realizzazione delle infrastrutture volte ad assicurare un sostanzioso riequilibrio modale nel nostro Paese (quindi innanzitutto infrastrutture ferroviarie, metropolitane, portuali e intermodali, innovazioni tecnologiche necessarie al miglioramento del trasporto pubblico di massa in ambito urbano), sia in grado di fornire una risposta convincente, efficace ed efficiente nella mitigazione dei gas serra dei trasporti, contribuendo anche a ridurre in maniera strutturale i problemi di inquinamento atmosferico, incidentalità e congestione stradale che oggi travagliano le nostre reti di trasporto, aiutando così lo Stato, le regioni e gli enti locali a rispettare le normative comunitarie vigenti e gli obiettivi dei piani di miglioramento. Tale è la priorità su cui lo Stato deve investire, perché questi sono indubbi profili di utilità pubblica. Personalmente penso che immaginare finanziamenti ed incentivi alla costruzione di centraline in questa fase non sia proprio di uno Stato liberale. Sarebbe insomma come se si prevedessero degli incentivi ai distributori di benzina: non mi pare sia questo il modo corretto di procedere, perché non è dimostrato ancora che l'introduzione dell'auto elettrica ubbidisca a quanto dicevo prima, profili di utilità pubblica rispetto alla quale si può invece concepire un investimento pubblico. Rispetto quindi agli obiettivi del pacchetto su energia e clima, tanto la direttiva ETS quanto la decisione sui settori non ETS impongono al nostro Paese chiari limiti ad un'improvvisa crescita della penetrazione dell'elettricità negli usi energetici. Pur condividendo quindi lo sviluppo dell'elettrico chiedo, se lo scenario è quello di una diffusione dell'auto elettrica (quanto si prospetta con la mozione Ghiglia), che esso sia condizionato alla realizzazione, da parte del Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare, di una valutazione ambientale strategica perché sia assicurato un eventuale sviluppo di questo settore compatibilmente con gli obiettivi nazionali su energie rinnovabili, clima ed efficienza energetica. Lo dico tanto più che non viene esplicitato come queste centraline verranno alimentate. Infatti, un conto è se saranno alimentate da fonti rinnovabili, un altro è se saranno alimentate da altre fonti: penso alle centrali a carbone o peggio all'elettricità prodotta dal nucleare. Se c'è una disponibilità da parte della maggioranza a recepire questi due punti, ritengo ci possa anche essere un'attenzione e una disponibilità a votare questa mozione .
. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Iannaccone ed altri n. 1-00265 e D'Antoni ed altri n. 1-00300, concernente iniziative per favorire l'occupazione nel Mezzogiorno . Ricordo che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati per la discussione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea . Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Leoluca Orlando ed altri n. 1-00304, Moffa ed altri n. 1-00305, Pezzotta ed altri n. 1-00307 e Barbato ed altri n. 1-00308 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.
. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni. È iscritto a parlare l'onorevole Iannaccone, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00265. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è compito delle massime istituzioni del Paese e tra esse di quella che rappresenta la massima espressione della democrazia, il Parlamento, dare concreta attuazione al primo articolo della Costituzione il quale sancisce che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro nonché al primo dei principi sul quale si fonda l'Organizzazione internazionale del lavoro il quale stabilisce che il lavoro non è una merce. A tal fine è necessario, oltre che riconoscere il lavoro come diritto inalienabile dell'uomo, promuovere le condizioni che rendano effettivo l'esercizio di tale diritto. La crisi attuale, particolarmente grave nelle regioni del Mezzogiorno, attesa la fragilità strutturale della sua economia, impone un potenziamento delle politiche attive del lavoro chiamate ad agevolare i processi di transizione sul mercato del lavoro, garantendo l'equità ma anche l'efficienza e la selettività degli interventi, mantenendo e sviluppando l'occupabilità delle persone e favorendo il ritorno al lavoro da parte dei percettori dei sussidi. Nell'ambito delle politiche dirette a favorire l'occupazione e non un mero sostegno al reddito l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha stabilito come propria linea-guida quella in base alla quale una politica attiva del lavoro debba dedicare grande cura sia ad un'informazione tempestiva e significativa sulla struttura e dinamica della domanda e dell'offerta, sia all'orientamento e alla formazione professionale dell'offerta medesima. La strategia europea per l'occupazione attribuisce un ruolo di primaria importanza ai servizi pubblici per l'impiego, prevedendo esplicitamente la possibilità di un affiancamento ad altri intermediari pubblici e privati. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali nella pubblicazione ha mostrato come sul livello dei servizi offerti dai centri per l'impiego pubblici appare persistente, signor sottosegretario, un dualismo territoriale caratterizzato dallo costruzione di servizi altamente personalizzati ed in chiave proattiva al Centro-nord e dalla prevalenza di servizi di natura più tradizionale e di un'attività prevalentemente incentrata sugli adempimenti amministrativi al Sud. Peraltro, a tale dualismo va sommata la complessità del sistema di competenze in materia di servizi per l'impiego che sovente aggrava la differenza di cui parlavo prima. In particolare, le competenze nazionali concernono indirizzo, promozione, coordinamento, valutazione dell'efficacia delle politiche del lavoro; le competenze regionali concernono funzioni di indirizzo relative al collocamento, concertazione regionale e relativo coordinamento, programmazione, promozione del lavoro autonomo e delle nuove imprese, promozione di iniziative di collocamento per le fasce deboli, affiancamento al Ministero per iniziative in materia di gestione delle eccedenze, raccordo delle funzioni, politiche attive e monitoraggio; le competenze provinciali concernono invece gestione dei servizi di collocamento e preselezione attraverso i centri provinciali per l'impiego, promozione di iniziative e di interventi attivi in relazione con la concertazione e la programmazione territoriale, con particolare riferimento ad iniziative integrate di orientamento e formazione; infine, le competenze locali e comunali concernono l'avvio e la gestione di servizi integrati in connessione con i centri per l'impiego, nonché iniziative di orientamento e promozione. Il Governo ha favorito l'utilizzo della flessibilità regolata antitetica alla precarietà ai fini dell'aumento dell'occupazione; ora, signor Presidente, è necessario prevedere misure specifiche per il Mezzogiorno. A tal proposito, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha recentemente preannunciato di voler costituire un tavolo di concertazione con le parti sociali, al fine di prevedere la possibilità di stabilire una deroga al trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva; tale regime derogatorio dovrebbe applicarsi alle nuove imprese che assumono nel Mezzogiorno. Nonostante sia condivisibile - anche se solo in parte - il fine di aumentare l'occupazione nelle regioni meridionali utilizzando tali strumenti, questo obiettivo deve essere perseguito senza penalizzare le condizioni economico-normative dei lavoratori che prestano la propria opera nelle regioni del Sud e con la garanzia che la misura ipotizzata non si risolva in un mero vantaggio competitivo temporaneo per imprenditori poco affidabili. Ne consegue la necessità di approfondire la proposta e di adottare le necessarie garanzie in ordine alla sua assoluta temporaneità, alle sue concrete modalità applicative e ai meccanismi da adottare, al fine di rendere stabile la nuova occupazione così incentivata. Nelle regioni del Sud la lotta al lavoro senza tutele, al lavoro nero, agli appalti cosiddetti non genuini deve rappresentare, ancora di più che in altre zone del Paese, un obiettivo imprescindibile dell'azione governativa, volta a combattere e, in prospettiva, ad eliminare, forme di utilizzo della forza lavoro, che costituiscono sfruttamento del lavoro stesso e producono distorsione della concorrenza. La diretta conseguenza di tali forme di utilizzo illegale delle prestazioni di lavoro è la penalizzazione delle imprese, che applicano correttamente la normativa e la difficoltà a mantenere e, ancora di più, a creare occupazione legale e stabile. Va ancora sottolineato che in svariate zone del Paese e principalmente nelle regioni del Sud si sono formati dei cosiddetti bacini di crisi, a seguito delle difficoltà di tipo industriale e, conseguentemente, occupazionale, che si sono venute a determinare a causa del recente di alcuni grossi operatori finanziari internazionali. Tali «bacini di crisi» devono essere oggetto di una gestione legislativa e amministrativa, che, ottimizzando l'utilizzo della formazione professionale, consenta il reimpiego dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo. In una logica diversa rispetto al passato, quando sia al Sud che al Nord prevaleva l'idea dell'assistenzialismo, manifestatesi con modalità diverse nelle diverse regioni del Paese, è nostra intenzione ottimizzare l'utilizzo degli strumenti esistenti, razionalizzando l'impiego delle relative risorse al fine di favorire l'occupazione. In tale ottica, la formazione professionale deve divenire, anche ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, il momento di raccordo tra l'istruzione ed il lavoro, tra il diritto allo studio e il diritto al lavoro, tra il significato culturale e l'aspetto produttivistico dell'istruzione. In sintesi, la formazione professionale deve consentire di adeguare la qualità dell'offerta di lavoro alle esigenze della domanda, sopperendo così alle carenze della normale dinamica di mercato. Alla luce dei dati indicati, dei principi richiamati e delle considerazioni fin qui svolte, con questa mozione, che auspichiamo sia votata congiuntamente delle forze politiche presenti in Parlamento, chiediamo al Governo di riconoscere che l'aumento della disoccupazione nel Mezzogiorno costituisce un'emergenza nazionale e, conseguentemente, di porre in essere interventi che favoriscano e incentivino l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, con la previsione di misure specifiche rivolte al Mezzogiorno. Riteniamo assolutamente necessario aumentare il livello di efficienza dei servizi pubblici per l'impiego del Mezzogiorno, anche attraverso una più proficua collaborazione con soggetti privati, che si concretizzi nello scambio di informazioni, ai fini della messa a disposizione dei nominativi dei lavoratori svantaggiati da parte dell'INPS e dei centri per l'impiego, con l'obiettivo di aumentare le occasioni di lavoro da proporre a questi soggetti. Occorre, inoltre, prevedere particolarmente nelle aree del Sud nelle quali si siano determinate crisi industriali e per ciò stesso, occupazionali, che i nominativi dei lavoratori che possono essere assunti con l'erogazione di specifici incentivi, che accompagnano la loro condizione di lavoratori svantaggiati, siano gestiti efficacemente ed inviati alle associazioni imprenditoriali e sindacali. Invitiamo, in fine, il Governo a varare un piano di formazione professionale straordinario per il Sud, erogato dai servizi pubblici per l'impiego, eventualmente in concorso con le agenzie per il lavoro legittimate all'esercizio di questa attività per espressa disposizione di legge. Tale piano dovrebbe prevedere la presa in carico del lavoratore disoccupato, inoccupato, da parte dei servizi per l'impiego, i quali, attraverso un percorso formativo concepito dovranno condurlo ad una nuova occupazione. A tal fine dovranno essere costruiti meccanismi incentivanti e disincentivanti correlati al numero di lavoratori che verranno effettivamente occupati al termine del percorso formativo, e ciò in netta contrapposizione alle denegate logiche assistenzialistiche utilizzate in passato. Un piano di formazione professionale straordinario per il sud così concepito - signor sottosegretario - presenta innegabilmente i seguenti innovativi tratti caratterizzanti: rompe con le denegate logiche assistenzialistiche del passato ponendosi l'obiettivo, non del sostegno al reddito, ma della costruzione di una professionalità atta a favorire al massimo l'occupabilità; non richiede lo stanziamento di elevate somme aggiuntive bensì, soprattutto, la razionalizzazione di quelle esistenti; incontra, infine, il favore delle parti sociali.
. È iscritto a parlare l'onorevole D'Antoni che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00300. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, oggi ci occupiamo di una questione essenziale perché riguarda l'occupazione, riguarda la crisi che stiamo attraversando, riguarda in particolare il livello di disoccupazione nelle aree deboli del Paese. Vi è la necessità quindi di fare una politica che dia una risposta ad un'emergenza come quella che abbiamo davanti. Al contrario delle crisi precedenti questa crisi, che oggi sta riguardando il mondo e in particolare l'Italia, colpisce in maniera pesante le zone deboli del Paese. Normalmente le crisi congiunturali hanno una caratteristica particolare nel senso che, almeno storicamente, hanno colpito di più le zone forti, perché avevano più imprese e più lavoratori, che quindi pagavano un prezzo più alto, e meno le zone deboli perché, per la loro conformazione produttiva, subivano di meno le conseguenze della crisi. La crisi che invece stiamo attraversando ha una caratteristica: colpisce sicuramente tutto il mondo, tutto il Paese, ma in particolare la parte più debole, quella che si può difendere di meno. Faccio riferimento alla piccola impresa che non ce la fa a trovare credito; il lavoratore che perde il posto di lavoro e che non ha - perché magari precario - ammortizzatori sociali; la famiglia che complessivamente non riesce a trovare sbocchi per il proprio reddito. Si tratta, quindi, di una vera e propria emergenza frutto della crisi che però già colpiva e colpisce un territorio debole, già caratterizzato da forme di precarietà diffuse sia nel lavoro sia complessivamente nel livello di vita di milioni di cittadini. Questa riflessione, questo elemento, dovrebbe spingere tutti, dovrebbe spingere il Governo innanzitutto, la maggioranza e l'opposizione - noi siamo qui a testimoniarlo in maniera forte - a trovare delle soluzioni e delle risposte, a mettere in moto delle politiche che siano in grado di favorire una ripresa dello sviluppo a partire dalle zone deboli affinché, attraverso diverse azioni, si riesca anche a dare una risposta più complessiva alla crisi nel nostro Paese, a far crescere la ricchezza del nostro Paese, a distribuire meglio questa ricchezza e a mettere in moto un processo sano, e, quindi, ad avere alla fine della crisi una società più equilibrata e più giusta; una società che sia in grado di affrontare le sfide europee e mondiali che l'Italia deve affrontare. I dati che noi abbiamo (gli ultimi in particolare) sono invece di segno opposto. Abbiamo perso in questo anno centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma in proporzione l'area debole del Paese, il Mezzogiorno, ne ha persi di più. Siamo ad una perdita complessiva in valore assoluto di 300 mila posti di lavoro nel Mezzogiorno a fronte di una perdita complessiva di 400-450 mila posti di lavoro più tutto il fenomeno degli ammortizzatori sociali e della cassa integrazione e i fenomeni non controllabili perché non danno sostegno al reddito. Se in un tessuto debole vengono a mancare trecentomila persone che lavorano, ciò crea un problema più generale, tant'è vero che se guardiamo l'altro elemento preoccupante, il livello della povertà in questo nostro Paese, si nota come vi sia un aumento della povertà assoluta e relativa soprattutto nelle zone deboli del Paese, quindi l'aumento di un fenomeno di impoverimento di questa società molto particolare e molto preoccupante. Questa crisi inoltre colpisce in particolare una parte del segmento del lavoro. Colpisce tutti, ma in particolare le donne e i giovani, perché, essendo l'anello debole della catena occupazionale, essi finiscono per pagare un prezzo più alto. Non a caso il Presidente della Repubblica, nel messaggio che ha rivolto al popolo italiano in occasione degli auguri di Capodanno, ha centrato la sua attenzione sulla questione giovanile e su quella delle aree deboli del Mezzogiorno rivolgendo un forte appello a tutti quanti perché si possa condurre una politica che sia in grado di fornire una risposta a questa emergenza complessiva, a questo tipo di esigenza, a questa questione particolare: la disoccupazione giovanile e femminile. A grandi linee questo è il quadro che abbiamo di fronte. Se questo è il quadro e la condizione che noi dobbiamo affrontare è indispensabile che anzitutto il Governo e poi la sua maggioranza siano in grado di predisporre un piano, un'impostazione generale con cui confrontarci per fare in modo che questa uscita dalla crisi dell'Italia affronti in maniera forte il problema della disuguaglianza in Italia, del dislivello cioè tra le zone ricche e le zone povere del Paese, del suo dualismo, della necessità di invertire la tendenza, del trovare una via positiva perché l'Italia possa a quel punto avere un circolo virtuoso che, producendo la crescita delle zone deboli, finisca anche per produrre l'effetto della crescita delle zone forti. Infatti, non c'è dubbio che si avrebbe un effetto positivo contemporaneo perché si aprirebbero mercati, aumenterebbero i consumi e si determinerebbe una condizione di maggiore forza del Paese complessivamente inteso. Invece quello che sta avvenendo, ahimè, è una rottura nel Paese. Quello che sta avvenendo è sempre di più una frantumazione tra zone forti e zone deboli, sempre di più un atteggiamento complessivo in cui c'è quasi un pregiudizio nell'affrontare questi argomenti e non si capisce che invece la sfida dell'Italia è superare il suo dualismo e portare questo nostro Paese ad un livello della sfida che esso è in grado di sostenere e vincere. Ma qui sta la responsabilità delle forze politiche e soprattutto la responsabilità di chi ci guida e soprattutto la responsabilità di chi deve prendere iniziative politiche e programmi. Finora, ahimè, il Governo invece ha affrontato tutto questo in maniera assolutamente sbagliata, anzi controproducente, anzi in maniera opposta. Ha fatto sostanzialmente una politica antimeridionale, ha negato questa esigenza e ha fatto passare nell'opinione pubblica questo tipo di indirizzo: qualunque risorsa, qualunque politica destinata alle aree deboli è uno spreco. Qualunque iniziativa è una dispersione di risorse ed è espressione di mancanze, perché vi è stato - ed è vero - un cattivo uso della risorsa pubblica, vi è stato - ed è vero - un forte assistenzialismo da cui dobbiamo uscire, vi è stata - ed è vero - una condizione di errori che le classi dirigenti meridionali hanno fatto insieme alle classi dirigenti nazionali. Ma come ne usciamo? Come mettiamo in moto un circuito in grado di affrontare tali questioni, senza dover ogni volta affrontare una cultura leghista, che è quella che caratterizza questo Governo e che scatena questo tipo di reazione? Io penso che ne usciamo se diciamo la verità, se affrontiamo le questioni per quelle che sono, se facciamo provvedimenti che siano in grado, in maniera trasparente ed alla luce del sole, di dare una risposta produttiva, vera e concreta a questa esigenza che l'Italia ha. In tal modo si darebbe una risposta alla crisi e si farebbe uscire il Paese dalla sua condizione di difficoltà. Ma questa è una soluzione piena di responsabilità per una classe dirigente che voglia misurarsi autenticamente con una delle questioni di fondo, che ci portiamo appresso da anni e da cui non riusciamo, proprio per la sua complessità, ad uscire. Però ora è arrivato il momento, di fronte alla drammaticità che le vicende stanno assumendo, a forme non a caso anche di guerre fra poveri che si sviluppano, come abbiamo visto in queste giornate a partire da Rosarno, perché si innescano circuiti molto pericolosi. Allora è qui che noi, come Partito Democratico, sfidiamo il Governo e la maggioranza a mettere in campo una proposta vera, a non limitarsi alla registrazione o, peggio, ad adottare una politica antimeridionale o, peggio ancora, ad una serie di come quelli a cui abbiamo assistito nel corso di questi mesi. Noi siamo pronti a misurarci e a confrontarci. Nell'illustrare la nostra mozione formulerò alcune proposte molto semplici e molto forti che noi facciamo, ma siamo pronti anche a valutare altre proposte, se ci vengono fatte e se hanno il senso vero di una capacità di affrontare in maniera adeguata questo tipo di dramma che l'Italia sta attraversando, in particolare la parte più debole di essa. Nel luglio scorso da parte del Governo ci fu annunciato con grande clamore un nuovo piano per le aree deboli del Paese. Allora si usarono espressioni eclatanti e si disse: «Il Governo presenterà un nuovo piano Marshall per le aree deboli del Paese», paragonandolo a quello che si era fatto alla fine degli anni Quaranta e all'inizio degli anni Cinquanta rispetto all'Italia nel suo complesso. Si aggiunse: «Si aprirà un »; si usarono queste espressioni inglesi (normalmente, quando si vuole nascondere un vuoto di politica e di cose concrete, si usano parole inglesi, così fa più . Però la sostanza è che da luglio ad oggi non è arrivato nulla, non vi è alcun piano, non vi è alcuna proposta e non vi è alcun elemento con cui confrontarsi. Recentemente il Ministro Scajola, nel confermare questa impostazione che aveva annunciato a luglio, ha detto che a gennaio o a febbraio questo piano arriverà e che appunto sarà di svolta rispetto a queste esigenze. Noi aspettiamo, però le questioni sono di oggi, sono urgenti, non sono più questioni che possono aspettare anni. Noi abbiamo problemi drammatici che riguardano l'occupazione, la disoccupazione oggi, e partiamo da dati bassissimi. Infatti, badate che il dato sulla disoccupazione nel nostro Paese, che viene sempre citato e ripetuto (e viene detto che in Italia non si va poi così male), che è all'8,4 per cento mentre negli altri Paesi è al 10 per cento, non fa i conti con la realtà: il dato sulla disoccupazione è fuorviante, il dato che conta è quello sull'occupazione, l'altro, non quello sulla disoccupazione. Quello che conta è che siamo scesi sull'occupazione, complessivamente come Paese, dal 57 per cento al 55 per cento. L'Agenda di Lisbona ci indicava come traguardo, nel 2010, il 70 per cento e, quindi, siamo lontani di 15 punti dall'obiettivo di Lisbona. Ma se poi questo dato viene scomposto, notiamo che per fortuna alcune regioni del Nord sono vicine al 70 per cento, mentre le regioni del Mezzogiorno sono tutte al 44, al 45 o al 46 per cento, cioè registrano quasi 30 punti percentuali di differenza. Dunque, capite che citare ancora questo dato sulla disoccupazione è fuorviante e sbagliato, perché si verifica un fenomeno molto particolare, da affrontare per quello che è, e che consiste nel fatto che ormai nelle aree deboli del Paese la gente non cerca più occupazione, si è arresa, non va a cercarla e, pertanto, non viene più registrata tra i disoccupati perché, appunto, non cerca lavoro. Ciò si registra soprattutto tra le donne, ma complessivamente è avvenuto e sta avvenendo un fenomeno di allontanamento dal mercato del lavoro in maniera forte. Dunque, è chiaro che tali soggetti non vengono calcolati. Così la disoccupazione rimane bassa ma in maniera falsa e non vera. Allo stesso modo, vi è un altro fenomeno che non viene conteggiato e che diventa ogni giorno più preoccupante. Si tratta del fenomeno dell'emigrazione interna, di cui non si parla e su cui non vi è né dibattito né altro. Ormai siamo arrivati a numeri alti. Soprattutto i giovani, diplomati e laureati, abbandonano le aree meridionali per cercare lavoro dove lo trovano e questo fenomeno, negli ultimi anni, è diventato molto consistente. Complessivamente negli ultimi dieci anni - ma tale fenomeno è divenuto più grave negli ultimi due anni - siamo intorno a 800 mila o a un milione di persone che hanno lasciato le aree meridionali per trovare lavoro altrove, sia al Nord sia anche fuori Italia. Dunque, questa nuova emigrazione di massa non fa notizia. Giustamente, vi è un grande dibattito in Italia sull'immigrazione, sull'integrazione e sulla lotta alla clandestinità ed è giusto che vi sia. Tuttavia, non vi è nessun dibattito equivalente su questo fenomeno enorme e di massa che riguarda il nostro Paese, vale a dire la ripresa dell'emigrazione come negli anni Cinquanta e come all'inizio del Novecento. Ma vi è una differenza sostanziale: non emigrano più le braccia, ma le menti. In una fase della società della conoscenza in cui non si parla più di manodopera, il fatto che se ne vadano proprio i giovani, diplomati e laureati, è il segno di un impoverimento complessivo della società meridionale. È un segno preoccupante perché è ciò da cui si dovrebbe cominciare per fare il nuovo sviluppo. Invece, se i giovani se ne vanno diventa sempre più difficile fare nuovo sviluppo perché, appunto, non si trova. Ma bisogna fare attenzione perché questa emigrazione nuova ha un'altra caratteristica che dovrebbe essere affrontata: nel momento in cui le persone vanno via tendono a non tornare più e, quindi, a separarsi in maniera definitiva. Inoltre, tale fenomeno non presenta più l'unica caratteristica positiva che l'emigrazione storicamente dava, seppure con grandi costi sociali: le rimesse degli emigrati. Con queste ultime ritornava alla società debole una parte di quello che veniva guadagnato fuori e, pertanto, vi era un circuito economico che si sviluppava su questo fenomeno. Oggi, invece, il giovane meridionale va a lavorare fuori e guadagna 1.000 o 1.200 euro ma ne deve pagare 700 di affitto. È la famiglia meridionale che manda la differenza al Nord per fare in modo che quel giovane possa vivere in maniera dignitosa. Vi è, quindi, un trasferimento di risorse secco fra le zone deboli e le zone forti ma, questa volta, dalle zone deboli alle zone forti. Altro che Robin Hood e tanta storia e tanta epopea su Robin Hood, al punto che abbiamo visto il Ministro dell'economia e delle finanze confrontarsi con questa vicenda di Robin Hood. Qui c'è un Robin Hood vero, ma al contrario: sono i deboli che stanno finanziando i forti di questo Paese nel silenzio generale, nel silenzio dei nel silenzio di qualsiasi discussione e approfondimento perché questo non fa notizia, ma si tratta di una questione di grande serietà e grande impegno che dovrebbe spingere le classi dirigenti ad affrontarla, scuotendosi dalla loro apatia e da ciò che caratterizza questo tipo di comportamento. Invece, abbiamo assistito, nell'ultimo anno, sostanzialmente a puri tagli di risorse per lo sviluppo del Mezzogiorno, per finanziare tutto quello che c'era da finanziare nel nostro Paese. Lo abbiamo denunciato più volte in quest'Aula, ma non possiamo non ricordarlo nel momento in cui affrontiamo queste questioni oggi, perché lo abbiamo fatto e lo continueremo a fare. Con i soldi delle aree deboli, quelli comunemente chiamati FAS, si è finanziato sostanzialmente tutto il finanziabile, cose nobili...
. La prego di concludere.
. No, signor Presidente, dovrei avere ancora qualche minuto.
. Onorevole, l'ascolto con grande interesse, ma il mio orologio dice 35 secondi... Facciamo un minuto.
. Tre minuti me li da?
. Due.
. Si è finanziato di tutto: cose nobili (il terremoto, gli ammortizzatori sociali) e cose ignobili, come le multe per le quote latte degli agricoltori del nord (pensate se fosse successo il contrario!). Allora, di fronte a tutto questo, vi facciamo delle proposte: niente assistenzialismo, ma sviluppo produttivo, credito di imposta per le imprese (che avete annullato), ripristino della zona urbana franca (che state annullando con il decreto mille proroghe), avvio di 100 mila giovani in finanziati sul lavoro produttivo e alle aziende che li assumono a tempo indeterminato un corrispondente, avvio di un piano di infrastrutture che non sia lo del ponte, nuove ferrovie, nuove strade e nuove telecomunicazioni, ossia cose concrete, misurabili, che diano lavoro subito, oggi, non fra alcuni anni, ma oggi, e che siano tali da mettere in moto un processo positivo che serve sicuramente al Mezzogiorno, ma serve all'Italia. Convinciamo tutti, convincete i vostri alleati leghisti - lo dico al sottosegretario Viespoli che so persona sensibile - che serve all'Italia un piano che affronti la questione dello sviluppo del Sud e dell'occupazione nel Sud se vogliamo che questo Paese, come Paese, abbia, come può avere, un grande futuro
. È iscritto a parlare l'onorevole Leoluca Orlando, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00304. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, a me è dato illustrare come primo firmatario la mozione presentata dal gruppo Italia dei Valori. Questa mozione ha un obiettivo, ossia quello di superare le divisioni esistenti nel nostro Paese tra zona e zona e di evitare che vi sia una discriminazione in danno di una zona a vantaggio di un'altra. Vorrei iniziare questo mio intervento proprio capovolgendo l'approccio tradizionale ai temi del Mezzogiorno. Quando si parla del Mezzogiorno per troppo tempo abbiamo sentito ripetere la litania che è interesse del Sud che vi sia lo sviluppo del Mezzogiorno e che è responsabilità del Nord se lo sviluppo non c'è. Credo che la situazione sia radicalmente diversa e vorrei introdurre l'etica della convenienza con riferimento all'intervento dell'intero sistema-Paese nel Sud dell'Italia. Il Mezzogiorno, se non viene accompagnato in un processo di crescita virtuosa, rischia di creare una condizione per la quale contamina il resto del Paese con i suoi vizi senza rendere possibile al resto del Paese di utilizzare i suoi meriti, con la conseguenza, cioè, che si esportano i vizi, ma non si valorizzano i meriti del Sud. È un'etica della convenienza che credo andrebbe applicata con riferimento, in termini culturali, economici e politici, al rapporto tra Nord e Sud del Paese. Conviene all'intero Paese aiutare la crescita culturale, sociale ed economica del Sud. Secondo passaggio: un vizio tipicamente meridionale, che in tanti abbiamo combattuto, si chiama «cultura dell'appartenenza». È quel meccanismo perverso per cui a qualcuno non viene chiesto «chi sei, che sai, che sai fare», ma «a chi appartieni». Questo rischia di diventare un vizio nazionale, cultura nazionale, ulteriore elemento di convenienza perché si creino le condizioni perché il Mezzogiorno possa crescere attraverso l'etica della responsabilità individuale, il rispetto delle regole, del tempo e il rifiuto delle logiche dell'emergenza. Il mio sogno è che un giorno ci sia un decreto-legge che stabilisca che è fatto divieto nel nostro Paese di ricorrere a proroghe e a deroghe. Infatti, quando dovessimo nel nostro Paese vietare il ricorso a proroghe e a deroghe e vietare il ricorso a logiche d'emergenza, forse cominceremmo a parlare il linguaggio europeo che, come è noto, considera il tempo un valore, le regole un vincolo e l'emergenza una catastrofe. Non è l'emergenza la catastrofe, ma è la logica dell'emergenza una catastrofe. Da questo punto di vista, credo che ci sia bisogno di un'assunzione nazionale di responsabilità se vogliamo che il Paese in un primo momento non veda il Sud penalizzato e poi complessivamente l'intero sistema penalizzato. Stiamo parlando di una parte dell'Italia che riguarda oltre la metà in termini di abitanti e, quindi, non è una parte secondaria della quale ci si possa in qualche modo disinteressare in base - torno a dire - all'etica della convenienza. Le vicende recenti della Calabria ci dicono che questa situazione rischia di essere ulteriormente esplosiva, perché stiamo assistendo nella vicenda calabrese ad una miscela esplosiva che mette insieme tentazioni di intolleranza razzista con criminalità organizzata. È una miscela esplosiva che - se dovesse non essere fronteggiata correttamente - rischia di contagiare l'intero Paese. Mi sembrava doveroso fare questa premessa perché appaia chiaro che nessuno può ritenersi esente da responsabilità quando si parla del divario tra Nord e Sud, in primo luogo, ovviamente, le classi dirigenti del Mezzogiorno che non hanno capito che occorre pensare in modo antico, come ammoniva il grande architetto Basile, ma occorre parlare il linguaggio dei contemporanei. Signor Presidente, occorre parlare in modo antico, non vecchio: le cose antiche si buttano o si riciclano. Pensare in modo antico significa, invece, pensare, avendo valore ad una dimensione valoriale, ma avendo cura di parlare il linguaggio dei contemporanei. Il dramma del Sud è che, troppo spesso, si pensa in modo vecchio e non antico e non si parla il linguaggio dei contemporanei. Abbiamo voluto in qualche modo presentare questa mozione, prendendo le mosse - purtroppo c'era l'imbarazzo della scelta - dall'ultimo rapporto Svimez presentato a luglio 2009 che ha fotografato un Mezzogiorno in recessione, colpito particolarmente dalla crisi nel settore industriale che da sette anni consecutivi cresce meno che nel centro Nord. Le prospettive per i prossimi mesi appaiono particolarmente gravi per le zone deboli del Paese. La diffusa percezione di una crisi che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzate del Paese, perché più aperte alla competizione internazionale, è purtroppo smentita dai dati relativi sia alla seconda metà del 2008 che ai primi tre trimestri del 2009. Nasce da questa considerazione l'elenco di proposte che abbiamo inserito in questa mozione, tutte rigorosamente ispirate a quella premessa dell'etica della responsabilità e del rifiuto della logica che il Nord del Paese o l'intero Paese sia responsabile perché presta poca assistenza al Sud. Si tratta di una logica perversa perché comunque accetta la logica dell'assistenza come risoluzione dei problemi, finendo con il trasformare in virtù o addirittura in cultura nazionale quelli che invece dovrebbero essere considerati i vizi della cultura dell'appartenenza, il mancato rispetto del tempo, il ricorso continuo alle deroghe piuttosto che alle proroghe o alle logiche dell'emergenza. Credo che bisogna cominciare con il riconoscere che l'aumento di disoccupazione nel nostro Paese - e in particolare nel Mezzogiorno - costituisce un'emergenza nazionale e, quindi, da questo punto di vista, occorre promuovere tentativi di consolidamento di un tessuto imprenditoriale meridionale, creando un contesto che finisca con l'essere utile alla produzione e all'occupazione insieme. Da questo punto di vista, chiediamo la reintroduzione del credito di imposta, in particolare nelle regioni dell'obiettivo Convergenza, a favore dei datori di lavoro che trasformano in contratti a tempo indeterminato quelli che non lo sono. Pensiamo che sia importante un'attenzione all'efficienza dei servizi pubblici nel Mezzogiorno, con specifico riferimento non soltanto all'INPS ma anche ai centri per l'impiego e agli organi ispettivi per i contratti di lavoro per evitare che ci sia un lavoro sommerso e nero e ci sia una mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Chiediamo ancora che ci sia un intervento di sollecitazione, razionalizzazione e orientamento (pur con tutti i limiti ben noti delle competenze regionali) della spesa regionale per la formazione professionale, troppo spesso fonte di sprechi e di clientelismo, e che nello stesso tempo sia finalizzata all'effettiva qualificazione per l'inserimento nel mondo del lavoro. Chiediamo che venga assunta una posizione netta e chiara riguardo alla necessità di salvaguardare i siti produttivi presenti nel territorio nazionale, in particolare nel Mezzogiorno. Chiediamo una particolare attenzione con riferimento alla FIAT di Pomigliano e di Termini Imerese perché francamente tutto si può accettare tranne che il più grosso gruppo industriale storicamente in Italia, la FIAT, faccia la fine di quelli che in un celebre libro Massimo Simili definisce «gli industriali del ficodindia». Gli industriali del ficodindia sono quelli che vanno in una regione dove crescono i fichidindia, normalmente le regioni meridionali, inventano un'iniziativa di intrapresa economica, si prendono i contributi e poi se ne vanno. Francamente che sia una società come la FIAT a fare questa operazione è sicuramente inaccettabile ed è per questo che noi crediamo che il Governo nazionale debba istituire un tavolo specifico per gli stabilimenti di Pomigliano e di Termini Imerese e debba costringere la FIAT a restare; se non dovesse restare, che almeno consenta che quel sito venga utilizzato per la produzione di auto. Sarebbe veramente singolare che nel nostro Paese la FIAT si comporti ancora oggi come se avesse il monopolio, non soltanto chiudendo le aziende, non soltanto delocalizzando le proprie produzioni, non soltanto prendendo danaro pubblico, ma poi impedendo ad altre società costruttrici di auto di produrre in Italia, un Paese nel quale, com'è noto, c'è uno scarto assai forte tra auto prodotte e auto acquistate. Il rapporto è di circa uno a tre tra le auto che vengono prodotte in Italia e le auto che vengono invece comprate: il che significa che circa i due terzi del mercato automobilistico in Italia è costituito da auto non fabbricate nel nostro Paese. La FIAT intende lasciare Termini Imerese? Bisogna impedirlo, ma c'è un limite oltre il quale non lo si può fare. Una cosa è certa: non può lasciare Termini Imerese ed impedire che in quel sito possa esserci un'altra attività imprenditoriale in concorrenza con la FIAT, altrimenti la logica deteriore che abbiamo appena finito di criticare sarebbe la caratteristica di questo intervento. Noi abbiamo fatto una proposta che verrà consegnata a Palazzo Chigi nelle prossime ore, chiediamo che il Governo nazionale assuma come proprio questo tema e costringa la FIAT a restare o comunque dica alla FIAT che, se vuole andarsene, se ne vada pure, ma non può impedire che nasca un concorrente che produca auto in quello stesso sito e con lo stesso tipo di caratteristiche, perché nel mondo non c'è solo la FIAT. Se la FIAT pensa che non c'è solo l'Italia, l'Italia ha il diritto di pensare che nel mondo non c'è soltanto la FIAT! Mi sembra che sia assolutamente la logica della convenienza che, a mio avviso, ha un grande e stringente valore etico. Chiediamo ancora che vengano assunti interventi per quanto riguarda il settore agricolo perché molto spesso viene dimenticato il sostegno e l'attenzione alla filiera agricola. Infine, chiediamo attenzione per l'innovazione, per le produzioni tipiche e per la produzione culturali dei diversi territori, se non vogliamo - come dicevano prima di me Sergio D'Antoni e Iannaccone - che ci sia la fuga dal sud. Onorevole Presidente, si sente dire che i migliori se ne vanno. I migliori se ne sono sempre andati, nella storia dell'umanità il migliore per definizione se ne va. Se qualcuno è migliore per quanto riguarda il salmone non può restare a Palermo, se qualcuno è migliore nella danza moderna forse anche New York è troppo piccola per restarvi. Bertolt Brecht, sicuramente era un migliore: era nato ad Augsburg, città colta, città dei Fugger, con le tesi di Lutero, ma piuttosto che candidata ad essere capitale europea della cultura, amava dire di questa città che la cosa più importante che c'è è il treno che porta a Monaco di Baviera, perché, per un migliore, Ausburg è troppo piccola, troppo modesta. Il dramma non è che se ne vanno i migliori, il dramma è che diventano migliori quelli che se ne vanno: cioè, a parità di titoli, a parità di merito, chi se ne va diventa migliore, trova comunque un lavoro, un lavoro serio, fa carriera, e chi rimane, invece, è condannato a chiedere ad un politico clientelare, in cambio dei voti della famiglia, un posto in nero a in un . Vediamo diplomati e laureati che passeggiano per le strade della Sicilia, e in generale del sud, elemosinando un posto di lavoro che poi, dopo cinque, sei, otto o dieci anni, scoprono che il compagno di studi, di scuola, di università, bravo quanto loro (non necessariamente più bravo di loro), ha trovato lavoro, ha fatto carriera. È un problema che non è più soltanto meridionale, comincia ad essere un problema nazionale. I bravi se ne vanno e chi se ne va diventa migliore. Se ne vanno quelli che hanno, come ricordava Sergio D'Antoni, non quelli che non hanno. In passato se ne andavano quelli che non avevano titolo di studio, sensibilità artistica, capacità imprenditoriale, se ne andavano con la valigia di cartone e mandavano lodevolmente i soldi alle famiglie rimaste in Italia. Adesso accade tutto il contrario: se ne vanno quelli che hanno un titolo di studio, sensibilità artistica, capacità imprenditoriale, se ne vanno con il computer, non con la valigia di cartone, e non mandano i soldi dall'estero alla famiglia, ma hanno bisogno dei soldi della famiglia per andare all'estero e non tornano più. Credo che il senso vero del dibattito sia quello di evitare che in questo nostro Paese ci sia una parte così consistente di territorio non più competitivo, perché ormai in una società globale la competizione non è più fra le persone (fra gli avvocati, fra i commercianti, fra gli imprenditori) ormai la competizione è tra i territori e se io sono un personaggio modesto e sto in un territorio competitivo farò carriera, se sono un personaggio eccellente e sto in un territorio non competitivo sarò un fallito nella vita. Ritengo, dunque, che l'Italia abbia convenienza a che la metà del suo territorio sia competitiva perché poi alla fine il prezzo, il costo, lo paga il sistema Italia. Credo che il Governo dovrebbe farsi carico della convenienza per il nord che il sud abbia uno sviluppo, diversamente esporteremo intelligenze che salteranno il nord per andarsene probabilmente all'estero dove diventeranno i migliori. Insieme a coloro che vanno all'estero esporteremo nel nord Italia i nostri vizi e i vizi meridionali rischiano di diventare cultura nazionale senza che i meriti meridionali possano diventare risorsa per l'intero Paese .
. È iscritto a parlare l'onorevole Moffa, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00305. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che il dibattito che si sta sviluppando sui temi del Mezzogiorno attraverso le varie mozioni, anche il Popolo della Libertà ne ha presentata una, possa essere davvero un'occasione importante da non dissipare, un'occasione importante a condizione che si inquadri correttamente il nostro ragionamento, il nostro approccio, superando anche alcuni luoghi comuni, alcuni stereotipi che hanno sempre accompagnato, come è stato anche detto da altri colleghi prima di me, il dibattito intorno al Mezzogiorno. Al di là di quello che è indicato nella nostra mozione e che poi alla fine cercherò di riassumere soprattutto nella parte degli impegni che chiediamo al Governo, credo che sia opportuno partire proprio da questo elemento, da questa riflessione. Non molto tempo fa, quest'estate, è uscito un libro assai interessante di un illustre studioso, che certamente non può essere considerato automaticamente vicino al centrodestra, Gianfranco Viesti, che ha scritto un intitolato «». All'interno di quel c'è una riflessione che vorrei sottoporre ai colleghi come elemento che aiuti a situare meglio il nostro confronto. Scrive Viesti: «Il vero declino di un Paese si misura non solo quando ci si affida al prodotto interno lordo che non cresce, ma soprattutto quando una parte rilevante della sua classe dirigente e poi dei suoi cittadini, parlando del presente e del futuro del Paese, si affida a stereotipi e a sentito dire». Sul Mezzogiorno spesso ci si è rifugiati appunto negli stereotipi e nel sentito dire. Il fatto è che i problemi del Mezzogiorno sono molto simili, in misura certo spesso accentuata, a quelli dell'intero Paese. Ormai in Italia noi chiamiamo Mezzogiorno quello che non ci piace, o che non vogliamo vedere nel nostro Paese: i problemi difficili che non riusciamo ancora a risolvere. Scrive ancora Viesti che risolvere i problemi del Mezzogiorno significa risolvere i problemi dell'Italia e tutto questo richiede una strategia di fondo, ma bisogna esserne intimamente convinti. Bisogna cioè avere il coraggio di superare la stessa negatività del termine Mezzogiorno come territorio circoscritto che è diverso e peggiore dal resto dell'Italia. Se non si crea una fiducia reciproca tra gli italiani e se non si torna ad occuparsi non solo del proprio interesse, ma dell'interesse collettivo di tutti gli italiani e disegnare, quindi, un Paese diverso, l'Italia non potrà che sperimentare una sorta di secessione dolce. Questa, al di là del dibattito importante sul federalismo, riguarda proprio l'assenza di questa capacità di una visione di insieme, di un'idea di progetti condivisi che in qualche modo puntino sul Mezzogiorno come fattore determinante per ricreare crescita e sviluppo, considerando il Mezzogiorno un motore per la ripresa dell'intero sistema Paese. Ciò implica evidentemente una politica, ma anche una riflessione sugli errori del passato e la capacità di capire perché oggi ci troviamo in questa situazione, al di là della congiuntura economica complessiva affrontata dal Governo in questa fase. È chiaro che sarebbe sbagliato - come diceva anche il collega Leoluca Orlando poco fa - non contestualizzare e in qualche modo attualizzare anche il nostro linguaggio e la nostra analisi rispetto a ciò che accade ed è accaduto negli ultimi tempi, in quanto rischieremmo di cadere negli stereotipi e nei luoghi comuni. La verità è che noi stiamo fronteggiando una crisi epocale e diversa da quelle precedenti che proprio per la sua particolarità non può che produrre effetti negativi sotto il profilo soprattutto della terza fase della crisi che riguarda le ricadute occupazionali, laddove evidentemente l'anello del sistema Paese è più debole, quindi nel Mezzogiorno. Sappiamo benissimo, dunque, dati alla mano, non solo dell'ISTAT, dell'Isfol e degli altri osservatori nazionali e internazionali, quali sono i dati agghiaccianti con i quali noi dobbiamo fare i conti. Tuttavia, bisogna fare attenzione, in quanto, quando parliamo di questo, non dobbiamo dimenticare quello che è successo negli anni. Il problema del Mezzogiorno è legato anche ad alcune scelte strategiche sbagliate fatte nel passato. Voglio ricordare le scelte fatte nel lontano 2003 - che non sembra poi un riferimento molto lontano nel tempo ma importante per il ragionamento che intendo sviluppare - quando con il Governo D'Alema si andò a tracciare la strategia di sviluppo che doveva portare fino al 2013 il nostro sistema Paese a confrontarsi anche con gli indirizzi europei. Proprio in questo libro si trovano dei dati che, alla fine, fanno anche giustizia di tante inesattezze che hanno accompagnato spesso il dibattito anche in quest'Aula sulle risorse indirizzate verso il Mezzogiorno e le divaricazioni tra le risorse che vanno al nord e quelle che vanno al sud. Spesso si è in qualche modo confusa la spesa pubblica (composta da spesa in conto capitale e da quella in conto corrente) con i fondi di intervento a livello europeo; come sapete, il FAS e i fondi strutturali sono regolati da normative ed indirizzi europei. La verità è che quando analizziamo nel dettaglio la quantità delle spese ordinarie (fatte per tre quarti di spesa ordinaria e un quarto di spese aggiuntive ricollegabili al FAS e ai fondi europei soprattutto infrastrutturali), ci si accorge che c'è un divario enorme. Infatti, proprio grazie a quelle indicazioni che venivano dal Governo D'Alema nel 2000-2003, i fondi che hanno riguardato l'indicazione del DPEF in quell'anno riguardavano soprattutto la possibilità di indirizzare risorse tenendo conto del peso delle due grandi aree del Paese in termini di PIL e di popolazione, stabilendo che la spesa ordinaria in conto capitale dovesse andare per il 30 per cento al sud e per il 70 per cento al centronord. Se andiamo a sommare tutto questo, come dato ultimo, con i fondi strutturali e il FAS, che, come dicevo prima, sono individuati nelle loro logiche distributive dai parametri europei, ci si accorge che il 45 per cento della spesa totale in conto capitale, che è quella europea, nazionale e ordinaria tutta insieme, va al sud e il 55 per cento va al centronord. Sono parametri che ci hanno accompagnato nel corso delle politiche di questi anni successive alle scelte di quei Governi. Ciò significa che la spesa aggiuntiva nel Mezzogiorno per le politiche di sviluppo del sud, di fatto, è stata sostitutiva della mancanza di spesa ordinaria. È su questo elemento che, evidentemente, bisogna intervenire, se vogliamo in qualche modo invertire il processo. Accanto a questo, credo che un altro elemento sul quale bisogna assolutamente ragionare è sicuramente quello di richiamare alcune regole fondamentali che hanno accompagnato l'economia a livello nazionale e internazionale. Non c'è dubbio che non è la chiusura, ma l'integrazione fra le economie il motore della crescita. Se non riusciamo ad integrare l'economia che muove una parte del Paese, quella generalmente ritenuta più avanzata del centronord, con l'economia meridionale, all'interno di una visione di insieme di politiche di sviluppo, evidentemente non riusciremo ancora a dare una risposta ai problemi del Mezzogiorno. Vorrei citare, anche qui, una fonte importantissima, che è quella del Censis, che recentemente ci ha ricordato, in un capitolo importante del 43o Rapporto, che nel Mezzogiorno abbiamo una pluralità di realtà: non esiste il Mezzogiorno, ma i «mezzogiorni». Se vogliamo trasformare i vincoli del Mezzogiorno in opportunità, dobbiamo incominciare a capire che bisogna fuoriuscire da quell'idea per cui c'è un Mezzogiorno omogeneo e problematico, che è irrimediabilmente distante dalle prospettive e dal tenore di vita della parte più ricca del Paese. Dobbiamo analizzare meglio questi dati, capire che oggi c'è stato, anche all'interno del Mezzogiorno, uno sviluppo a macchia di leopardo, che ci consente in qualche modo di puntare anche sulle grandi potenzialità del Mezzogiorno in una visione di insieme, in una logica di sistema Paese che incomincia e che torna ad essere fortemente competitivo rispetto allo scenario globale, nel quale oggi siamo immersi, dell'economia interna e internazionale. Qui viene la scelta di fondo, che non può che avere ricadute positive sul piano dell'occupazione e che riguarda la strategia di un sistema Paese che deve, in qualche modo, guardare al Mediterraneo come asse centrale del suo sviluppo: il Mezzogiorno come luogo della logistica integrata, come luogo della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica, soprattutto per quanto riguarda le energie rinnovabili. Occorre, cioè, sfruttare il potenziale e il patrimonio della natura e della ricchezza di formazione che abbiamo nel Mezzogiorno, che spesso è dissipata. Intorno a questi argomenti credo si debba sviluppare un dibattito del Parlamento, se vogliamo davvero sviluppare delle politiche attive, ovviamente tenendo conto dell'emergenza, delle necessità che venivano richiamate, delle criticità che nel Mezzogiorno si avvertono più che altrove e che riguardano soprattutto i giovani e il forte dato della migrazione, che riguardano lo scarso accesso al credito delle piccole e medie imprese, che riguardano il ritardo nei sistemi di internazionalizzazione della piccola e media impresa del sud rispetto all'impresa del centronord. Sono tutti elementi sui quali bisogna insistere. Il Governo ha cercato in questa fase di tamponare la crisi allargando per esempio l'applicabilità degli ammortizzatori sociali, intervenendo su categorie e su tipologie di lavoro che prima non erano assolutamente considerate, e introducendo alcuni aspetti che vanno a semplificare i processi di collegamento tra il sistema formativo ed il sistema di accesso al lavoro. È lì la chiave sulla quale bisogna intervenire se vogliamo creare un circuito virtuoso, che faccia sì che la formazione sia collegata anche al fabbisogno dell'impresa; e quando parlo di impresa parlo dell'impresa che ha saputo innovarsi, che ha saputo liberarsi di lacci e lacciuoli, l'impresa che va aiutata anche ad esistere e a rafforzarsi, laddove la presenza della criminalità è più forte e più radicata. In questi giorni, in riferimento ai fatti che hanno interessato Rosarno qualcuno ha parlato di assenza dello Stato: la verità è che noi dobbiamo fare in modo che lo Stato sia presente, non perché bisogna immaginare che cosa fare, ma perché si faccia bene quello che bisogna fare. Questa è la grande scelta, questa è la grande domanda di legalità che può essere garantita da uno Stato che abbia tale forza e la capacità di governare alcuni processi. Nella mozione dunque che il Popolo della Libertà presenta ai colleghi, e che ritrova anche alcune «colleganze» con altre mozioni e altri indirizzi che qui ho ascoltato, in particolar modo da parte dell'onorevole Iannaccone, noi chiediamo che su tali argomenti il Governo presenti un piano organico e complessivo, sviluppando un'analisi di approccio diversa rispetto al Mezzogiorno e alle politiche che lo hanno interessato negli anni passati. Pensiamo che in questa fase bisogna soprattutto contrastare il lavoro nero: ricordo a questa Assemblea, a questo Parlamento, che è in corso presso la Commissione lavoro, che ho l'onore di presiedere, un'indagine conoscitiva sul caporalato, sul lavoro nero, proprio con particolare riferimento alle aree del Paese che sono più esposte a tale criticità, e quindi al Mezzogiorno. Mi auguro che, portando a termine in tempi abbastanza rapidi tale lavoro di analisi e di approfondimento, si possa, anche unanimemente con l'opposizione, raggiungere delle intese per sviluppare - perché no? - delle proposte legislative migliorative, che aiutino a snidare il fenomeno del lavoro nero, analizzandolo anche nei suoi aspetti più reconditi, negli aspetti più particolari, e più inquietanti per taluni profili. Riteniamo che ci voglia un piano urgente, soprattutto per promuovere tirocini formativi, per migliorare il funzionamento dei servizi per l'impiego, per fare in modo che con il contratto di apprendistato e con i che già esistono e che già sono stati messi in azione dal Governo, si possa arrivare a valorizzare gli strumenti di integrazione tra sistema educativo e mercato del lavoro; visto che ci muoviamo all'interno di un'articolazione dei sistemi di potere locale, dei poteri regionali, che debbono necessariamente dialogare con il potere statale, occorre che vi siano le occasioni per un confronto aperto, non solo con i livelli istituzionali, ma anche con le parti sociali, per fare in modo che vi sia una convergenza di idee e di indirizzo sugli interventi più importanti da fare per poter valorizzare questo patrimonio, che non va dissipato, di risorse umane, di risorse giovanili nel Mezzogiorno d'Italia. E vorremmo anche che vi sia quanto prima l'applicazione di programmi di azione per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro, perché proprio nel Mezzogiorno registriamo una percentuale più alta, rispetto ad altre zone del nostro Paese, per quanto riguarda la difficoltà di accesso al lavoro da parte delle donne, ovviamente compatibilmente con la necessità di conciliare i tempi del lavoro con i tempi dedicati alla cura della famiglia e per la promozione delle pari opportunità nell'accesso al lavoro. Cari colleghi, concludo con un appello affinché questo dibattito assolutamente importante ed urgente non si risolva in una disputa su luoghi comuni, ma si possa davvero, attraverso le mozioni in discussione e - perché no? - anche attraverso la necessità di trovare un'unicità di intenti, delineare un suggerimento al Governo per una politica che, rendendo giustizia degli errori del passato, dia davvero sviluppo al Mezzogiorno in quel quadro che è stato più volte richiamato da alcuni colleghi, all'interno del quale il Mezzogiorno non venga considerato un orpello del nostro Paese, ma una risorsa per tutto il sistema Italia .
. È iscritto a parlare l'onorevole Tassone che illustrerà anche la mozione Pezzotta ed altri n. 1-00307, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, stiamo svolgendo a mio avviso un dibattito e un confronto estremamente interessanti. Alcuni elementi, credo, di estremo significato sono contenuti nella nostra mozione il cui primo firmatario è l'onorevole Pezzotta. I temi dell'occupazione e quindi del Mezzogiorno possono essere affrontati in almeno due modi: quello di riportare una serie di considerazioni e valutazioni molte volte ripetitive e un secondo possibile percorso, che tentiamo di intraprendere attraverso la nostra mozione ovvero quello di cercare di aprire nel Paese un confronto serio sui temi del Mezzogiorno. Non ci sono i temi del Mezzogiorno e quelli del Paese o del nord, ci sono i problemi e i temi del Paese, del suo sviluppo e del suo avanzamento civile e ed umano. C'è poi un tema, che abbiamo richiamato in altre occasioni, che è quello del ruolo del nostro Paese e del Mezzogiorno in particolare nell'area del Mediterraneo. Se noi avessimo, tutti insieme, la capacità di svincolare il tema del Mezzogiorno da visioni anguste e, quindi, di recuperare una proiezione forte dove non c'è un comparto che si interessa del Mezzogiorno, ma la politica complessiva di un Paese che si interessa del suo territorio e soprattutto delle sue relazioni anche a livello internazionale, forse ci agganceremmo a una visione meridionalista che fu, all'inizio del secolo scorso ma soprattutto dopo il secondo conflitto bellico, un motivo forte di quelle forze politiche che conquistavano, attraverso la democrazia, condizioni sempre più importanti per lo sviluppo dell'uomo e della sua dignità. Ho sentito in questi giorni un Ministro della Repubblica, nella fattispecie il Ministro dell'interno, affermare che la Cassa del Mezzogiorno è stato un fallimento. Il Ministro dell'interno dovrebbe avere una diversa chiave di lettura, fare un approfondimento. Anche se è un Ministro deve pur documentarsi. Se poi si tratta del Ministro dell'interno deve fare un supplemento di documentazione e di valutazione. Certo vi è stata una fase importante nella vita del Paese rappresentata non dalla Cassa per il Mezzogiorno in quanto tale, ma dalla Cassa per il Mezzogiorno come espressione di una cultura volta a creare le condizioni portanti e fondamentali che legassero quella parte del nostro Paese al resto del Paese ed all'Europa. Se vi è stato un motivo forte nel quale i grandi meridionalisti, come Saraceno ed altri, sono venuti fuori certamente esso consisteva nel guardare ad una prospettiva ed in particolare a tutto quel rigoglio di energie e di risorse che attraverso una fase di libertà si proiettava per dare al Paese un presente ed un futuro molto più dignitosi e più aderenti ai grandi principi ed ai grandi valori dell'uomo. Se questo è il dato, signor Presidente, i temi del Mezzogiorno e dell'occupazione vanno affrontati con questa ottica: dobbiamo riuscire a compiere una rivolta ed una rivoluzione culturale in cui il tema del Mezzogiorno non viene affidato semplicemente al Governo del tempo. Sarebbe per me e per tutti gli altri uno sforzo inane, ma soprattutto una presunzione chiedere ad un Governo di fare tutto e il contrario di tutto: non è questo! Se si presentano gli atti di indirizzo parlamentare è perché dobbiamo trovare in questo Parlamento ed in questo Paese le condizioni per aprire scenari nuovi e diversi, pur valutando che questo Governo è condizionato da alcune suggestioni del nord, in cui ovviamente le diversità anche territoriali sono pesanti e a volte soffocanti e non danno una linearità di giudizio né la capacità di offrire una valutazione oggettiva ai processi che investono il nostro Paese. Certo si registra una grande crisi, una crisi europea come abbiamo detto, una crisi che colpisce e che ha colpito il nostro Paese e che colpisce certamente le aree deboli del nostro territorio e del nostro Paese. Ma ciò che dobbiamo tentare di comprendere è che i problemi del Mezzogiorno non si risolvono attraverso l'aumento delle risorse: sarebbe a nostro e a mio avviso uno sforzo inutile, ma soprattutto un delitto chiedere più risorse senza avere una capacità e senza indicare come si realizzano e come si investono queste risorse in termini seri e forti. Ciò che manca oggi è una strategia ed una politica complessiva del Paese nell'ambito dell'Europa (prima facevo riferimento anche all'area del Mediterraneo). Qualcuno nel passato ha sempre rivendicato più risorse, ma oggi è il tempo di capire come si investono e come vengono utilizzate queste risorse. Abbiamo vissuto anche momenti particolari: chi non ricorda la legge n. 285? Ma non possiamo chiedere molte cose e poi ovviamente rifugiarci nella via più facile, quella dell'assistenzialismo che aumenta il precariato, che aumenta vicende e situazioni del sommerso e che dilata l'illegalità nella quale attecchisce la criminalità organizzata. Vi sono tanti modi oppure si può pensare una cosa diversa, ma su questo bisogna diffondere i momenti di grande responsabilità. Ed in questo deve ritrovarsi la politica, non la modestia di una certa politica ma la politica come momento di guida e di passione e, soprattutto, di sviluppo complessivo all'interno del nostro Paese di un ragionamento che non può essere parziale, di parte, né può essere l'elenco dei sogni o dei posti in più, non può essere l'annuncio di un Piano per il sud che poi non si capisce - questo Piano del sud - come va a collegarsi anche con le politiche generali del nostro Paese, o di una Banca del sud che non sappiamo che cosa deve fare, come si sviluppa e cosa rappresenta o porta di innovativo rispetto alla politica del credito all'interno del nostro Paese. Molte volte tante cose rimangono in ombra, sono soltanto degli delle valutazioni e sopratutto delle considerazioni che hanno qualche cosa di generico. Ma vi è un dato, signor Presidente, che è quello che viene fuori continuamente quando si parla del Mezzogiorno: il Mezzogiorno ha l'opportunità dell'infrastrutturazione; e quando parliamo dell'infrastrutturazione ci riferiamo all'attraversamento stabile dello stretto di Messina. Ma il ponte di Messina, svincolato da una serie di legami infrastrutturali, da un processo di sviluppo economico, rimane un'opera sospesa in aria senza un'incidenza forte, senza rappresentare un momento forte di rottura. Un ponte così ideato sarà certamente utile, ma soltanto su un piano astratto, non in concreto. Non sarà un dato di rottura rispetto a quelle che sono le vecchie arretratezze sociali, civili e culturali. Allora non vi è dubbio che va fatto uno sforzo per capire e comprendere. Non si può svolgere un referendum nel Paese a favore o contro il ponte. Bisogna far capire che vi è bisogno di valutazioni molto più ampie e che vi è l'esigenza di avere una classe dirigente che sia all'altezza delle sfide e, soprattutto, degli appuntamenti con la storia a cui bisogna rispondere con grande forza, responsabilità e consapevolezza. Signor Presidente parliamo più volte delle regioni e vi è una parte del testo di questa mozione, di cui il primo firmatario è l'onorevole Pezzotta, che si riferisce al coordinamento tra le regioni, le autonomie locali e il Governo centrale. Tuttavia, quando parliamo delle regioni «bypassiamo» alcuni temi e argomenti. La spesa molte volte è di competenza delle regioni. Quando ci riferiamo alla formazione, ci riferiamo agli insulti all'intelligenza che sono stati fatti attraverso alcuni tipi di azioni formative svolte dalle regioni. Nessuno parla mai degli sperperi; ci riferiamo alla formazione, alla necessità di legare la scuola al mondo del lavoro, al mondo produttivo, ma mai si parla di quelle che sono state le distrazioni, i vuoti, le lacune, le insolvenze e soprattutto le responsabilità morali di chi ha avuto la gestione di alcune regioni all'interno delle aree meridionali. Non faccio riferimento ad un colore politico o ad un altro. Chi mi conosce lo sa: non faccio di queste valutazioni, non faccio propaganda di parte. Bisogna allora rivedere i rapporti tra Stato e regioni. Quando parliamo di coordinamento che cosa significa? Significa certamente anche una politica del territorio e dell'ambiente. Che cosa intendiamo per nuove responsabilità? In riferimento alle risorse del FAS, abbiamo denunciato in quest'Aula come esse siano andate ad alimentare altri capitoli di spesa, altri impegni di spesa. Ma molte volte le risorse del FAS ci sono e, affidate alle regioni, non si riescono a spendere, non si riescono ad utilizzare. Il discorso, dunque, va fatto in termini complessivi molto seri, forti e stringenti, con un Governo che si assuma la responsabilità, e riesca a cogliere e a capire quelli che sono i sussulti e le vicende del nostro Paese. Il nostro Paese provò alla fine dell'Ottocento delle valvole di sicurezza, di sfogo. Eravamo in una fase postunitaria, il Mezzogiorno era stato conquistato, e la valvola fu la grande emigrazione verso il nord Italia e le Americhe. Signor Presidente, negli ultimi dieci anni ci sono state centinaia e centinaia di migliaia di meridionali che hanno lasciato la propria terra, i propri paesi. Questo tipo di valutazione va fatta perché, anche allora, si pensava di risolvere il problema del Mezzogiorno in questo modo, anche allora si pensava di risolvere il problema della depressione economica in questo modo. Poi certamente sono venute fuori vicende e storie brutte. Mi riferisco agli impegni economici a favore di imprese, mi riferisco alla legge n. 488 del 1992 e noi sappiamo che i fondi previsti da tale provvedimento (almeno per quanto riguarda la mia regione) per il 90 per cento sono andati alla criminalità organizzata. L'ho sempre denunciato: i fondi relativi a tale provvedimento - lo ripeto - sono andati alla criminalità organizzata. Ecco perché noi parliamo di criminalità. Anche nel dispositivo della mozione parliamo di criminalità, parliamo di illegalità diffusa, di coperture e di connivenze, dove la clientela a volte si lega alla connivenza e si lega alla criminalità organizzata, dove ci sono poteri forti che soffocano le energie. Ecco perché nella nostra mozione puntiamo sulle energie umane, puntiamo sui giovani facendo riferimento a quello che ci dice l'ISTAT, lo SVIMEZ, il mercato, soprattutto agli obiettivi mancati di Lisbona 2010 (quelli previsti e indicati da Lisbona 2010); facciamo riferimento a questo impoverimento umano che è un impoverimento culturale. Poi ci poniamo una serie di interrogativi per capire quanto avvenuto a Rosarno, gli immigrati, le loro condizioni subumane di vita. Qualche Ministro ha detto che vi era stata molta tolleranza, e in Calabria abbiamo dovuto assistere a quel battibecco, a quel minuetto tra il Ministro dell'interno e il presidente della regione. Si tratta di un vuoto tremendo rispetto ad una situazione esplosiva che deve essere recuperata in una proiezione diversa, elevando il tono del dibattito e del confronto. Non si tratta di una questione di responsabilità tua o mia (ci può essere o meno ovviamente il giusto tuo e l'errore mio), ma ci deve essere una considerazione e una valutazione forte che ci porta ad una sintesi e ad un modo di programmare il futuro del nostro Paese e del nostro Mezzogiorno. Nel dispositivo della mozione noi poniamo una serie di problemi. Certamente sono stati anche richiamati la fiscalità di vantaggio, il credito di imposta, e condizioni diverse nelle quali a volte queste aree del sud sono state sottratte ad interventi razionali, aree dove si è verificata la pirateria di alcune industrie. Quello che è avvenuto a Crotone ad esempio. Mi riferisco alla Pertusola che ha disseminato il territorio di scorie, alla grande industria che ha violentato molte volte luoghi che erano destinati ad altro, al turismo, alla conservazione dell'ambiente. Vi è stata ovviamente una sottovalutazione nel passato e nel presente, ma nel presente vedo una grande confusione, una grande incertezza, come se noi ci trovassimo di fronte ad una dualità, ad un confronto e ad uno scontro tra culture e tra territori di serie A e territori di serie B. Ritengo che oggi ci debba essere una riflessione forte. Se si farà questo, anche l'occasione di un atto di indirizzo parlamentare sarà colta e non sarà dispersa o dissipata così come diceva il nostro collega, il mio amico onorevole Moffa. Questo avverrà, se si coglierà questo momento del dibattito, altrimenti noi procederemo domani con il parere favorevole o contrario del Governo, voteremo una mozione, ne respingeremo un'altra e non succederà più nulla. Ma questo è un problema che non può essere lasciato semplicemente ad un dibattito stanco. Non è un rituale, non è lo svolgimento di un compito, non è la firma su un documento, non è ovviamente il tagliando che si stacca in modo che ognuno di noi abbia fatto il proprio dovere. C'è una realtà oggi che si muove, che non è soltanto quella del Mezzogiorno, ma quella del nostro Paese dove ovviamente le istituzioni devono mostrare la propria forza. Oggi sono deboli, le istituzioni sono deboli, le politiche sono deboli. Su questo noi vogliamo che il senso e il significato di una proposta guardi e si innalzi verso un profilo sempre più alto, sempre alla luce della storia del passato, riuscendo ad evitare gli errori e a colmare le lacune, guardando con un animo diverso e con una visione diversa. Questo è il senso di una proposta, di una sollecitazione, questo è il senso di un dramma che noi registriamo continuamente. Lo ripeto ancora e ritorno su un argomento importante e, quindi, mi avvio alla conclusione, dove c'è un mondo giovanile che si disperde, è disperato, deve cercare altrove, c'è la disperazione non di un territorio ma dell'uomo, c'è uno sradicamento dell'uomo, certamente noi abbiamo fatto riferimento anche alla Carta costituzionale, al richiamo al lavoro ma bisogna fare riferimento ai diritti inviolabili dell'uomo, all'uguaglianza dell'uomo rispetto alla quale ovviamente le differenze territoriali sono differenze umane. Ritengo che questo sia il senso e il significato della nostra mozione che guarda ad una visione culturale diversa con un approccio diverso dove certamente, in uno sforzo, questo Parlamento dovrebbe trovarsi con grande passione e con diverso entusiasmo. Stiamo discutendo oggi di riforme costituzionali e vi posso assicurare che quando si parla di queste riforme ai giovani della mia Calabria o della Puglia oppure della Basilicata importa poco. Le grandi riforme si fanno certamente per le istituzioni perché queste servano ai processi alla crescita e allo sviluppo. A volte alcuni pensano che le riforme servono semplicemente agli addetti ai lavori. Ma gli addetti ai lavori non possiamo essere noi, legislatori o altro. Gli addetti ai lavori sono i destinatari veri di queste riforme perché queste ultime sono al servizio della relazione culturale ed umana del nostro territorio oppure sono riforme che non lasciano incidenza e che non creano nessuna passione e non riscaldano nessun cuore .
. È iscritto a parlare l'onorevole Barbato che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00308. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, signor sottosegretario al lavoro, onorevoli colleghi, indubbiamente la crisi dei mercati finanziari scoppiata negli Stati Uniti qualche anno fa è indubbio che avesse un riverbero anche qui da noi, nel vecchio continente. Tuttavia qui si è trasformata da crisi finanziaria anche in crisi economica determinata soprattutto dalla contrazione dei consumi che come effetto hanno causato un rallentamento pesante della produzione industriale. Quindi, ancora di conseguenza, vi è stata una continua riduzione e un taglio dei livelli occupazionali, dei posti di lavoro. Ebbene immaginiamo che tutto ciò determina grandi tensioni sociali che si registrano soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia dove l'aspetto più singolare e più raccapricciante è determinato dal fatto che in un momento così difficile di crisi economico-finanziaria si chiedono sacrifici ai più deboli, ai più piccoli: mi riferisco soprattutto al mondo imprenditoriale. Le piccole imprese, le imprese di natura e struttura familiare con pochi dipendenti o fino a 15 dipendenti vengono convocate e si chiede loro di fare ulteriori sacrifici. Vengono chiamate a partecipare a tavoli istituiti presso le prefetture, con il Ministero del lavoro, questi imprenditori ci mettono anche il cuore, addirittura vanno ad ipotecare i loro beni personali per potere avere liquidità e soprattutto per superare questo momento di difficoltà. Ebbene, mentre i più piccoli, le aziende più piccole fanno la loro parte, stranamente invece quelli più forti, i più potenti, che diventano poi i più prepotenti, sono quelli che partecipano di meno a questo momento di condivisione e compartecipazione anche delle difficoltà. Nel Mezzogiorno d'Italia, signor Presidente, è singolare che i due canali più grossi dove ristagna la maggior parte della liquidità, del della ricchezza italiana (le banche e le assicurazioni), le compagnie di assicurazioni, con una sorta quasi di cartello che stanno mettendo in atto, stanno decimando centinaia e centinaia di agenzie, stanno chiudendo e revocando ai vari mandatari il rapporto agenziale. Considerate che in Italia esistono ben 128 mila intermediari assicurativi e finanziari. Al 31 dicembre 2008 nel Mezzogiorno d'Italia si è verificato, per la prima volta, che il settore RC-auto ha registrato una perdita nei bilanci delle compagnie, ed il risultato è stato che nel 2009, in modo massiccio, si sono chiuse agenzie. Quindi non si va a mortificare e a mettere in ginocchio solo un determinato mondo del lavoro che eravamo abituati a vedere, del «Cipputi», dell'operaio, ma qui addirittura si sta decimando un settore ed un segmento lavorativo che è fatto di persone che lavorano in doppiopetto, di professionisti, di intermediari, di partite IVA. Infatti, intorno alle agenzie di assicurazione che chiudono va via una pletora di collaboratori, di subagenti, di intermediari, di impiegati di agenzie, di periti, di liquidatori. Insomma, si sta mettendo in ginocchio uno dei gangli più importanti, che è quello assicurativo, e che determinerà una decimazione incredibile ed una perdita sostanziosa di posti di lavoro soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia, di cui nessuno parla, perché probabilmente qui i poteri forti la fanno ancora franca e riescono a far passare nel totale silenzio un momento così drammatico. Sono anche e soprattutto i grandi gruppi assicurativi, il gruppo SAI Fondiaria, il gruppo UGF dell'Unipol: pensate che in Campania dalla sera alla mattina si è deciso di chiudere tutte le agenzie dell'Unipol e dell'ex Aurora Assicurazioni. Ma questo vale sia per le grandi sia per le piccole assicurazioni: la Navale assicurazioni come la Progress assicurazioni, che era l'unica compagnia di assicurazione ancora con sedi al sud, con sede a Palermo, che nel giro di un anno è passata da 170 agenzie che aveva su tutto il territorio nazionale a meno di 40. Quindi, immaginate che disastro occupazionale, soprattutto in Sicilia e in Campania, dove vi era il maggior numero di agenzie. Ecco perché è inconcepibile come soprattutto quelli che potrebbero con minore sforzo dare un contributo in questo momento di difficoltà, girano invece le spalle e si affidano ai loro egoismi o addirittura approfittano di momenti come questi per trarre maggior lucro. Mi riferisco anche ad un altro potente: alla FIAT. Infatti, non si può non ricordare che circa 25 anni fa, con il Governo Craxi, fu regalato - ripeto: regalato - lo stabilimento che allora si chiamava dell'Alfasud di Pomigliano d'Arco, che era stato realizzato con le partecipazioni statali (era gruppo IRI), e che fu sostanzialmente regalato alla FIAT, anche se in quel momento vi era un che si chiamava Ford, che aspirava ad acquistare quello stabilimento. Ebbene, in nome dell'italianità - perché la FIAT era un'industria automobilistica italiana - fu letteralmente regalato questo stabilimento, che ha una superficie che insiste su 6 chilometri quadrati e all'epoca aveva 15 mila lavoratori, mentre oggi la FIAT di Pomigliano d'Arco ne ha solo 5.128. Condivido e sono d'accordo con l'operazione all'epoca fatta dal Governo di preferire la FIAT alla Ford, non solo per la italianità ma anche perché facendo rimanere la vecchia Alfasud nelle mani di un'impresa automobilistica italiana era anche più facile, successivamente, poter intrecciare relazioni industriali, sapendo che era una fabbrica che aveva il suo e il suo azionariato di riferimento a Torino e non si dovevano rincorrere eventualmente i proprietari negli Stati Uniti o altrove nel mondo. Ma non finisce lì perché con la legge n. 488 del 1992, che era soprattutto rivolta al rilancio delle regioni del sud, sempre la FIAT ha ricevuto qualcosa come 400 miliardi di vecchie lire, per organizzare e allestire i suoi stabilimenti, le sue aziende e il suo personale, per formarlo e altro ancora. In altre parole, ha ottenuto circa il 55 per cento delle risorse stanziate dalla legge n. 488 del 1992. Inoltre, non si devono dimenticare tutti gli aiuti che ha avuto la FIAT, cominciando dalla regione Piemonte che con la presidente Bresso nel 2005 addirittura siglò un accordo di programma che consentiva di costruire dei capannoni di ricerca e dei binari all'interno delle aziende. In buona sostanza, si è trattato di un accordo di programma che in cinque anni concedeva 280 milioni alla FIAT per tutelare soprattutto i posti di lavoro. Insomma, vi è stata una continua elargizione di benefici a favore della FIAT da parte del settore pubblico. Addirittura, a Pomigliano d'Arco dei lavoratori che erano con aziende che poi sono state rilevate dalla stessa FIAT hanno rinunciato, alcuni anni fa, ai di incentivazione per consentire ai loro figli di poter lavorare nella FIAT di Pomigliano. Hanno rinunciato a 7.700 euro di per consentire ai propri figli di avere un lavoro nel Mezzogiorno, a Pomigliano. Ebbene questi giovani lavoratori che sono entrati nella FIAT con queste condizioni hanno lavorato con contratti a tempo determinato per quattro anni. Il 31 dicembre questi 36 lavoratori sono stati licenziati dalla FIAT, ricevendo una lettera di ben servito benché i loro papà addirittura avessero rinunciato ai e ai benefici di incentivazione alcuni anni prima. Chiamo quanto avvenuto «brigantaggio industriale», perché solo così si può chiamare quando si mette veramente la mano nelle tasche delle persone. Inoltre, non vengono rispettati gli impegni. Il 18 giugno 2009 la FIAT si era impegnata a innalzare una piattaforma e ad avviare una trattativa per salvare gli organici ed evitare eventuali esuberi. Poco dopo, in agosto, la FIAT ha licenziato 30 giovani che avevano dei contratti di apprendistato. Il 31 dicembre ne ha licenziati altri 36 che avevano dei contratti a termine con decorrenza addirittura da quattro anni, in quanto i contratti venivano rinnovati di anno in anno o di sei mesi in sei mesi. Ma la cosa anomala è che addirittura ha scritto una lettera il 29 dicembre che è un atto di debolezza da parte della FIAT perché, di fatto, si è consumato un rapporto duraturo e continuativo con la FIAT. Pertanto, se questi lavoratori licenziati impugnassero oggi, dinanzi a un giudice del lavoro, questo provvedimento iniquo, dovrebbero immediatamente essere reintegrati nel loro posto di lavoro e riassunti. Per cui questa lettera ci appare veramente, oltre che una provocazione, soprattutto un grande atto di debolezza. Non dimentichiamo poi il miliardo e mezzo che il Governo ha stanziato lo scorso anno per gli ecoincentivi. Ebbene, di questo miliardo e mezzo di euro la FIAT ne ha assorbiti circa il 55 per cento e con questo possibile denaro pubblico, che pure ha avuto, è riuscita a toccare una quota di mercato di circa il 32 per cento. È cresciuta ancora, e ci fa piacere questa crescita di mercato; però se vi è tutto questo sforzo per cui il denaro pubblico e il denaro dei cittadini italiani serve per alimentare e mantenere un'azienda così importante come la FIAT, non possiamo avere poi delle risposte così devastanti come abbiamo visto nella presentazione del piano industriale che è stato varato dalla FIAT il 22 dicembre a Palazzo Chigi. Era un piano industriale con il quale abbiamo visto che si vuole chiudere Termini Imerese, immediatamente 36 lavoratori della FIAT di Pomigliano d'Arco non avranno continuità di lavoro e probabilmente lo stesso destino toccherà ad altri 55 lavoratori sempre della FIAT di Pomigliano, i cui contratti a tempo determinato scadranno il 2 marzo 2009, tra meno di due mesi. È subito intervenuta, per fortuna, la regione Campania che, anche con il sottosegretario, si è attivata e proprio questa mattina c'è stato un ultimo incontro, o meglio, un ulteriore incontro per avviare dei corsi di formazione e garantire nell'immediato a questi nuovi disoccupati almeno un salario di 630 euro al mese che possa servire con corsi di formazione ad avviare un processo di rinegoziazione. Tale processo - questa è la nostra proposta - auspichiamo possa eventualmente avviare una mobilità in deroga, che coinvolga la FIAT che deve accettare una simile iniziativa, in modo che, quando ci saranno momenti migliori, in cui la produzione industriale avrà bisogno di ulteriore forza lavoro, si potranno reintrodurre in circuito questi lavoratori che ora sono stati licenziati. Però, vorrei semplicemente, con la mozione presentata, dare una forte scossa alla politica ed è questa la ragione per la quale è stata sottoscritta in modo da tanti colleghi parlamentari del PdL, del PD e di altri partiti, proprio perché la mia occupazione dell'Aula avvenuta lunedì scorso voleva significare che dobbiamo svegliarci soprattutto noi politici. Infatti, è soprattutto nostra la responsabilità di tutto quello che sta succedendo e dico che è mia per primo perché, in tempi passati, nei tempi della prima Repubblica, probabilmente questi poteri forti, potenti e prepotenti non sarebbero stati così violenti come sono stati adesso. La FIAT non avrebbe messo dalla sera al mattino 36 giovani per strada. Si tratta di persone che non hanno qualche colpa, in quanto lo stabilimento della FIAT di Pomigliano è stato dichiarato stabilimento di eccellenza per aver raggiunto livelli di efficienza e produttività superiori a tutti gli altri e risultati eccezionali. Ha prodotto 155 mila auto nel 2007 per un valore di 3,5 miliardi di euro. Insomma, questo stabilimento, questi operai, questi lavoratori, sono delle persone che non conoscono un'infermeria, che non sanno cosa significa un certificato medico, questi lavoratori del Mezzogiorno sono lavoratori che non rappresentano più quegli stereotipi di un tempo di un Mezzogiorno piagnone, rivendicazionista e protestatario. È esattamente il contrario; altro che lavoratori milanesi e del nord! Qui giù si stanno facendo sacrifici, lacrime e sangue, e invece, dalla sera al mattino, ci si trova senza un futuro, senza un salario, senza un lavoro, perché è di lavoro che parlano questi uomini e queste donne. Vogliono lavorare onestamente con il massimo dell'efficienza e della produttività. È questo quello che chiedono. Per questa ragione, io mi faccio soprattutto interprete affinché la politica cerchi sopratutto di riconquistare un volto umano. Riaffidiamoci ad un profilo di quell'umanesimo che troppo spesso abbiamo dimenticato, perché troppo spesso si dimentica che l'uomo è il centro della famiglia. L'uomo è il centro della società e l'uomo deve essere il centro anche dell'impresa. Questo è il vero capitale che dobbiamo proteggere: il capitale umano, non solo il capitale dell'euro e del danaro perché quello è stato fin troppo salvaguardato. Infatti, l'anno scorso le azioni della FIAT erano a 3,5 euro, oggi sono ad 11 euro. Siamo felici di tutto ciò, ma in un momento in cui un'azienda mette carne e ciccia addosso, vanta operazioni internazionali (come nel caso della Chrysler in America) non può poi in Italia penalizzare il capitale umano, non può gettare i lavoratori per strada in questo modo senza ragione.
. Onorevole Barbato, la prego di concludere.
. Mi avvio alle conclusioni, signor Presidente. Ciò significa che sugli stabilimenti FIAT di Pomigliano e Termini Imerese si prospetta un destino triste. Questa è la ragione per la quale con questa mozione si vuole impegnare il Governo a rafforzare il monitoraggio delle situazioni di crisi aziendale, con specifico riferimento alle imprese che hanno effettuato o si apprestano ad effettuare riduzioni di personale, con particolare attenzione a quelle che operano nelle aree del Mezzogiorno d'Italia. Dobbiamo mettere sotto osservazione, sotto i ferri io direi, queste imprese che scherzano con la vita, con il futuro, con il lavoro dei cittadini. Invitiamo, inoltre, il Governo ad assumere ogni utile iniziativa, anche attraverso un utilizzo oculato degli strumenti di incentivazione per il settore, ivi compresi quelli di natura fiscale, al fine di favorire una positiva soluzione della vertenza concernente il personale dello stabilimento della FIAT di Pomigliano d'Arco nel rispetto dei diritti acquisiti dai lavoratori e nella prospettiva di un rilancio delle attività produttive. Questo deve essere il nostro lavoro in Parlamento, questo debbono fare il Parlamento e il Governo. Questo deve fare la politica. Dobbiamo diventare dei difensori civici nazionali. Dobbiamo innanzitutto difendere i diritti dei cittadini. Il primo tra essi è il diritto al lavoro. Questa è la prima riforma sulla quale si deve cimentare questo Parlamento: la difesa del lavoro, la salvaguardia dei posti di lavoro, ma soprattutto impegnarsi e occuparsi di chi forse un lavoro non lo ha mai avuto. Questo è il vero impegno che dobbiamo dare per il Mezzogiorno d'Italia. Questa è la vera sfida rispetto alla quale si deve misurare la vera politica.
. È iscritto a parlare l'onorevole Vico. Ne ha facoltà.
. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, la discussione sul Mezzogiorno è sempre molto complicata. Si presta continuamente ad esemplificazioni molto insidiose, all'ipocrisia, ai reciproci fraintendimenti con asserzioni costruite nel corso degli ultimi anni, in quei luoghi dove si incrociano politica e comunicazione che esercitano un'influenza determinante sulla discussione pubblica. Dovremo, invece, provare - e io ci proverò - a fare una narrazione del Sud a partire da un'analisi continuativa ed articolata per proporre e riaffermare alcuni fatti spesso in ombra o mistificati per esigenze contingenti e, allo stesso tempo, a smentire le false rappresentazioni che favoriscono la diffusione di luoghi comuni e di un senso comune largamente ostile al Mezzogiorno. La prima considerazione, onorevole rappresentante del Governo, è che la persistenza di una macroquestione di divario territoriale di così eccezionale dimensione e durata è un fatto da cui non si può prescindere nella prospettiva di un avanzamento economico e civile del nostro Paese. Infatti, lo stadio di sviluppo del Sud e la sua differenza rispetto al resto del Paese è chiaramente certificato dall'abissale divario del prodotto interno lordo per abitante, oltre 40 punti percentuali. Tale indicatore assume particolare importanza quando si prendono in considerazione i due elementi che determinano quel livello, come il Governo sa: la produttività e il tasso di occupazione. Da un canto, il divario di produttività, che è assestato in circa 17 punti percentuali, è diretta espressione delle diseconomie esterne (ambiente fisico, economia, socialità) che impediscono ai fattori produttivi, che sono lavoro e capitale, di avere un rendimento paragonabile alle regioni più sviluppate dell'Italia del centro-nord e d'Europa. Dall'altro, la persistenza di un tasso di occupazione inferiore di oltre 30 punti percentuali rispetto al Centro-nord conferma la strutturale carenza di opportunità di lavoro. L'occupazione nel 2009 è calata più al Sud che al Nord. Mi permetto di segnalare ai colleghi e al rappresentante del Governo che questo è un fatto inedito rispetto al passato in cui il Mezzogiorno, per effetto della minore apertura internazionale, tendeva storicamente a risentire meno del rallentamento dell'economia mondiale e delle congiunture negative. Rispetto a questo quadro, avanza frequentemente l'indicazione di una centralità del capitale sociale come precondizione dello sviluppo e non come una componente dello stesso. Da più parti si asserisce la priorità, talvolta anche come alternativa secca, dell'innalzamento delle politiche in favore del capitale sociale rispetto a quelle volte all'obiettivo della crescita economica. Avverto un pericolo intorno alle discussioni che tentano di attribuire primati assoluti, ora ad un fattore ora ad un altro, coltivando quel circolo vizioso dello spezzatino dello sviluppo: è la mancata crescita economica che ha determinato nel Sud il sottodimensionamento delle dotazioni infrastrutturali, del tasso imprenditoriale, del capitale produttivo, per cui è difficile che si inneschi una dinamica autopropulsiva di sviluppo del capitale sociale, ovviamente al netto dei miracoli. Allora, bisogna ripartire dalla richiesta di una politica di sviluppo specifica per il Sud - insisto: una politica di sviluppo specifica per il Sud -, fondata sulla crescita economica per rilanciare la competitività dei territori attraverso un'azione pubblica dell'economia - sottolineo: pubblica - lungo due direzioni: lo sviluppo delle reti infrastrutturali, materiali ed immateriali, una politica industriale specifica per il Sud basata su strumenti di incentivazione che sappiano però, a differenza del passato, aprirsi ad una selettività finalizzata ad obiettivi strategici. Il Governo deve assumere, onorevole sottosegretario, un impegno macroeconomico adeguato alla portata e alla complessità degli obiettivi strutturali da raggiungere nel Paese. Come i colleghi sanno, negli ultimi dieci anni sul peggiore andamento del Mezzogiorno hanno pesato i gravi effetti di un disegno debole delle politiche generali e nazionali in materia di infrastrutture, istruzione, innovazione, ricerca che in campi così rilevanti per lo sviluppo hanno costantemente mancato di dare intensità e strumenti di intervento in funzione di divari intercorrenti tra la macro area debole e quella più forte del Paese. Come ci ha ricordato il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, onorevole rappresentante del Governo, ogni qualvolta si disegna un intervento pubblico nell'economia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre adeguati correttivi. In tal modo, se posso permettermi, la politica regionale di sviluppo dovrebbe aggiungersi alle politiche generali nazionali per produrre i beni collettivi necessari per lo sviluppo. Serve una più forte riforma interna della programmazione; ebbene, non si dichiari però la sua inutilità, come spesso accade o è accaduto in questi giorni. Occorre capire cosa non ha funzionato ed intervenire con i correttivi istituzionali? Bene. C'è stato in questi anni un problema di quantità e di qualità della spesa per investimenti? Vero, ma si sappia una volta per tutte, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, che la spesa pubblica in conto capitale complessiva, nazionale, destinata al Mezzogiorno è stata in tutti questi anni assai inferiore a quanto programmato, non eguagliando, da ultimo, neppure il peso naturale, il cosiddetto 38 per cento, del Mezzogiorno. La spesa in conto capitale aggiuntiva, quella comunitaria e nazionale ha, di fatto, compensato il deficit di spesa ordinaria. Questi sono i fatti che hanno inciso sul mancato successo delle politiche di sviluppo e che servono a smentire la rappresentazione, purtroppo continuamente riproposta, di un Sud inondato da un fiume di risorse. Ovviamente rinuncio a descrivere la manomissione decisa dal Governo in carica dei Fondi FAS nazionali e il comportamento, se il Presidente me lo consentirà, furbesco dello stesso Governo sulla mancata approvazione a tutt'oggi da parte del CIPE dei PAR FAS regionali, benché siano pronti da almeno cinque mesi. Ma torno al tema principale avviandomi alla conclusione. Una nuova strategia di politica di sviluppo suggerisce e presuppone, come è ovvio, un'amministrazione pubblica che funzioni, che non disperda risorse nell'intermediazione impropria, burocratica e clientelare. Ciò che risulta inaccettabile è l'atteggiamento, però, di chi dice che, a causa delle malversazioni della pubblica amministrazione, della presenza delle mafie, delle perverse aspettative della società meridionale nei confronti della macchina pubblica sia meglio «affamare la bestia» in questo modo - e anche questi sono fatti - perché si negherebbero i diritti di cittadinanza. Con questo approccio, credo, il Mezzogiorno accoglie, accoglierebbe, accoglierà la sfida del federalismo, non tacendo tutti i rischi che si potevano correre nel disegno originario ed ovviamente in attesa ancora dei decreti attuativi e del codice delle autonomie. Secondo me è qui che si giocherà, intorno anche al federalismo, il tema della capacità di autogoverno delle popolazioni meridionali. Tale capacità, dai tanti soliti noti viene messa in discussione di fronte ad ogni scandalo che investe l'apparato pubblico del Mezzogiorno. Su questo, da parte mia e da parte nostra, vorrei infine aggiungere a questa autorevole Aula del Parlamento, che dopo un anno e mezzo discute di Mezzogiorno con qualche sfilacciamento, che la stragrande maggioranza dei meridionali non ricorre più ad alcuna autoindulgenza e autocastigazione, ma ha recuperato e recupera quella consapevolezza di investire sul futuro della propria terra e nell'interesse del Paese. Onorevole rappresentante del Governo, cosa ci diranno il Governo e la maggioranza di centrodestra? Dopo un anno e mezzo, noi attendiamo le prime parole concrete che non siano solo annunci.
. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni. Il Governo ha già comunicato alla Presidenza che si riserva di intervenire successivamente. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.