GIANNI MELILLA, legge il processo verbale della seduta dell'8 giugno 2015.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Amici, Bellanova, Benamati, Dorina Bianchi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Businarolo, Caparini, Casero, Castiglione, Cicchitto, Cirielli, Cominelli, Costa, D'Alia, Da Villa, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Faraone, Fedriga, Ferranti, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Lotti, Lupi, Madia, Merlo, Migliore, Nicoletti, Orlando, Pisicchio, Pistelli, Polverini, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Scalfarotto, Scotto, Sisto, Tabacci, Valeria Valente, Velo, Vignali, Vignaroli, Zanetti e Zolezzi sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
I deputati in missione sono complessivamente settantotto, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’ al resoconto della seduta odierna.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 3104-A: Conversione in legge del decreto-legge 5 maggio 2015, n. 51, recante disposizioni urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi, di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi di carattere eccezionale e di razionalizzazione delle strutture ministeriali.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la XIII Commissione (Agricoltura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Ha facoltà di intervenire il relatore, presidente della Commissione agricoltura, deputato Sani.
LUCA SANI, . Grazie, Presidente. Il decreto-legge reca interventi per il rilancio dei settori agricoli in crisi, di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi di carattere eccezionale e di razionalizzazione delle strutture ministeriali. Si tratta di un provvedimento significativo e atteso dal mondo agricolo per il sostegno che reca ad alcune filiere strategiche per il settore primario. Oggi l'agricoltura rappresenta una delle voci dell'economia nazionale su cui si registra un interesse crescente. I segnali di ripresa, seppur ancora timidi, registrano un protagonismo nuovo di questo settore. Vi è un sensibile recupero del valore aggiunto, un aumento dell'occupazione ed una crescita sensibile dell’ agroalimentare.
A fronte di ciò, l'agricoltura italiana continua a soffrire di difficoltà antiche, a cui se ne aggiungono di nuove, che, se non affrontate adeguatamente, rischiano di comprometterne il valore e le potenzialità. L'eccessiva volatilità dei prezzi a cui sono sottoposti coltivatori e allevatori, molto spesso aggravata dall'aumento dei costi di produzione, il divario del prezzo tra produttore primario e consumatore finale, la frammentazione e la scarsa propensione a far sistema delle nostre imprese agricole rappresentano solo alcuni degli elementi che impediscono al settore primario di decollare con la forza che merita.
A ciò bisogna aggiungere i cambiamenti climatici, causa dell'intensificarsi di disastrosi eventi calamitosi, e l'arrivo di nuove e fin qui sconosciute fitopatie, che, se non contrastate adeguatamente, rischiano di compromettere definitivamente le produzioni e lo straordinario patrimonio di biodiversità agricola di cui è ricco il Paese. Il decreto-legge n. 51 del 2015 si compone di otto articoli e affronta, appunto, queste tematiche.
Mi sia permesso, in apertura, di evidenziare come la XIII Commissione (Agricoltura) abbia partecipato attivamente alla definizione delle questioni contenute nel provvedimento in esame, essendo intervenuta in fase ascendente attraverso l'approvazione, frequentemente con voto unanime, di specifici atti di indirizzo riguardanti il settore del latte e dell'olio, nonché le emergenze fitosanitarie, tra cui la grave e preoccupante diffusione della .
Entrando nel merito, nel decreto-legge il settore lattiero-caseario è oggetto di diversi interventi, a conferma della riconosciuta strategicità che, per quantità e qualità delle produzioni, riveste per l'economia nazionale. Si tratta di interventi finalizzati, da un lato, ad affrontare la situazione di emergenza causata dal passaggio da un sistema contingentato di produzione, meglio noto come «regime delle quote latte», che è cessato dal 13 marzo scorso, ad uno completamente liberalizzato.
Dall'altro, a ridisegnare per il futuro il sistema delle relazioni contrattuali tra i diversi operatori della filiera del latte per fronteggiare la diffusione di pratiche commerciali sleali e per rendere più equa e meno soggetta a continue oscillazioni la determinazione del prezzo di cessione del latte crudo.
In questo senso l'articolo 1 (commi 1-6) prevede la possibilità per i produttori di pagare in tre rate annuali, senza interessi, il prelievo dovuto a causa dell'eccedenza di latte prodotto nell'ultima campagna lattiero-casearia di applicazione delle quote latte, dal 1o aprile 2014 al 31 marzo 2015. È richiesta la prestazione, da parte del produttore, di fideiussione bancaria o assicurativa (quest'ultima tipologia è stata aggiunta durante l'esame in Commissione proprio per agevolare l'accesso allo strumento di garanzia) a copertura delle rate relative agli anni 2016 e 2017. Le domande per accedere alla rateizzazione devono essere presentate ad Agea entro il 31 agosto 2015; possono essere oggetto di rateizzazione solo importi superiori a 5.000 euro.
Il comma 6- è stato introdotto durante l'esame in Commissione; prevede che Agea possa provvedere, successivamente alla data in cui è prevista la cessazione della partecipazione del socio privato alla società che gestisce il SIAN (Sistema informatico agricolo nazionale), a gestire il sistema direttamente o attraverso l'affidamento a terzi selezionati, attraverso l'espletamento di una procedura ad evidenza pubblica. L'operazione dovrà assicurare la piena operatività del sistema e, innanzitutto, la salvaguardia dei livelli occupazionali delle società medesime esistenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge.
Considerato che nel provvedimento Agea è chiamata a gestire la delicata questione della rateizzazione del prelievo sulle eccedenze, si è ritenuto di dover cogliere l'occasione per implementare la norma, consentendo all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, data la prossimità dei tempi per lo svolgimento di una procedura di gara, di valutare le forme di gestione del SIAN, con l'obiettivo di superare i limiti emersi in questi anni, riconducibili anche al rapporto con il soggetto gestore, la cui natura societaria, di tipo pubblico o privata, è stata, tra l'altro, oggetto di un richiamo dell'Unione europea.
L'articolo 2 prevede al comma 1 che per l'ultima campagna lattiero-casearia di applicazione del regime delle quote, in caso in cui residuino disponibilità finanziarie rispetto alle restituzioni dovute, ai sensi della normativa vigente, è ammessa la regola della compensazione anche per le aziende che hanno superato il 50 per cento del quantitativo assegnato.
Le percentuali relative alle diverse classi di compensazione sono state definite nel corso dell'esame in sede referente, in quanto originariamente il testo del decreto faceva riferimento alla possibilità di compensare solo le aziende che avevano superato il quantitativo disponibile fino al 12 per cento. La compensazione avverrà in maniera progressiva, secondo le classi individuate, e, comunque, sempre nel limite del 6 per cento e fino ad esaurimento delle risorse assegnate.
Al comma 2, per contrastare la volatilità del prezzo del latte praticata all'allevatore e le pratiche commerciali sleali, si stabilisce che i contratti che hanno ad oggetto la cessione di latte crudo, stipulati nel territorio nazionale, non possono avere durata inferiore ai 12 mesi e che Ismea è chiamata ad elaborare mensilmente i costi medi di produzione del latte crudo, tenendo conto della collocazione geografica dell'allevamento e della destinazione finale del latte crudo.
Al comma 3, talune modifiche testuali all'articolo 62 del decreto-legge n. 1 del 2012, che ha definito i requisiti dei contratti di cessione dei prodotti agricoli ed agroalimentari e le fattispecie configurabili come condotta commerciale sleale, prevedono: l'aumento del saggio di interessi, da due a quattro punti percentuali, applicabile agli interessi dovuti in ragione della scadenza dei termini di pagamento, fissati, per le merci deteriorabili, in trenta giorni (modifica approvata in Commissione); l'inasprimento delle sanzioni applicabili in caso di violazioni di tali obblighi e la determinazione dell'entità della sanzione amministrativa relativa al mancato rispetto dei termini di pagamento, in riferimento non più al fatturato dell'azienda, ma al solo fatturato dell'azienda cessionaria (anche questa è una modifica introdotta dalla Commissione).
Si prevedono inoltre: la competenza dell'ispettorato centrale della tutela della qualità e delle repressioni frodi ai fini della segnalazione all'Antitrust delle violazioni di tali obblighi; la destinazione degli introiti derivanti dalle violazioni relative alle relazioni commerciali nel settore del latte al Fondo per gli investimenti nel settore lattiero-caseario.
L'articolo 3 introduce una nuova disciplina delle organizzazioni interprofessionali, associazioni private che raggruppano le organizzazioni nazionali e rappresentative di un'attività economica nelle varie fasi legate alla produzione, al commercio ed alla trasformazione di un determinato prodotto agricolo. L'articolo 3 è stato modificato in più parti durante l'esame in Commissione, raccogliendo anche sollecitazioni pervenute da realtà produttive e territoriali rappresentate nel corso delle audizioni. Si è posta principalmente l'attenzione sulle relazioni commerciali nel settore del latte, ma l'obiettivo più generale, che trova precisi riferimenti nell'ambito del provvedimento, è quello di dare impulso alle aggregazioni delle imprese per favorire il superamento di quella frammentazione, che caratterizza il nostro tessuto economico e che finisce per renderlo fragile soprattutto sul versante agricolo. Mi preme ricordare in questa occasione che altri Paesi, in ambito comunitario, molto concorrenziali con l'Italia su alcuni dei comparti agricoli principali, hanno già legiferato in questa direzione, cogliendo le opportunità offerte proprio dalla più recente normativa comunitaria.
Il comma 1 prevede che può essere riconosciuta un'organizzazione interprofessionale nel settore lattiero-caseario qualora rappresenti una quota dell'attività economica pari ad almeno il 25 per cento (nel testo originario del decreto-legge era prevista una percentuale del 20 per cento). È stato, poi, precisato che tale quota può riguardare non solo l'intero settore, ma anche ciascun prodotto o gruppo di prodotti e che, nel caso in cui le organizzazioni interprofessionali operino in una singola circoscrizione economica, la rappresentatività deve essere pari al 51 per cento del relativo settore, prodotto o gruppo di prodotti e deve essere, comunque, pari al 15 per cento dell'attività economica relativa al settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari.
Il comma 2 stabilisce che il riconoscimento avviene con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. Anche a seguito del parere della Commissione per le questioni regionali, è stata prevista l'intesa con la Conferenza Stato-regioni. Può essere riconosciuta una sola organizzazione per settore o per ciascun prodotto o gruppo di prodotti del settore; in coerenza con quanto aggiunto nel comma 1, è stato specificato che il riconoscimento può avvenire anche per circoscrizione economica, sempre a livello nazionale. I requisiti sono quelli stabiliti, appunto, dalla normativa europea. Qualora vengano presentate più domande, il riconoscimento è concesso all'organizzazione maggiormente rappresentativa. Restano validi, però, i riconoscimenti già effettuati. È possibile da parte delle organizzazioni interprofessionali associare, con funzione consultiva, le organizzazioni che rappresentano i consumatori e i lavoratori del settore agricolo ed agroalimentare (quest'ultima specifica è stata introdotta durante l'esame in Commissione, mentre è stato soppresso il riferimento alle organizzazioni rappresentative degli imprenditori), anche ai fini di acquisire un parere sugli atti vincolanti che le stesse organizzazioni possono adottare.
Nel corso dell'esame è stato aggiunto un comma, il comma 2- secondo il quale le organizzazioni interprofessionali, nella redazione dei contratti tipo relativi alla vendita dei prodotti agricoli o per la fornitura dei prodotti trasformati, sono chiamate a garantire il rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 62, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 1 del 2012 e delle relative disposizioni attuative.
Ricordo in proposito che l'articolo 62 del decreto-legge n. 1 del 2012, ha dettato per la prima volta disposizioni riguardanti la cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari prevedendo: l'obbligo della forma scritta; l'indicazione nell'atto della durata, della qualità e delle caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento; il divieto di comportamenti che impongano condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose ed ogni condotta commerciale sleale.
Il comma 3 autorizza le organizzazioni interprofessionali a richiedere contributi obbligatori per lo svolgimento dei propri fini istituzionali, valevoli anche per coloro che non sono iscritti, ma ai quali si applicano le regole valevoli di cui al comma successivo. Tali contributi non hanno natura di prelievo fiscale e sono regolati dalle norme del diritto privato.
Il comma 4 prevede che, secondo quanto disposto dal nuovo regolamento europeo n. 1308/2013, è possibile richiedere, per un periodo limitato, che le regole adottate dalle organizzazioni interprofessionali siano estese anche ai non iscritti. Tali regole devono essere adottate con il voto favorevole di almeno l'85 per cento degli associati per ciascuna delle attività economiche cui le medesime si applicano.
Il comma 5 dispone che, per concedere l'applicabilità delle regole adottate dalle organizzazioni interprofessionali, i requisiti di rappresentatività devono essere dimostrati dall'organizzazione richiedente. Sono presunti se la regola oggetto di richiesta di estensione non riscontra l'opposizione di altre organizzazioni e, in tal caso, esse devono dimostrare di rappresentare più di un terzo degli operatori economici.
Il comma 6 dispone che, in caso di violazione delle disposizioni valevoli l'operatore economico è passibile di una sanzione amministrativa da mille a 50 mila euro, definita in ragione dell'entità della violazione. Nel testo originario del decreto-legge si faceva riferimento al valore dei contratti stipulati. È stato poi aggiunto che, nel caso in cui la violazione riguardi le regole relative all'applicazione dei contratti tipo, la sanzione è calcolata riferendosi al valore dei contratti stipulati in violazione e fino al 10 per cento del loro valore.
Il comma 7 estende le disposizioni di cui ai commi precedenti anche alle organizzazioni interprofessionali costituite negli altri settori: cereali, riso, zucchero, foraggi essiccati, sementi, luppolo, olio di oliva e olive da tavola, lino e canapa, prodotti ortofrutticoli, prodotti ortofrutticoli trasformati, banane, settore vitivinicolo, piante vive e prodotti della floricoltura, tabacco, carni, uova. In tal caso, l'organizzazione interprofessionale deve avere una rappresentatività pari ad almeno il 40 per cento del relativo settore (nel testo originario era previsto il 35 per cento).
È stato, poi, aggiunto, in conformità con quanto previsto nel settore del latte, che tale percentuale può aver riguardo anche al singolo prodotto e che, in caso di organizzazioni interprofessionali che operino in una singola circoscrizione economica, la rappresentatività minima richiesta è del 51 per cento dell'attività economica del relativo settore, prodotto o gruppo di prodotti operanti nella medesima circoscrizione e comunque non inferiore al 30 per cento delle attività economiche di riferimento a livello nazionale. Il comma 8 dispone che, nel caso in cui, successivamente al riconoscimento, un'altra organizzazione interprofessionale dimostri di avere una rappresentatività maggiore rispetto all'organizzazione precedentemente autorizzata, si procede alla revoca della precedente ed al riconoscimento di quella maggiormente rappresentativa.
Passiamo ora al settore olivicolo-oleario. L'articolo 4 istituisce un Fondo per sostenere la realizzazione di un piano di rilancio appunto del settore olivicolo-oleario. Ed è la prima volta che viene promosso un intervento di tale portata. In ciò vi è la consapevolezza di quanto l'olivicoltura rappresenti un'eccellenza agroalimentare per il nostro Paese. Il prodotto italiano è sempre più richiesto; la produzione attuale riesce a soddisfare solo la metà della domanda interna mentre forte è la richiesta internazionale. Da ciò è facile comprendere l'urgenza di intervenire nel settore, anche per fronteggiare quei fenomeni fraudolenti che sempre più spesso hanno per oggetto il falso olio extravergine italiano. La campagna del 2014 sarà ricordata per un calo produttivo drammatico. Numerose sono le cause, prevalentemente dovute a cambiamenti climatici, ma anche al fatto che sul settore non si investe da anni, sia in termini di innovazione, che sulle varietà colturali. Perciò, l'articolo 4 del decreto-legge è stato modificato nel corso dell'esame presso la XIII Commissione in quanto in origine il testo prevedeva una dotazione di 4 milioni di euro per il 2015 ed 8 milioni di euro per gli anni 2016 e 2017. Dopo la modifica, il contributo è stata incrementata appunto per il 2016 e 2017 a 14 milioni di euro per ciascuna delle annualità.
In totale sono stati perciò individuati 32 milioni a favore del settore. La copertura viene rinvenuta in parte riducendo l'autorizzazione di spesa relativa al Fondo per gli investimenti nel settore lattiero-caseario e in parte utilizzando alcuni residui in conto capitale. Sono state poi più dettagliatamente e ampiamente definite, sempre nel corso dell'esame in Commissione, le finalità del piano consistenti nell'incremento della produzione attraverso il rinnovamento dell'impianto e l'introduzione di nuovi sistemi colturali, nel sostegno all'attività di ricerca, nella valorizzazione del nel recupero varietale delle nazionali di olive da mensa, nell'incentivo all'aggregazione degli operatori della filiera.
L'articolo 5, modificato nel corso dell'esame in sede referente, affronta le tematiche delle calamità e autorizza le aziende agricole, non coperte da polizze assicurative agevolate, a richiedere contributi compensativi a carico del Fondo di solidarietà nazionale in agricoltura qualora siano state colpite da eventi alluvionali e, secondo una specifica introdotta in Commissione, da avversità atmosferiche che abbiano raggiunto almeno l'undicesimo grado della scala Beaufort, verificatisi nell'arco temporale tra il 2014 e la data di emanazione del decreto in esame; nonché da infezioni di organismi nocivi ai vegetali negli anni 2013, 2014 e 2015 con priorità, secondo quanto specificato dalla Commissione, a quelli legati alla diffusione del batterio del cinipide del castagno e della flavescenza dorata.
Concludo rapidamente, Presidente, per ricordare che è stato aggiunto anche il comma 3- che ha disposto l'aumento o il finanziamento del Fondo di solidarietà nazionale della pesca e dell'acquacoltura e in questo caso si è voluto dare un segnale di attenzione ad un settore che versa in una crisi drammatica...
PRESIDENTE. Può anche consegnare la relazione.
LUCA SANI, . All'articolo 6 si è proceduto alla soppressione della gestione commissariale delle attività dell'ex Agensud Chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna di considerazioni integrative della mia dichiarazione di voto, anche con riferimento ai pareri delle altre Commissioni .
PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare il deputato Cova. Ne ha facoltà.
PAOLO COVA. Grazie signora Presidente, onorevoli colleghi, gentile Viceministro, questo decreto-legge ha introdotto delle innovazioni e un nuovo sistema anche strategico di gestione. Parlo in particolare per il sistema del latte e tutto quello che riguarda il settore lattiero-caseario. In questi anni il settore lattiero-caseario è stato attraversato da una profonda crisi legata ad un problema riguardante il prezzo che è stato pagato ai produttori e questo prezzo ha penalizzato intensamente soprattutto l'attività di sviluppo, ricerca ed investimento che è stata fatta nelle nostre aziende. Questo ha anche limitato in parte la diffusione dei nostri prodotti e gli investimenti sulla trasformazione dei nostri prodotti. Penso in particolare a tutti quei prodotti di qualità (DOP, IGP) sui quali la nostra nazione, la nostra agricoltura e il nostro settore lattiero-caseario è andato a investire. Penso – il decreto-legge ne è una traccia – che viene data un'indicazione strategica, un cambio di rotta rispetto a quello che è stato fatto in questi anni. Si è pensato in particolare di dare un'indicazione al mondo degli allevatori e degli agricoltori del settore da latte per cominciare a costruire un futuro nuovo e una prospettiva nuova. Sottolineo in particolare uno degli aspetti, il primo che si può vedere, quello dell'indicizzazione del prezzo del latte, un intervento chiaro e netto sull'articolo 62 e poi il tema dell'interprofessione. Perché questi interventi hanno un valore strategico e un valore di durata ? Penso in particolare a quello dell'indicizzazione del prezzo del latte: perché in questi anni gli allevatori che hanno lavorato ed investito nel settore del latte sono stati ampiamente penalizzati dal prezzo del latte che hanno ricevuto in questi anni.
Questo non ha consentito uno sviluppo e un intervento strategico nell'arco degli anni. Penso poi alla volatilità del prezzo; un prezzo che veniva fissato e viene ancora attualmente fissato in breve periodo a un costo enormemente inferiore rispetto a quelli che sono i costi di produzione, che non tiene conto, soprattutto, della valorizzazione che il latte – il latte italiano – ha nella sua propria trasformazione. Noi vediamo che la maggior parte del latte italiano che viene prodotto viene trasformato in prodotti di qualità e in prodotti di eccellenza. Possiamo andare a citare, tenendo presente, in particolare, il latte bovino, il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, l'Asiago, il Gorgonzola e tanti altri latti trasformati che danno un valore aggiunto. Questa trasformazione non ha avuto nessuna ricaduta diretta sui produttori. Questo ha allontanato parte degli allevatori che si sono trasformati in soli agricoltori e hanno abbandonato completamente il settore della zootecnia.
Dal 1996 ad oggi l'Italia ha perso quasi cinquecentomila vacche da latte; questo ha comportato un problema su tutto il settore, non solo sugli allevatori, ma anche su tutto quel settore che riguarda la meccanizzazione dell'agricoltura e, in particolare, degli impianti che riguardano le vacche da latte. Vado a pensare anche a tutto il settore della ricerca che si è un po’ fermato proprio per tutte queste carenze. Gli allevatori non avevano un prezzo e non hanno, ancora adesso, un prezzo che possa garantirgli la possibilità di mantenere aperte le proprie aziende.
Allora, questo decreto-legge interviene in modo netto e chiaro, secondo quello che è stato anche descritto all'interno del Regolamento (UE) n. 1308/2013, prevedendo di indicare un prezzo di riferimento, alcuni parametri. La Commissione, che già nel 2013, e anche quest'anno, aveva dato indicazione al Governo, con delle risoluzioni, di intervenire sul prezzo del latte, ha voluto sottolineare come debba essere tenuto ben presente il valore del costo di produzione. In particolare nel decreto-legge si pone l'attenzione anche al prodotto che viene trasformato, alla sua destinazione finale, proprio perché, come è stato sottolineato anche durante le varie audizioni, il Garante della concorrenza e del mercato ha sottolineato come nella trasformazione il consumatore va a pagare un prezzo che, delle volte, è molto distante da quello che viene pagato al produttore.
L'altro aspetto che è strategico, è quello all'interno dell'articolo 62. Io vado a sottolineare la durata del contratto; il decreto-legge ha allungato i tempi della durata del contratto del prezzo del latte; attualmente si facevano dei contratti che avevano durata di tre mesi, qualche volta anche di meno, non c'era un investimento duraturo. Il decreto-legge va a prevedere una durata minima di 12 mesi, se gli allevatori o le organizzazioni dei produttori lo ritengono opportuno, anche sei mesi, però non al di sotto di questi termini. Questo vuol dire che dà una garanzia agli allevatori, perché possono pensare e immaginare quale sarà il prezzo e le entrate che avranno nell'arco di quei 6 o 12 mesi che li attendono. In questi anni c’è stata una continua volatilità, c’è stata anche un'attività speculativa; in base all'andamento del prezzo del latte a livello europeo, in particolare di quello della Germania o di quello internazionale, avevamo una variazione del prezzo del latte, non c'era mai una certezza. Per cui gli stessi allevatori si trovavano costretti a fermare i propri investimenti, erano bloccati in questa azione.
L'altro aspetto che secondo me è strategico – e in questo le Camere, la Commissione e il Governo hanno fatto un'azione veramente interessante e profonda – è quello di investire sull'interprofessione del latte. Il mercato del latte è molto frazionato, ci sono tante cooperative, tanti operatori, tanti allevatori singoli, ci sono tanti caseifici. Andare a pensare e intervenire sull'interprofessione e tenere insieme tutta questa filiera ha una prospettiva a lungo termine. Io questo lo devo dire, è un mio auspicio che tutti gli attori contribuiscano e partecipino a questo tavolo, con la volontà di migliorare e di far migliorare tutta la filiera, che tutti possano averne un beneficio di questa interprofessione.
Questo può consentire alla nostra produzione di avere dei margini di guadagno e di investimento migliore e, soprattutto, una vendita migliore del proprio prodotto. Penso soprattutto alla lotta che si sta cercando di combattere nei confronti dell’. Una interprofessione che lavora e investe su questo può dare una prospettiva maggiore, anche perché – è stato detto anche dal relatore – in legge di stabilità sono stati stanziati e investiti dei soldi per il settore della latte che si trovano e possano agire benissimo su questo tavolo dell'interprofessione in modo tale che tutto il tavolo possa dare il proprio contributo.
Vado a sottolineare anche un altro aspetto forse l'ultimo che riguarda il tema delle quote latte. Come è già stato detto, con il 31 marzo 2015 ha avuto termine il regime delle quote latte e quest'anno per le condizioni climatiche c’è stato un eccesso di produzione rispetto agli ultimi sette anni per cui gli allevatori si trovano a dover splafonare rispetto alla propria produzione. Bene, è stato fatto questo intervento a livello europeo, in accordo con le altre nazioni europee, al fine di permettere e consentire una rateizzazione, che deve avvenire nell'arco dei tre anni senza presentare degli interessi. L'intervento che è stato fatto allora su questa compensazione è stato quello di fissare dei parametri, sostenendo tutti coloro che avessero splafonato nel limite delle possibilità della compensazione, mantenendo un parametro fermo del 6 per cento, che è il parametro ultimo previsto nella legge del 2009 per mettere tutti gli allevatori nelle stesse identiche condizioni e non commettere degli errori per cui qualcuno si trovava avvantaggiato rispetto ad altri.
Credo sia un decreto che dà proprio profondità, che permette a tutta la filiera di camminare insieme e di cercare di indicare strategicamente quali sono i prossimi passi. Inoltre, permette e contribuisce a creare una maggiore cooperazione fra le produzioni, i produttori, gli allevatori, le organizzazioni sindacali, ma anche alcuni trasformatori, che devono lavorare tutti quanti insieme.
Vado a concludere, signora Presidente, sottolineando anche un aspetto ossia che questo decreto cerca di valorizzare il prodotto finale ed il fatto di valorizzare il prodotto finale è un ulteriore vantaggio per le nostre produzioni ma anche per gli allevatori .
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Benedetti. Ne ha facoltà.
SILVIA BENEDETTI. Signora Presidente, oggi siamo in aula per iniziare l'esame del primo decreto interamente dedicato all'agricoltura italiana, un decreto che è doveroso e importante sottolineare mostra chiaramente i segni delle battaglie che il MoVimento 5 Stelle in Commissione agricoltura ha portato avanti con costanza e concretezza, attraverso la predisposizione di risoluzioni, interrogazioni e proposte di legge. Dispiace che ovviamente l'agricoltura, come del resto anche la pesca, trovino posto solo in caso di tamponamento di emergenze e mai per un piano concreto di sostegno, che invece è quello di cui certamente in molti ambiti ci sarebbe bisogno ed è quello di cui avrebbero bisogno i tanti agricoltori e pescatori italiani. Tuttavia, tutti gli articoli del decreto in esame possono essere considerati comunque fondamentali per alcuni dei settori strategici dell'agricoltura nazionale, che negli ultimi anni sono stati colpiti da crisi ed emergenze. In particolare, gli articoli dall'1 al 3 che intervengono sul settore lattiero-caseario e l'articolo 4 che interviene sul settore olivicolo-oleario colpito dalla crisi del 2014, dovuta all'aumento dei consumi e alla contemporanea diminuzione della produzione, oltre tutto in concomitanza anche con la diminuzione del prezzo e l'aumento dei costi di produzione, senza contare gli attacchi della mosca olearia e della e questi hanno compromesso piante e prodotti. I restanti articoli affrontano la questione del rischio agricolo e dell'accesso al Fondo di solidarietà nazionale, l'articolo 5, mentre l'articolo 6 riguarda la razionalizzazione degli enti del Mipaaf, in particolare, la fine del commissariamento sulle strutture irrigue successivo alla soppressione di Agensud.
Un buon provvedimento dunque che, durante l'esame in Commissione, abbiamo cercato chiaramente di migliorare attraverso la presentazione di alcuni emendamenti di merito che, in parte, trovano riscontro nel testo che abbiamo portato oggi qui in Aula e che, in parte, invece ripresenteremo durante l'esame in Aula perché non sono stati accolti. Ci preme comunque di sottolineare quanto questo provvedimento sia frutto del lavoro e della spinta del MoVimento 5 Stelle, tanto che non possiamo non pensare che, se non fossimo arrivati noi, chissà quando e come sarebbe stato affrontato ad esempio il problema del quote latte, una questione delicata, una questione annosa che il Governo ha deciso di affrontare soltanto oggi, quando il regime è ormai finito e si sapeva da tempo chiaramente che finiva e il mercato del latte italiano inevitabilmente si trova ad affrontare grandi difficoltà di adattamento a causa del passaggio dal mercato regolamentato delle quote ad un mercato libero, in cui non ci si può permettere di soccombere, anzi, a causa della mancata vigilanza del Governo, lo sforamento delle quote è avvenuto anche nell'ultima campagna lattiera 2014-2015 e il Paese sarà costretto a versare ancora multe all'Unione europea. La questione delle quote latte, dicevo prima, è stata affrontata nell'articolo 1, dove si cerca di far fronte al brevissimo periodo post-regime e prevede la possibilità, così come dettato dalla normativa europea, che il pagamento delle multe che gli agricoltori hanno ricevuto a causa dello sforamento della quota di produzione di latte nell'ultima campagna possa essere elargito in tre rate, previa prestazione di fideiussione in favore di AGEA, che anticiperà i pagamenti, a partire dal 30 settembre 2015 e nei mesi di settembre dei successivi anni. Tali previsioni non possono che trovare il nostro favore anche se, voglio ripeterlo, il problema di alcune quote andava affrontato prima, facendo abituare gli allevatori alla nuova realtà del mercato libero, vigilando sul rispetto delle quote oppure – e questo andrebbe però ricercato, purtroppo è troppo lontano nel tempo – usando le quote latte come uno strumento di vantaggio per la filiera del latte italiano e non come l'ostacolo che è sempre stato percepito dagli allevatori perché i Governi fino ad oggi non hanno mai avuto la volontà e la capacità di sfruttare al meglio questo strumento, come invece è stato fatto da altri Paesi europei, ed è questo che significa essere una classe dirigente. Spesso si rimarca il fatto che il MoVimento 5 Stelle è inesperto o incompetente, poi invece la classe dirigente che ancora ci ritroviamo non ha saputo usare al meglio quello che potevo usare. Durante l'esame in Commissione per questo articolo il MoVimento 5 Stelle ha portato a casa un altro importante risultato per l'agricoltura italiana; hanno trovato infatti luce le proposte fatte attraverso una risoluzione e un'interpellanza sulla gestione del sistema informatico di AGEA, dopo la fine del contratto con SIN, che avverrà a settembre 2016. La modifica al decreto prevede infatti che, alla fine del contratto, sia avviata una gara pubblica per l'affidamento della gestione del SIAN, ciò al fine di far fronte alle numerose e crescenti difficoltà nella gestione da parte SIN e continuare a garantire l'efficace gestione dei servizi in relazione alla cessazione del regime europeo delle quote latte e all'attuazione della nuova Politica agricola comune. Sono di queste ore le ultime notizie sul caos che si sta abbattendo su AGEA in vista della scadenza delle domande PAC e non vogliamo che una simile confusione e malagestione continui ad essere la caratteristica del nostro Paese, specie in un contesto in cui si gestiscono tutti i fondi destinati dall'Europa all'agricoltura italiana. Quindi, è un compito delicato, deve essere gestito al meglio e deve essere necessariamente riformato, a partire proprio da questa prima gara pubblica. Per far fronte al fine quota nel medio e lungo periodo il decreto, all'articolo 2, affronta la questione delle relazioni commerciali in materia di cessione dei prodotti lattiero-caseari al fine di agevolare un passaggio morbido – chiamiamolo – fra mercato regolato dall'imposizione delle quote e un mercato libero e non penalizzare così la produzione italiana. Al comma 1 si prevede, vista la fine del regime delle quote-latte, l'estensione della compensazione del prelievo supplementare applicato nel regime di quote latte per anticipare gli eventuali sforamenti anche per i produttori di latte che hanno ecceduto la propria quota individuale oltre il 6 per cento, pur mantenendo però come prioritari coloro che hanno sforato meno del 6 per cento. Pur trovando apprezzabile l'estensione, riteniamo che comunque debbano prevalere i vecchi criteri di compensazione, continuando a compensare prioritariamente chi ha sforato di meno, chi in sostanza si è comportato bene e in questa direzione abbiamo indirizzato i nostri emendamenti. Sempre nell'articolo 2 si interviene in materia di contratti di cessione del latte crudo, facendo riferimento sia all'articolo 62 del decreto-legge n. 1 del 2012, sia all'articolo 148 del Regolamento europeo sull'OCM unica, l'Organizzazione comune del mercato unica. In particolare i contratti dovranno essere redatti in forma scritta e con durata non inferiore ai 12 mesi.
Anche sull'articolo 62, abbiamo più volte preso delle posizioni concrete in questi due anni di legislatura e spronato il legislatore ad intervenire per l'applicazione di questo articolo al fine di contrastare le pratiche sleali e prevedere l'obbligo di indicare il prezzo da pagare alla consegna e per il monitoraggio dei costi medi di produzione.
Questo stesso articolo allarga poi la destinazione del Fondo per gli investimenti sul lattiero-caseario, istituito al comma 214 della legge n. 190 del 2014, quindi la legge di stabilità per il 2015, all'attività di ricerca sul latte, nonché alle campagne di promozione e comunicazione istituzionale. Pur ritenendole importanti, forse sarebbe stato più importante che il Fondo, anziché utilizzato per campagne di comunicazione, fosse dedicato ad interventi più concreti per il sostegno al settore del latte, viste le numerose criticità affrontate anche dagli articoli dello stesso provvedimento.
La riorganizzazione della filiera lattiero-casearia attraverso una interpretazione efficiente sul modello francese è un passo indispensabile e necessario per gli operatori italiani, dal momento che sono definitivamente archiviate le quote latte ed è quanto abbiamo chiesto al Governo attraverso una nostra risoluzione approvata poche settimane fa in Commissione agricoltura.
Quindi, apprezziamo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto, anche se con la scusa di affrontare l'emergenza del settore lattiero, interviene su tutte le organizzazioni interprofessionali dell'agroalimentare, affrontando in emergenza, attraverso un decreto urgente, una tematica che invece avrebbe meritato un ragionamento più ampio e sulla quale il dibattito in Commissione era aperto sin dall'inizio della legislatura e sulla quale noi – penso soltanto noi del MoVimento 5 Stelle – ci siamo espressi anche con una risoluzione.
Nel decreto, si definiscono le caratteristiche per la creazione quindi di un'organizzazione interprofessionale del latte, in seguito dirò OI, in buona parte ricalcando tutte le disposizioni previste dal regolamento europeo 1308 del 2013, e regolamentando le modalità di estensione delle regole adottate dalla OI. Si prevede in particolare una soglia minima di rappresentatività economica nel settore, che inizialmente fissata al 20 per cento, oggi, grazie al nostro lavoro, è arrivata al 25 per cento, soglia che deve essere solo una base di partenza grazie alla quale far partire la realizzazione della OI del latte in una realtà frammentata e fatta di piccoli e piccolissimi attori, come quella italiana, che invece deve far fronte a dei colossi.
Attualmente, risulta che il 40 per cento del settore del latte si è già impegnato con contratti nei confronti di multinazionali, quindi aumentare troppo la soglia in questa fase iniziale, come proposto anche da alcuni gruppi parlamentari, oltre che da diverse associazioni di categoria, ci sembrerebbe un ostacolo alla partenza dell'organizzazione interprofessionale, anche perché il 25 per cento è il minimo e non esclude che i produttori della filiera, insieme anche e al primo colpo raggiungano percentuali maggiori.
Passiamo al settore dell'olio, un settore importante: è importante la creazione del Fondo per sostenere la realizzazione del piano di interventi nel settore olivicolo-oleario.
Con il lavoro di Commissione abbiamo inserito diversi punti approvati da una risoluzione del MoVimento 5 Stelle. Tuttavia, resta l'esigenza di predisporre e approvare un piano olivicolo nazionale che incrementi la produzione italiana attraverso la razionalizzazione della coltivazione degli oliveti tradizionali, il rinnovamento degli impianti e lo studio di nuovi sistemi colturali.
L'articolo 5 apre poi il capitolo del rischio agricolo, un'altra grande tematica, in particolare prevedendo l'accesso al Fondo di solidarietà nazionale a produzioni agricole e strutture danneggiate anche da alcuni rischi assicurabili. All'inizio, il decreto prevedeva la sola deroga per le imprese colpite da piogge alluvionali, mentre adesso tale deroga, anche grazie alle nostre pressioni, è estesa anche ad altre calamità nazionale naturali, quale la il cinipide del castagno o la flavescenza dorata.
Grazie al nostro emendamento, tra l'altro, è stata aggiunta la condizione relativa al cinipide del castagno che la priorità degli interventi compensativi vada in favore delle imprese che praticano la lotta biologica, l'unica forma di lotta efficace.
Purtroppo, il Governo sta facendo poco per sostenere l'agricoltura biologica e le altre forme ambientalmente sostenibili e lo dimostra anche un fatto molto semplice: invito tutti ad andare a vedere in tutto il testo di questo decreto che la parola «biologica» si ripete solo due volte, tre grazie al nostro emendamento.
Sempre per quanto riguarda le emergenze, il Governo dimentica altri settori del primario, quali ad esempio l'apicoltura che fa registrare estesi fenomeni di apicidio, colpa appunto dell'uso massiccio della chimica nell'agricoltura, con conseguenti perdite di produzione dell'ordine anche del 50 per cento.
Per questo settore, avevamo proposto degli emendamenti volti a bloccare l'utilizzo di fitofarmaci neonicotinoidi anche durante il periodo di melata degli arborei e misure di sostegno al reddito e di defiscalizzazione di alcuni prodotti apistici. Purtroppo, in questo caso, tutti i nostri emendamenti sono stati respinti.
Ma la sciagura più grande che si è abbattuta sulla gran parte degli agricoltori italiani – e non smetteremo mai di ricordarlo – che sta determinando gravi perdite economiche si chiama Matteo Renzi.
Infatti, di recente ha istituito l'IMU sulla terra, questa patrimoniale che non tiene conto minimamente del reddito reale e che, infatti, colpisce indifferentemente anche gli agricoltori feriti da calamità e fitopatie. Per questo abbiamo presentato il nostro emendamento per l'abrogazione dell'IMU sulla terra, che ovviamente è stato respinto.
Relativamente alla gestione del rischio agricolo è, però, fondamentale che sia lo Stato sia gli agricoltori cambino il modo di pensare al lavoro agricolo e capiscano l'importanza di una gestione del rischio non più e non sempre in emergenza, ma preventiva. In particolare, lo Stato deve impegnarsi a porre in essere tutti i nuovi strumenti di gestione del rischio in agricoltura, che sono previsti dal programma di sviluppo rurale nazionale, il PSRN, dalle polizze agevolate ai fondi di mutualizzazione fino agli strumenti di stabilizzazione del reddito e, soprattutto, a far sì che gli agricoltori si avvicinino a questi strumenti e ne capiscano l'importanza.
Ricordiamo che la gestione del rischio è entrata a far parte, in modo strutturale, della nuova PAC e rispetto alla programmazione precedente avrà a disposizione circa 50 milioni di euro in più, per un totale di un miliardo 640 milioni nel periodo 2014-2020, e anche questo era oggetto di una risoluzione in discussione a firma del MoVimento 5 Stelle. Ma per questi strumenti di prevenzione del rischio in agricoltura, contenuti nel PSRN, attendiamo ancora la conclusione del processo negoziale con la Commissione europea e registriamo un ritardo del Ministero su alcuni decreti attuativi e regolamenti mancanti, senza i quali gli stessi strumenti non sono cantierabili. Teniamo conto, poi, che essendo meccanismi nuovi, eccetto le polizze agevolate, che già conosciamo, ci vorranno mesi o addirittura anni prima di capire se possono funzionare o meno nella nostra realtà agricola, così parcellizzata.
L'articolo 6 prevede la fine del commissariamento straordinario – è dal 1995 che ce lo portiamo dietro – successivo alla soppressione di Agensud della gestione delle strutture irrigue, al fine di razionalizzare e coordinare la gestione delle grandi reti infrastrutturali di irrigazione. Anche su questo punto apprezziamo il fatto che durante l'esame in Commissione si sia tentato di salvaguardare tutti i progetti e le opere già avviati dalla gestione commissariale, nonché le risorse umane, al fine di non perdere un lavoro prezioso, anche da un punto di vista di investimento economico.
Vogliamo ricordare, infine, l'approvazione di un importante articolo aggiuntivo al decreto, frutto di un emendamento del MoVimento 5 Stelle, che prevede l'istituzione di commissioni uniche nazionali, le CUN, per la determinazione delle quotazioni di prezzo per le filiere maggiormente rappresentative del sistema agricolo-alimentare. Quindi, finalmente si supera una legislazione vetusta. Ricordo che le borse merci sono regolamentate da un regio decreto del 1913 e si accoglie anche ciò che prevede la normativa con questo provvedimento. Quindi, la stessa autorità ha più volte invitato lo Stato italiano a superare il meccanismo delle borse merci ed evolvere verso le CUN.
Questa è una battaglia che abbiamo sposato dall'inizio della legislatura e che siamo soddisfatti di aver vinto. Ma adesso, ovviamente, la palla passa al Governo, che è chiamato a redigere un regolamento per la creazione delle CUN che rispetti i principi di trasparenza e ostacoli il conflitto di interessi. Infatti, solo attraverso un regolamento oggettivo, basato su parametri economici imparziali, si potranno evitare le distorsioni del mercato a cui assistiamo oggi, purtroppo, e in cui la formazione dei prezzi alla produzione, basata ancora su regolamenti che riposano su logiche di decentramento delle contrattazioni, appunto le borse merci locali, non è più compatibile con i principi di concorrenza.
Per questo alle CUN deve essere affidato il compito di formulare indicazioni di prezzi sulla base di indici sintetici oggettivi sui fondamentali di mercato – produzione, andamento dei consumi – al fine di rendere più chiaro il meccanismo di definizione dei prezzi alla produzione, introducendo un maggior grado di concorrenzialità delle contrattazioni e un ancoraggio ad indicatori di mercato oggettivi. Solo in questo modo si riuscirà ad eliminare la divaricazione tra il prezzo all'origine, prezzi all'ingrosso e prezzi al consumo, dando vita ad una contrattazione reale sulla fissazione del valore economico dei prodotti. Proprio su questo siamo pronti ad impegnare il Governo attraverso un ordine del giorno.
Quindi, in sostanza si tratta di un provvedimento che non ci sentiamo di contrastare e che cercheremo, però, ancora di migliorare con altre proposte emendative, che presenteremo qui in Aula. Per fortuna siamo arrivati noi in Parlamento, perché attraverso i nostri suggerimenti il Governo è finalmente riuscito a tirare fuori qualcosa di buono per l'agricoltura. Chiaramente, lo consideriamo un inizio: il lavoro da fare è ancora tanto, come tante sono le emergenze agricole non trattate in questo provvedimento e sulle quali non smetteremo di incalzare.
Ed è un inizio, voglio ricordarlo oggi, anche quello del mandato di tre nuovi sindaci del MoVimento 5 Stelle. Per cui, colgo l'occasione di augurare buon lavoro a Rosa Capuozzo, Sean Wheeler e Roberto Falcone .
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Pastorelli. Ne ha facoltà.
ORESTE PASTORELLI. Signora Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, il decreto legge n. 51 del 2015, così come il disegno di legge di conversione in esame, incidono profondamente su due settori centrali nell'agricoltura italiana, quello lattiero-caseario e quello olivicolo. Il pacchetto contenuto nel decreto delinea una strategia chiara: tutelare e rendere più competitivi i settori agroalimentari in questione, pur mantenendo alti i livelli qualitativi delle produzioni. In questo senso devono infatti leggersi quelle misure con riferimento al settore caseario volte a promuovere, più che a rafforzare, relazioni contrattuali equilibrate all'interno della filiera, a tutelare il produttore quale contraente debole, ad adeguare la normativa interna a quella europea in tema di organizzazioni interprofessionali.
Ma è anche nel settore olivicolo, rispetto al quale ho da sempre richiamato l'attenzione vostra e del Governo, che oggi si gioca una partita importante. Assistiamo, infatti, da un lato a un progressivo impoverimento qualitativo e quantitativo delle produzioni italiane, specie quelle di piccole dimensioni, mentre, dall'altro, i mercati, quello europeo, ci chiedono quantità sempre maggiori di prodotto, riconoscendone l'assoluta eccellenza. I nostri piccoli produttori olivicoli stanno, infatti, affrontando un durissimo periodo di crisi, nel quale, oltre alle ben note calamità atmosferiche, sono intervenuti anche altri fattori di danno, quali fitopatie e infestazioni. E non mi riferisco solo a quanto recentemente patito dagli agricoltori del leccese con la ma anche agli interi raccolti persi dalle piccole aziende del centro Italia a causa della mosca olearia. Prendo volentieri atto del fatto che il decreto-legge n. 51 del 2015 rispecchia e concretizza interventi che il sottoscritto ha costantemente sollecitato nelle opportune sedi istituzionali e politiche. Un piano di intervento a sostegno delle piccole e medie imprese olivicole, così come l'utilizzo di risorse del Fondo di solidarietà nazionale, per i danni derivati da fitopatie e alluvioni, sono strumenti essenziali per il sostegno e il rilancio del settore.
Se questo è il quadro generale all'interno del quale ci si muove, segnalo all'attenzione degli onorevoli colleghi la necessità di ampliare il più possibile l'ambito di applicazione di questi strumenti, estendendoli a situazioni non contemplate dal decreto, ma ugualmente critiche, come nel caso appunto delle infestazioni da mosca olearia. Una necessità quest'ultima rilevata all'unanimità dalla stessa Commissione ambiente e segnalata, come osservazione, nel parere formulato su questo disegno di legge. La politica è chiamata a dare risposte concrete a problemi concreti. Il decreto-legge n. 51 del 2015, con uno sforzo commendevole, cerca di assolvere a questo compito, mettendo in campo soluzioni e politiche adeguate; è nostro dovere, in sede di conversione, integrarle e se possibile migliorarle.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Palese. Ne ha facoltà.
ROCCO PALESE. Signora Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, in quest'Aula inizia oggi l'esame del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 51 del 2015, recante interventi per il rilancio dei settori agricoli in crisi, di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi di carattere eccezionale e di razionalizzazione delle strutture ministeriali. Rilevo al riguardo che, se da un lato appare condivisibile l'impianto generale delle norme in esso contenute, aventi carattere di necessità ed urgenza per fronteggiare la grave crisi che ha colpito il settore del latte, il settore olivicolo e oleario e le imprese agricole che hanno subito danni a causa di eventi alluvionali e infezioni di organismi nocivi ai vegetali, dall'altro, il medesimo provvedimento, dal punto di vista finanziario, affronta tali criticità in maniera inadeguata e parziale, i cui fondi messi a disposizione sono decisamente insufficienti e altro non determineranno che un rinvio a breve e medio termine delle difficoltà che riguardano il settore agricolo.
Ci saremmo aspettati maggiore coraggio da parte del Governo e, in particolare, dal Ministro delle politiche agricole Martina, nel prevedere misure di sostegno più efficaci, in grado di incidere in maniera risolutiva sui numerosi problemi che affliggono il comparto agricolo. Ma si sa, l'agricoltura italiana non è mai stata in cima all'agenda di questo Governo, come dimostra la sequela dei provvedimenti normativi introdotti da questo Esecutivo sin dal suo insediamento: dalla rivalutazione delle rendite catastali, all'aumento delle accise sul gasolio agricolo, alla diminuzione delle quote di gasolio agevolato per eterocoltura, all'arrivo indiscriminato dei prodotti non europei sui mercati nazionali, sino alla famigerata tassa patrimoniale dell'IMU sui terreni agricoli, che ha dato il colpo di grazia per un settore, motore dell'economia italiana, che proprio non merita un trattamento così vessatorio ed invasivo da parte di questo Governo.
Avremmo apprezzato e condiviso, pertanto, misure in favore delle imprese agricole italiane che, dettate dalla straordinarietà ed urgenza dell'intervento, avessero affrontato in maniera più estesa e armonica le numerose criticità che attanagliano il settore agricolo. A tal fine, chiedo al rappresentante del Governo e ai colleghi presenti in quest'Aula: perché lasciare fuori dalle misure contenute in questo decreto-legge le problematiche derivanti dai danni della fauna selvatica che ha acquistato negli ultimi anni una dimensione notevole, ed i suoi risvolti hanno un dichiarato impatto sia sull'attività economica di tantissime imprese agricole che sulla stessa conservazione della biodiversità ? Perché non contemplare, all'interno delle disposizioni di necessità ed urgenza previste da questo decreto, ulteriori misure, volte a potenziare il contrasto alla contraffazione dei prodotti agroalimentari del il cui mercato dell'agro-pirateria si estende ogni giorno sempre di più nel nostro Paese, determinando perdite occupazionali ed economiche considerevoli e stimate in centinaia di migliaia di posti di lavoro e di diverse decine di miliardi di euro l'anno per le nostre imprese agricole sane, e che in particolare in questo momento si aggiunge anche la gravissima penalizzazione per l'agroalimentare dovuto alle sanzioni, discutibili sanzioni, nei confronti della Russia ?
Ripeto, per quanto condivisibili siano le misure indicate da questo decreto-legge che prevede la possibilità per i produttori di pagare in tre rate annuali senza interessi il prelievo dovuto a causa dell'eccedenza di latte prodotto nell'ultima campagna lattiero-casearia di applicazione del regime delle quote latte, dietro prestazione di fideiussione bancaria o assicurativa, con l'introduzione della nuova disciplina dell'organizzazione interprofessionale nel settore lattiero-caseario che può essere riconosciuta qualora rappresenti una quota dell'attività economica pari ad almeno il 25 per cento, questa è una misura che noi, tuttavia, riteniamo ancora insufficiente.
Nel complesso il Governo, in particolare il responsabile delle politiche agricole, avrebbero dovuto osare di più, prevedendo all'interno di questo decreto-legge – l'ultimo per il rilancio competitivo in favore dell'agricoltura risale all'inizio della scorsa legislatura, con il decreto-legge 171 del 2008 – interventi più robusti, ed estesi anche ad altri segmenti importanti dell'agricoltura italiana rimasti fuori dalla sfera di interventi, per sostenere un comparto che contribuisce in maniera determinante al prodotto interno lordo nazionale.
Un capitolo a parte riguardano le politiche sulla diffusione del batterio fitopatogeno da quarantena, ovvero la che sta mettendo in ginocchio una parte del territorio della regione Puglia e, in particolare del Salento, fondamentale per l'economia locale, che continua ad avere gravissimi problemi di emergenza, che continua ad avere un'impostazione, soprattutto con riferimento all'Europa, ma anche in riferimento al piano per contrastare l'emergenza della cioè che sostanzialmente non si riesce neanche lontanamente a poterlo applicare, attuarlo, ammesso e non concesso che il piano possa essere adeguato veramente a contrastare la .
Detto questo, comunque, non si riesce, per una situazione di disorganizzazione totale di impostazione dovuta alla cattiva gestione da parte del Governo di questo problema, ed anche da parte della regione Puglia. La vicenda della ha origini lontane e responsabilità che risalgono a periodi altrettanto remoti, ed evidenziano una sottovalutazione del problema incredibile e, aggiungo, indegno per un Paese ritenuto l'ottava potenza economica mondiale e che a breve diventerà la nona. Una totale assenza di misure tempestive che risalgono sin dal 2011, a seguito delle quali né il Governo centrale né tantomeno le strutture della regione Puglia hanno messo a fuoco la dimensione del flagello che stava per abbattersi sugli uliveti, con gravissime ripercussioni sulle aziende olivicole-olearie, vivaistiche e turistiche.
Pertanto, senza soffermarmi troppo su questa negativa cronistoria, che oggi vede un'ulteriore puntata, perché vi sono cinque ispettori dell'Unione europea che sono sul territorio pugliese, soprattutto nel basso Salento, per, sostanzialmente, esaminare ancora qual è il quadro della situazione dell'emergenza che ha caratterizzato questa tragica vicenda legata a questa infezione batterica fitosanitaria, i cui contraccolpi continuano ancora oggi a manifestarsi in tutta la loro drammaticità sul sistema socioeconomico pugliese e salentino in particolare, evidenzio come le misure di contrasto per le fitopatologie per le quali il decreto-legge autorizza le aziende agricole a richiedere contributi compensativi a carico del Fondo di solidarietà nazionale in agricoltura, nonostante le misure correttive integrate in Commissione, siano manifestamente insufficienti.
Evidentemente, anche in questa occasione, così come molto spesso è accaduto nei precedenti provvedimenti adottati dal Governo, non si riesce a comprendere l'effettiva realtà della situazione in cui si trova il tessuto sociale e produttivo del Paese; una distanza, direi, siderale tra quanto il Governo mette in campo in favore delle famiglie e delle imprese, del sistema economico in generale, e le effettive necessità richieste dagli operatori del settore, in questo caso le imprese agricole.
Così come, anche per il piano di interventi per il settore olivicolo-oleario, comparto di eccellenza dell'agroalimentare italiano, la cui produzione di qualità rappresenta una delle punte di eccellenza dell'agroalimentare e del nel mondo, la dotazione delle misure indicate, 4 milioni di euro per 2015 e 14 milioni di euro per il biennio successivo, sebbene incrementata in sede referente dalla Commissione agricoltura, appare inadeguata per rilanciare un comparto così importante per il nostro Paese.
Ricordo come l'emergenza terribile dell'agricoltura pugliese e, in particolare, le preoccupazioni degli operatori del settore agricolo con riferimento all'inizio della raccolta delle olive, dove si prevede un fortissimo calo, stimato circa nell'80 per cento, non solo per la specifica malattia della ma anche per un'annata di eccezionale riduzione fisiologica della resa per la presenza di altre patologie, abbiano accresciuto i livelli di criticità nel settore olivicolo non solo per le regioni del Mezzogiorno.
Pertanto, avremmo auspicato una maggiore attenzione da parte del Governo per l'intero sistema olivicolo italiano, che costituisce una rilevante biodiversità e una propensione per la qualità, che ne hanno fatto un nel panorama mondiale.
Concludo il mio intervento, signora Presidente, con la richiesta ai signori del Governo e della maggioranza di non essere chiusi in maniera pregiudiziale all'esame dei nostri emendamenti, previsto a partire da domani, e anche a un'eventuale discussione.
Cerchiamo, sostanzialmente, insieme, di migliorare il testo nell'ambito della fase emendativa, arricchendolo dei contributi che potranno venire da tutti i gruppi parlamentari, nell'interesse della nostra agricoltura, perché, sostanzialmente, vi è una grande necessità di ripresa e di sostegno, tanto più che vi è stato un grande investimento da parte del Paese intero nel contesto della manifestazione Expo 2015.
Però, dovremmo anche cercare di intervenire in maniera un po’ più pregnante sia dal punto di vista del sostegno finanziario sia dal punto di vista dell'attenzione, in riferimento anche al coordinamento dei piani di sviluppo rurale 2014-2020, perché solamente tre regioni hanno avuto ancora l'approvazione e per tutte le altre, da parte dell'Europa, vi sono censure fortissime. Anche in questo senso, si ritiene indispensabile un coordinamento molto più forte di quello che finalmente è avvenuto da parte del Governo, per dare veramente un segno tangibile a questo settore, che è strategico da sempre per il nostro Paese.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Lavagno. Ne ha facoltà.
FABIO LAVAGNO. Grazie, Presidente, gentile Viceministro, gentili colleghi, oggi iniziamo il dibattito su questo decreto-legge n. 51 del 2015, che è improntato sulle questioni dell'agricoltura. Raramente, in quest'Aula, dibattiamo di agricoltura, non solo perché questa rientra prevalentemente nella competenza residuale delle regioni, ma più per un'attitudine culturale, credo, poco attenta, nata e cresciuta nel secondo dopoguerra del secolo scorso e alimentata da un'idea di sviluppo industriale che da tempo non trova più grande attinenza con la realtà e, soprattutto, con dati di natura economica.
Maggiore attenzione all'agricoltura, alla zootecnia, all'agroalimentare nel suo insieme, la dovrebbe porre non solo il legislatore, ma il sistema informativo e formativo in generale, cominciando da un'attenta lettura dei dati economici, da una loro interpretazione e da una – ne sono convinto – vera valorizzazione.
Siamo di fronte, infatti, ad una vera sottovalutazione di un settore che, stando agli indicatori economici, fa registrare il più elevato incremento del PIL, con il valore aggiunto che sale al 6 per cento nello scorso anno, a livello congiunturale, spinto dall'esportazione agroalimentare e dalla ripresa dei consumi alimentari delle famiglie che, per la prima volta, da sette anni, tornano positivi e crescono dell'1,4 per cento.
Anche a livello occupazionale l'agricoltura si dimostra come settore dinamico e attivo. Sempre riferendosi ai dati ISTAT, il numero degli occupati lo scorso anno, in generale, è cresciuto di 133 mila unità, ma mentre si sono persi 42 mila occupati nel settore dell'industria e 17 mila nell'edilizia, l'agricoltura ha un saldo positivo di 45 mila nuovi occupati in più, pari al 6,2 per cento, contribuendo, pertanto, a un saldo generale positivo di tutto rilievo.
Cito questi dati perché ravvedo la necessità di una rifocalizzazione generale dell'attenzione nella sfida durissima che ci vede tutti impegnati ad individuare una via della ripresa, non certo per negare che veniamo da anni difficili anche per questo comparto, che ha visto crollare i redditi agricoli e ridursi il valore aggiunto.
In senso positivo, ad esempio, per quanto riguarda l'agricoltura, non si è certamente mossa la politica fiscale degli ultimi interventi che rompeva un patto di fiducia tra amministrazione centrale e comuni e, nonostante le varie mitigazioni, non favoriva certo gli imprenditori agricoli. Mi sto riferendo, come è ovvio, all'IMU sui terreni agricoli, tema sul quale, per quanto non sia questa la sede opportuna, sarà certamente necessario ricordare al Governo, in ogni occasione, che occorrerà intervenire con maggiore attenzione di quanto non sia avvenuto nei mesi scorsi.
La discussione di oggi, infatti, ci impegna su un decreto-legge che non esito a definire positivo e pienamente corrispondente ai requisiti che la nostra Carta costituzionale stabilisce per questo genere di strumento normativo, intervenendo su questioni che implicano straordinarietà, necessità ed urgenza.
L'omogeneità, tante volte richiamata e invocata su atti di questo tipo, è pienamente corrisposta, così come rilevato dal Comitato per la legislazione, intervenendo sui settori prettamente di competenza del Ministero delle politiche agricole (nello specifico, sul passaggio delle quote di produzione alla libera concorrenza del settore lattiero-caseario, sui requisiti per la costituzione delle organizzazioni interprofessionali, sugli interventi a favore del settore olivicolo oleario, sull'accesso al Fondo di solidarietà nazionale a favore delle aziende agricole che hanno subito danni a causa di eventi alluvionali ed infezioni di organismi nocivi ai vegetali e sulla riorganizzazione, come è ben noto, di Agensud).
Grazie a questo provvedimento l'Italia recepisce il regolamento comunitario del 2013 che assimila le fitopatie agli interventi meteo eccezionali, quali causa per dichiarare lo stato di calamità.
Si tratta di una norma ponte sino a quando non saranno operativi i programmi di sviluppo rurale 2014-2020, che conterranno i nuovi strumenti, appunto, per la gestione del rischio in agricoltura.
Il decreto in questione richiama anche un articolo di un regolamento dello scorso anno, sempre dell'Unione europea, che enumera puntualmente tutte le forme di aiuto possibile per le fitopatie che sono sottratte alla notifica dell'Unione europea per gli aiuti di Stato.
Questi riferimenti si riscontrano in uno dei principali articoli di questo decreto, l'articolo 5, che tratta di compensazioni per avversità atmosferiche e fitopatie. Questo articolo, a lungo discusso e modificato dall'ottimo lavoro della Commissione e dal relatore, grazie ad una disponibilità di dialogo e confronto del Governo, prevede che tutte le imprese agricole colpite da avversità atmosferiche di eccezionale gravità nel 2014, e fino alla data di entrata in vigore del provvedimento, potranno accedere agli interventi per favorire la ripresa dell'attività economica, a condizione di non avere sottoscritto polizze assicurative agevolate a copertura dei rischi. Pertanto, anche colture assicurabili, ancorché non assicurate dalle imprese, potranno ricevere i contributi del Fondo di solidarietà per gli eventi verificatisi dal 1o gennaio 2014 fino al 7 maggio 2015.
Nell'arco di questi ultimi decenni abbiamo visto come condizioni meteorologiche sempre più imprevedibili determinino eventi sempre più violenti in campo atmosferico. Solo a titolo di esempio, ricordo i casi dello scorso anno che hanno determinato gravi danni ad imprese agricole riferibili al basso Piemonte e alla Liguria (nello specifico alle province di Alessandria e Genova), all'area vesuviana, a zone della Calabria, o a quelle della Toscana colpite da una violenta tempesta di vento nel marzo scorso.
L'intervento potrà riguardare, secondo quanto specificato dal lavoro della Commissione, anche le imprese agricole che hanno subito nell'ultimo triennio danni a scorte di materie prime, semilavorati e prodotti finiti, danneggiati o distrutti a causa degli eventi eccezionali e non più utilizzabili.
La gravissima situazione della i suoi rischi, gli ingenti danni che sta causando, hanno portato recentemente l'attenzione sulle fitopatie e sui danni economici che possono causare e che causano.
Recentemente, quest'Aula ha approvato, nonostante fosse già stato emanato questo decreto, mozioni che vanno nella direzione di quanto previsto da questo atto normativo. Va ricordato, però, come il lavoro della Commissione abbia permesso di estendere l'elenco delle fitopatie ammesse alle compensazioni alla flavescenza dorata della vite, al cinipide del castagno, dando meritoriamente la priorità, in questo secondo caso, quando la lotta avvenga con metodi biologici.
È stato un lavoro utile e serio, che indica come la politica si debba occupare in modo sistemico anche dei fenomeni emergenziali e non attingere alla propria azione solo dall'agenda dell'attenzione mediatica dell'attualità.
I contributi compensativi a carico del Fondo di solidarietà nazionale in agricoltura per eventi atmosferici e fitopatie fanno riferimento a: contributi in conto capitale fino all'80 per cento del danno sulla produzione lorda vendibile e per il ripristino delle strutture aziendali; prestiti ad ammortamento quinquennale per le maggiori esigenze di conduzione aziendale nell'anno in cui si è verificato l'evento ed in quello successivo; proroga delle rate delle operazioni di credito in scadenza.
Per gli interventi a favore delle imprese danneggiate dalla diffusione della la dotazione del Fondo è ulteriormente incrementata di 1 milione di euro per il 2015 e di 10 milioni di euro per il 2016. Il lavoro della Commissione ha permesso anche di incrementare di 10 milioni il fondo per gli altri interventi sopra specificati.
L'attento lavoro della Commissione ha permesso, inoltre, con l'aggiunta del comma 3- come ricordato dal relatore, di aumentare il Fondo di solidarietà nazionale della pesca e dell'acquacoltura, per un importo pari a 250.000 euro per il 2015 – quindi si tratta, più che di incrementarlo, di finanziarlo – per arrivare a 2 milioni nel 2016, offrendo, oltre che un'adeguata attenzione, anche un valido strumento per un settore economico che risultava in crisi.
I risultati positivi che ricordavo all'inizio dell'intervento sono indubbiamente frutto del lavoro e dell'impegno di molte imprese che non hanno perso la fiducia, ma sono certamente state anche favorite da politiche attente che, come dimostra questo decreto-legge, non vengono meno, confermando come l'agricoltura sia uno dei settori più importanti e strategici su cui puntare per avviare una ripresa consolidata del sistema economico nazionale.
Assicurare cibo, contribuire all'educazione alimentare con effetti positivi sulla salute, gestire capillarmente le risorse naturali come suolo ed acqua sono tutte azioni volte alla salvaguardia ambientale e al mantenimento delle biodiversità. Per questo, nell'anno di Expo 2015, è importante ricordare che le imprese agricole devono essere messe al centro dell'agenda economica nazionale.
Più volte ricordata, la nuova politica economica comune ridisegnerà il volto della nostra agricoltura. Nei prossimi sette anni, come ci ricorda il Ministro Martina, abbiamo a disposizione 52 miliardi di euro di risorse, che costituiscono un'occasione imperdibile per decidere le strategie future, il modello di agricoltura che vogliamo per l'Italia e, di conseguenza, anche il suo modello di sviluppo.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Romanini. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE ROMANINI. Signora Presidente, signor Viceministro, gentili colleghi, la conversione in legge del decreto-legge n. 51 del 2015, recante disposizioni urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi, è un atto, come giustamente ricordava il relatore, particolarmente atteso dal mondo agricolo. Le azioni contenute nel decreto-legge riguardano insieme il settore dell'olio e il settore lattiero-caseario, quest'ultimo, come già ricordato, nel delicato momento di passaggio dal regime trentennale delle quote latte ad un sistema di libero mercato.
In questo settore introduce misure di transizione morbide nonché mirate ad un riequilibrio strutturale delle relazioni contrattuali tra i diversi operatori della filiera, in particolare attraverso l'attuazione della normativa europea in materia di organizzazioni interprofessionali. Va dato merito al Governo con questo intervento di avere tenuto particolarmente conto delle indicazioni contenute nella risoluzione n. 8-00102 (risoluzione latte), approvata all'unanimità il 9 aprile di quest'anno dalla XIII Commissione (Agricoltura). Direi che tutti gli impegni assunti con quella risoluzione sono stati trasposti nel testo in esame.
In particolare, a proposito delle organizzazioni interprofessionali – voglio ricordarlo – tale risoluzione, constatato che nel settore lattiero-caseario le difficoltà nelle relazioni contrattuali e nella trasmissione del prezzo ed i conseguenti squilibri nella filiera sono un fenomeno ricorrente, impegnava il Governo al riordino delle relazioni commerciali attraverso l'incentivazione e il rafforzamento delle organizzazioni dei produttori e di quelle interprofessionali.
Vi era, inoltre, l'impegno a convocare il tavolo della filiera del settore latte come strumento previsto dalle norme comunitarie al fine, tra l'altro, di programmare gli interventi che la filiera deve mettere in atto per incrementare la commercializzazione dei prodotti lattiero-caseari in Italia e all'estero.
Come detto, signora Presidente, il Governo ha mantenuto questi impegni, provvedendovi in particolare con l'articolo 3, con il quale è arrivato a regolamentare per la prima volta in modo organico tutta la disciplina delle organizzazioni interprofessionali.
È su questo specifico punto, che ritengo fondamentale, non solo per il latte, ma per il futuro di molti altri settori, prodotti o gruppi di prodotti agricoli, che voglio richiamare l'attenzione dell'Aula.
Sull'articolo 3, la Commissione agricoltura è intervenuta più volte e il lavoro parlamentare è stato determinante per ottenere un risultato migliore, più efficace e maggiormente condiviso dalle associazioni agricole e dalle rappresentanze imprenditoriali delle filiere interessate.
L'intervento della Commissione ha avuto origine dalla considerazione della strategicità dello sviluppo in Italia di queste organizzazioni di filiera. Organizzazioni di produttori, accordi e interprofessioni, infatti, sono aspetti diversi, ma complementari, che perseguono l'obiettivo di sviluppare un sistema agricolo maggiormente contrattualizzato e orientato alla programmazione della produzione per adattarla alle esigenze dei mercati. Un adeguato sviluppo delle organizzazioni interprofessionali è indispensabile a garantire questo risultato. Una sede stabile di relazioni tra i soggetti favorirà la trasparenza del mercato e la conoscenza del potenziale produttivo, la sua programmazione e qualificazione, la definizione di contratti tipo e di regole condivise, riducendo la conflittualità che sorge più facilmente quando le parti si incontrano semplicemente per definire il prezzo.
In Italia abbiamo molto da fare in questo campo, pochissime sono le OI operative (solo otto, in base ad uno studio recente dell'università di Perugia) e non tutte riconosciute nei settori ortofrutta, tabacco, olio d'oliva, cereali, carne, pere e pomodoro da industria. Lodevole, pertanto, l'iniziativa del Governo e cruciale per il miglioramento della competitività e della sostenibilità delle diverse filiere agroalimentari.
Tuttavia, il testo del decreto-legge n. 51 del 2015, nel regolamentare la materia per le OI, rischiava, come ritengo, di mettere in crisi quelle non ancora riconosciute dal Ministero, dal Mipaaf, ma già operative ed efficaci per effetto dei riconoscimenti regionali operati in virtù del regolamento europeo n. 1308/2013. Qui il lavoro della Commissione è stato particolarmente intenso ed è stato necessario predisporre norme che siano a supporto e tutoraggio di nuove esperienze e non penalizzanti per quelle organizzazioni e quei territori, come l'Emilia Romagna, dalla quale provengo, che in questo campo hanno già prodotto risultati concreti.
In quelle regioni sono state riconosciute tre organizzazioni interprofessionali regionali o interregionali con l'assenso comunitario: l'OI del pomodoro da industria del nord Italia, l'OI del gran suino italiano, l'OI della pera e una OI in corso di riconoscimento sul settore delle uova.
Le modifiche introdotte in XIII Commissione hanno avuto, pertanto, l'obiettivo prioritario di salvaguardare le buone esperienze, quelle già avviate, e consentire la nascita di nuove OI radicate tra le imprese e rispettose della varietà, delle differenze settoriali, territoriali ed organizzative del sistema agroalimentare italiano.
Queste volontà hanno trovato efficace sintesi nell'emendamento del relatore all'articolo 3 che, da una parte, come è già stato ricordato, ha previsto l'innalzamento delle soglie di rappresentatività minime richieste per il riconoscimento delle organizzazioni interprofessionali e, dall'altra, ne ha consentito il riconoscimento anche a livello di una singola circoscrizione economica, definita come una zona geografica costituita da regioni di produzione limitrofe o vicine nelle quali le condizioni di produzione e commercializzazione sono omogenee, come dall'articolo 164, paragrafo, 2, del regolamento n. 1308/2013 già richiamato, confermando comunque l'esigenza posta dal testo del decreto-legge di evitare un'eccessiva proliferazione di organismi interprofessionali.
È stata elevata al 25 per cento la quota minima prevista per la costituzione dell'OI del latte a livello nazionale e, in caso di riconoscimento relativo ad una singola circoscrizione economica, se ne chiede la rappresentatività almeno del 51 per cento e del 15 per cento a livello nazionale.
Parallelamente, è stata alzata al 40 per cento la soglia per il riconoscimento delle OI operanti in settori diversi (e sono tutti gli altri) da quello lattiero-caseario. Nel caso di riconoscimento relativo ad una singola circoscrizione economica, cosa alla quale si teneva molto, si chiede la rappresentatività del 51 per cento della circoscrizione interessata e comunque una rappresentatività del 30 per cento a livello nazionale.
È stata prevista giustamente, ancora in termini di modifica, con il lavoro della Commissione riassunto dall'emendamento del relatore, l'intesa con la Conferenza Stato-regioni per l'emanazione del decreto di riconoscimento delle OI da parte del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Tali modifiche tutte vogliono dare una risposta all'istanza di consentire un riconoscimento diretto da parte delle regioni e province autonome, lasciando tuttavia l'impostazione secondo la quale sia il Ministero ad emanare il riconoscimento, anche in considerazione del carattere almeno interregionale delle OI e della potestà che avranno di emanare regole valevoli . Al termine del lavoro svolto in XIII Commissione, penso che possiamo dire che le norme proposte riusciranno, speriamo, a favorire un adeguato sviluppo delle organizzazioni interprofessionali. Insieme agricoltori, trasformatori, distributori e dettaglianti possono svolgere un ruolo utile facilitando il dialogo tra gli attori della filiera, promuovendo le buone pratiche e la trasparenza del mercato e questo ci auguriamo possano fare dopo il varo del decreto-legge in oggetto
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Anzaldi. Ne ha facoltà.
MICHELE ANZALDI. Grazie Presidente, grazie Viceministro, gentili colleghi, il decreto-legge, di cui oggi è in corso la discussione sulle linee generali, rappresenta un'altra tappa importante del processo di sblocco nel settore agricolo. Un decreto-legge che interviene in maniera puntuale su alcune emergenze da governare – mi riferisco al superamento del regime delle quote latte e alla – e che concretizza alcuni importanti segnali di cambiamento anche in termini di dell'agricoltura. Dopo sette anni di crisi e di flessione si è fermata in Italia la caduta dei consumi alimentari che finalmente nel 2015 riprendono a salire e sono un indicatore abbastanza evidente di una ripresa da parte di consumatori e imprese. Dopo la casa è proprio la spesa alimentare la principale voce del delle famiglie. Parliamo di oltre 215 miliardi di euro. Siamo quindi in presenza di segnali importanti che devono consolidarsi e fortunatamente il Governo ha grande consapevolezza di questo. Lo scorso 1o maggio si è aperto l'Expo, una vetrina mondiale centrata sull'agroalimentare, proseguirà a Bologna con FICO e tutto questo non può che portare grandi benefici ad uno dei settori strategici del e della qualità agroalimentare.
I dati positivi non possono farci dimenticare gli anni trascorsi e le difficoltà che persistono tuttora, difficoltà spesso legate a fattori climatici e ad eventi calamitosi, parassiti come la e la mosca che hanno colpito l'olivicoltura ma penso anche ai nostri agrumeti, alla sharka che colpisce le drupacee e a tutte le forme speculative legate al fenomeno dell'Italia che necessiterebbe di una revisione della normativa di regolamentazione, delle etichettatura e della tracciabilità come richiesto da un ordine del giorno da me presentato e accolto dall'Esecutivo proprio questa settimana nel corso dei lavori di approvazione del disegno di legge comunitaria. Sono solo alcune delle emergenze che colpiscono le nostre produzioni di qualità ma non sono indifferenti neppure le vicende geopolitiche internazionali. Basti pensare alle ripercussioni sul nostro comparto agricolo delle sanzioni che la comunità internazionale ha stabilito nei confronti della Russia.
C’è stato un importante lavoro in Commissione, va dato atto al presidente, al relatore e a tutti i gruppi di aver contribuito a migliorare e a rafforzare strumenti di sostegno ad un comparto strategico come quello agricolo. L'articolo 4 ha istituito un Fondo per la realizzazione di un piano di interventi nel settore olivicolo-oleario con un di 32 milioni di euro che in Commissione ha visto un deciso incremento con l'approvazione dell'emendamento Mongiello, un piano nazionale che da 20 milioni è stato portato a 32 milioni di euro, con una riarticolazione delle risorse sempre all'interno del settore agricolo e aggiuntive rispetto alla politica agricola comunitaria, un segnale importante in particolare per le regioni meridionali dove si concentra la quota principale della produzione di olio del nostro Paese.
Lo avevamo pubblicamente detto che i 20 milioni di euro iniziali non ci sembravano sufficienti. Oggi, grazie a un importante lavoro di squadra, siamo riusciti a incrementare di oltre un terzo le risorse destinate al nuovo piano olivicolo, risorse tutte aggiuntive. L'obiettivo è quello di dare un sostegno concreto al sistema di imprese che produce qualità, per rilanciare il vero anche sui mercati esteri. È un passo importante, quello fatto dal Governo, che deve integrarsi con i piani rurali delle regioni, finanziati con risorse comunitarie, e propedeutico a ulteriori misure che dovranno arrivare anche con la legge di stabilità per l'anno prossimo.
Entro due mesi un decreto interministeriale del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e del Ministero dell'economia e delle finanze, adottato d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, definirà i criteri e le modalità di attuazione del piano di interventi. Viene prevista una declinazione concreta del contributo con un minimo per aziende agricole e per aziende che, oltre alla produzione primaria, operano anche nella trasformazione e commercializzazione. Sull'olivicultura vi è stato un grande lavoro svolto dalla Commissione che ha portato anche importanti risultati come la legge sull'olio, le misure anticontraffazione, l'obbligo del termine «miscela» in etichetta quando vi sono miscele tra oli vergini ed extravergini, obbligatorietà del tappo antirabbocco in tutti gli esercizi pubblici.
Ma questo lavoro non ha fatto tralasciare l'attenzione alle emergenze. Ricordo l'approvazione di una risoluzione, la n. 8-00109, e di una mozione la scorsa settimana a firma del PD che ha puntualizzato strategie e interventi per contrastare la e salvaguardare il grande patrimonio costituito dalla filiera olivicola del nostro Paese. Si sono svolte importanti audizioni, si è registrato un importante coinvolgimento di tutte le associazioni di categoria con il compito di farsi carico del momento di grande difficoltà che attraversa il settore. Sono state incrementate le risorse per gli interventi compensativi e di sostegno in favore delle imprese danneggiate dalla diffusione del batterio potenziando la dotazione del Fondo di solidarietà nazionale. A chi intende strumentalizzare la presunta contrapposizione tra settore lattiero-caseario e olivicolo per la destinazione di risorse dal primo al secondo va evidenziata la scelta saggia operata dal Governo di procedere, finalmente, al superamento del regime delle quote così come previsto in sede comunitaria, con tutto ciò che la storia ci ha consegnato, anche in termini economici, e di sostenere un comparto in grandi difficoltà come quello dell'olio. L'obiettivo che ci poniamo è quello di un rafforzamento della capacità produttiva del settore olivicolo che nel meridione per qualità non ha rivali nel mondo intero, della promozione della qualità, della tracciabilità, del sostegno alla commercializzazione, della valorizzazione anche in chiave turistica della funzione produttiva e paesaggistica del comparto olivicolo. È tempo di una rinnovata sinergia, anche della valorizzazione culturale e ambientale degli uliveti e dei frantoi.
L'utilizzo della decretazione d'urgenza è stata opportuna ed è un segnale, dato dal Governo, di grande attenzione. Ora altri soggetti istituzionali, a partire dalle regioni, sono chiamati a fare la loro parte in tempi brevi. È sicuramente un passo importante quello segnato dal decreto-legge, un segnale che va anche nella direzione giusta del sostegno alle imprese e ai vivaisti che con l'abbattimento delle piante di ulivo e con la sospensione o l'annullamento dei contratti e delle forniture perdono la loro fonte principale di reddito. Certo, ci sono anche degli altri impegni che il Governo si è assunto, a partire dalla mozione approvata in Aula sulla per disporre le opportune iniziative finalizzate a escludere dal Patto di stabilità interno le somme impegnate dagli enti locali per la realizzazione degli interventi di competenza e obbligatori per fronteggiare l'emergenza fitosanitaria della così come vanno definite le strategie per adottare un piano di certificazione delle produzioni vivaistiche, in modo da evitare qualsiasi blocco di esportazioni e riconoscere incentivi e sovvenzioni a tutti coloro che aderiscono al suddetto protocollo.
È una questione, quella della valorizzazione del nostro comparto olivicolo, che va posta con forza, anche nelle opportune sedi comunitarie, per contrastare il fenomeno della contraffazione. Oggi, il consumatore è fortunatamente più attento e sensibile e questo deve indurre il legislatore ad adottare provvedimenti che abbiano come fine ultimo la maggiore trasparenza ed il perseguire le frodi. La concorrenza sleale in campo alimentare vale 60 miliardi di euro all'anno, pari al doppio del valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari pari a 27 miliardi di euro. Purtroppo, il nostro paese nelle forme di contrasto a questo fenomeno è ancora indietro e lo è anche rispetto a paesi con minore vocazione agroalimentare come, ad esempio, la Germania. Con l'approvazione del piano nazionale olivicolo facciamo un importante passo in avanti, l'incremento delle risorse fortemente voluto dal Partito Democratico dimostra quale è la nostra attenzione nei confronti di un segmento fondamentale del nostro comparto agroalimentare. Ma le risorse da sole non bastano e il piano deve essere l'ambito attraverso il quale rivedere complessivamente le strategie di promozione del nostro olio, un cambio di passo anche culturale.
Il presente decreto-legge deve essere propedeutico ad altri importanti interventi attesi dal mondo agricolo, a partire dal problema della tassazione di ogni terreno attraverso l'IMU agricola. Noi lavoreremo per questo e continueremo sul sentiero del confronto e di un metodo che punta sul protagonismo dei comparti di qualità del nostro settore agroalimentare. Segnali importanti ci vengono anche dai dati occupazionali, con l'agricoltura che nel corso dell'ultimo anno ha fatto registrare un incremento del 7 per cento del numero degli occupati. Un dato superiore di 10 volte al valore medio di tutti i settori, un segmento economico dinamico in grado di attrarre l'attenzione dei giovani, sapendo che la cura della terra è una risorsa economica ed è una garanzia contro il degrado idrogeologico. Questo decreto offre segnali importanti che vanno consolidati e promossi adeguatamente
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Avrebbe facoltà di replicare il relatore, che però ha esaurito il tempo a sua disposizione e comunque non ne ha necessità. Ha facoltà, quindi, di replicare il rappresentante del Governo.
ANDREA OLIVERO, . Signora Presidente, onorevoli deputati, desidero innanzitutto ringraziare la Commissione agricoltura, in particolare il relatore, il presidente Sani, per l'importante lavoro svolto nell'esame del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 51 del 2015, che oggi è all'attenzione di questa Camera. Permettetemi di sottolineare come l'intervento proposto dal Governo, e opportunamente migliorato con la discussione in sede di Commissione, rappresenta un forte segnale di attenzione dell'esecutivo verso il settore primario che da molti anni non era destinatario di un intervento legislativo urgente, dalla portata peraltro così significativa. In questo senso, ancora mi preme ribadire quanto è stato fatto anche in sede di Commissione per ulteriormente incrementare e implementare al punto che, come abbiamo ascoltato anche nel dibattito di quest'oggi, molti gruppi hanno potuto rivendicare come propria anche una strategia e una visione presente all'interno del decreto. Ne siamo assolutamente soddisfatti perché questo vuol dire che siamo riusciti ad affrontare in maniera ampia e anche a interpretare le esigenze che da più parti giungevano per poter andare a scrivere una pagina importante della storia della nostra agricoltura.
Il testo oggi al vostro esame riguarda due settori strategici per l'agricoltura italiana, come il latte e l'olio di oliva, che per ragioni diverse stanno affrontando un momento di crisi e contiene anche azioni concrete di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi di carattere eccezionale, nonché importanti interventi di razionalizzazione della macchina al servizio dell'agricoltura italiana nell'ottica di una sempre maggiore efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa. In particolare, il settore lattiero-caseario è oggetto di interventi diversi, finalizzati da un lato ad affrontare la situazione di emergenza causata dal passaggio da un sistema contingentato di produzione a uno completamente liberalizzato, dall'altro a ridisegnare per il futuro il sistema delle relazioni contrattuali tra i diversi operatori della filiera del latte, in modo da rendere più equa e meno soggetta a continua oscillazione la determinazione del prezzo di cessione del latte crudo.
Con il provvedimento diamo una risposta urgente ai 35 mila allevatori italiani dopo la fine delle quote latte, consentendo la rateizzazione delle multe per l'ultima campagna, puntando sull'organizzazione e intervenendo sui contratti, con novità rilevanti. In tale ambito le modifiche apportate nel corso dell'esame in sede referente sono volte a semplificare l'accesso al beneficio della rateizzazione per gli agricoltori, che potranno ricorrere al più agile strumento della fidejussione assicurativa oltre a quella bancaria, come è stato ricordato. Novità importanti sono anche state previste con riferimento alle organizzazioni interprofessionali, raccogliendo alcune istanze provenienti anche dalle regioni e nell'ottica di dare finalmente attuazione a uno strumento fondamentale per il riordino delle relazioni commerciali tra produttori agricoli e acquirenti.
Il settore olivicolo-oleario, che rappresenta un'eccellenza agricola italiana ed europea, vive da alcuni anni una grave crisi sia sul mercato interno che su quello internazionale, una crisi tale da compromettere la sopravvivenza di numerose aziende. La situazione di mercato registra da un lato un progressivo aumento dei consumi con una sempre maggiore richiesta di oli di qualità senza un corrispondente aumento della produzione, dall'altro registra un drastico calo dei prezzi a fronte di un sostanziale aumento dei costi di produzione, in particolare degli oneri sociali. Per il settore quindi procediamo con il piano nazionale e con lo stanziamento di 32 milioni di euro che verranno accompagnati anche dalle risorse dei PSR delle regioni interessate per un settore che nella sua parte agricola vale circa un miliardo e mezzo di euro, con l'obiettivo di arrivare ad una crescita del 25 per cento della produzione italiana nei prossimi anni.
La situazione climatica e il diffondersi di fitopatie che spesso costringono gli agricoltori ad abbattere interi oliveti rischiano di avere un impatto estremamente negativo su tutto il settore, con un conseguente drastico calo della produzione. Si tratta evidentemente di un momento delicatissimo e sensibile da gestire e governare con la massima attenzione. Cerchiamo di dare una risposta concreta alle esigenze degli agricoltori e dei vivaisti colpiti dal diffondersi di organismi nocivi ai vegetali, a partire dalla Xylella in Puglia, ma anche da altre fitopatie, con la deroga per l'attivazione del fondo di solidarietà nazionale e un primo stanziamento aggiuntivo rispetto all'ordinaria risorsa del fondo, pari a 21 milioni di euro per i danni subiti fino al 2016. Un intervento d'urgenza a sostegno del settore primario non può inoltre prescindere dal dare una risposta in relazione ai danni subiti dalle imprese agricole per i danni derivanti anche dalle emergenze di carattere alluvionale.
Grazie al lavoro svolto in Commissione è stata possibile anche la previsione di un rifinanziamento al fondo di solidarietà nazionale per il settore della pesca, che non veniva da alcuni anni rifinanziato, con una somma complessiva per il biennio 2015-2016 pari a 2,25 milioni di euro. Infine ringrazio la Commissione per aver confermato la scelta del Governo rispetto alla razionalizzazione delle strutture ministeriali, mi riferisco in particolare ad Agensud, dopo quasi vent'anni di gestione commissariale. È una scelta che il Governo ha inteso compiere in maniera coerente con il percorso di razionalizzazione e di efficientamento delle strutture del Ministero e dei suoi enti collegati che, come opportunamente specificato, dovrà essere effettuata – lo dico ribadendo quanto già inserito anche nel testo – salvaguardando l'attuale livello di interventi in favore delle regioni del Mezzogiorno.
Infine desidero sottolineare l'importanza strategica, anche nell'ottica dell'urgenza, di attuare la nuova PAC e di garantire l'ordinato superamento del regime delle quote latte, della disposizione che consentirà il superamento dell'attuale modello di gestione del SIAN in coerenza con le richieste della Commissione europea e garantendo una maggiore efficienza al sistema, prevedendo comunque la salvaguardia dei livelli occupazionali nel caso di affidamento a terzi del servizio.
Mi permetto di sottolineare, in conclusione, agli onorevoli presenti, l'importanza del presente provvedimento anche in virtù della sua tempestività e della nettezza delle scelte che assume. Né sul settore lattiero-caseario, né su quello olivicolo-oleario vi era mai stato in tempi recenti un provvedimento di questa portata, sia dal punto di vista economico, sia da quello normativo e organizzativo. La qualità, la tutela e la promozione delle produzioni nazionali di pregio, la connessione tra i prodotti di qualità e il territorio sono aspetti che in questi mesi sono sotto gli occhi del mondo intero grazie a Expo 2015.
Ma sarebbe stato monco un processo volto solo a curare l'immagine della produzione italiana. Il Governo, grazie anche alla fattiva collaborazione di questa Camera, si è attivato e sta lavorando per rendere tutta l'agricoltura italiana e il settore agroalimentare pronto a queste sfide. Le crisi e le emergenze su cui oggi si interviene non sono infatti affrontate con logica risarcitoria, per tamponare i danni, ma nella prospettiva di rilancio, di crescita e di nuova organizzazione; si pensi, a questo riguardo, all'intervento sulle interprofessioni, che in molti interventi è stato ripreso.
È questo, a parer nostro, l'approccio giusto ed è per questo anche che ringrazio la Commissione agricoltura e le diverse forze politiche per averlo condiviso fino in fondo.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Prima di passare al successivo punto all'ordine del giorno, procediamo ad una breve pausa tecnica.
Sospendo pertanto la seduta, che riprenderà fra cinque minuti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del testo unificato delle proposte di legge: Bossa ed altri; Campana ed altri; Marzano ed altri; Sarro; Antimo Cesaro ed altri; Rossomando e Valeria Valente; Brambilla; Santerini ed altri, nn. 784-1343-1874-1901-1983-1989-2321-2351-A: Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea .
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Ha facoltà di intervenire il relatore, deputato Giuseppe Berretta.
GIUSEPPE BERRETTA, . Grazie, signora Presidente. Rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il provvedimento che oggi prendiamo in considerazione è un progetto di legge davvero di grande importanza perché, al di là dei numeri e delle persone coinvolte, si tratta, però, veramente di un provvedimento molto, molto atteso.
Si tratta di questione complessa, quella che tentiamo di affrontare, complessa per le numerose fonti normative che intervengono, di carattere interno e di carattere internazionale. Infatti, nel regolamentare la materia dell'interpello e, quindi, delle modalità di esercizio di questo interpello, è necessario tenere in considerazione la Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989, l'articolo 7 in particolare, la Convenzione dell'Aja del 1993, all'articolo 30, e la Convenzione europea sui diritti dell'uomo, all'articolo 8.
Sono tutte fonti che hanno sicuramente inciso anche nelle pronunzie che supreme corti hanno adottato in questo ambito e, in particolare, mi riferisco alla sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, che peraltro arriva a valle di un lungo iter – e di altre pronunzie di diverso tenore – e, quindi, evidentemente frutto di un'elaborazione che ha avuto un tempo di maturazione anche piuttosto lungo. Al tempo stesso, grande importanza assume la decisione 25 settembre 2012, Godelli contro Italia, della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Se tutto ciò non bastasse, è evidente che si tratta di materia, signora Presidente, nella quale ci sono implicazioni di carattere morale ed etico di fondamentale importanza, che rendono e che hanno reso complesso l'iter, di cui ringrazio molto, per il contributo che è arrivato, tutti i deputati, i molti deputati che hanno avanzato proposte di legge al proposito, proposte di legge di segno diametralmente opposto, che hanno reso certamente il compito della Commissione giustizia e il compito del sottoscritto certamente non semplicissimo.
Quindi, arriviamo a valle di questo – ripeto: iter complesso –, nel quale abbiamo giustamente ritenuto utile audire numerosi docenti universitari e i rappresentanti delle associazioni che, appunto, hanno ritenuto di richiedere un'audizione. Abbiamo audito anche numerosi giudici, perché – e questo è un profilo sul quale ritornerò – nelle more del procedimento legislativo, in verità, la giurisprudenza è andata avanti, adottando una serie di decisioni e, quindi, tentando di dare già una prima risposta, una risposta al diritto del figlio, appunto, a conoscere le proprie origini.
In questo senso, durante il corso dell'iter abbiamo affrontato diverse questioni. La prima questione, che è la questione centrale – mi preme ribadirlo –, è che noi con questo provvedimento non vogliamo in alcun modo mettere in discussione la disciplina del parto anonimo, disciplina che ha dato buoni risultati, ottimi risultati, e che rappresenta una peculiarità del nostro ordinamento che, però, ha una funzione sicuramente condivisibile, che è quella della tutela della vita del nascituro e della salute della madre, al tempo stesso.
È una disciplina che la stessa Corte costituzionale non mette minimamente in discussione. Infatti, la sentenza n. 278 del 2013, che è certamente di fondamentale importanza nell'iter di questo nostro provvedimento, nel valutare e nel vagliare gli interessi in gioco e nel proporre un contemperamento tra gli stessi, ribadisce la priorità e una prevalenza del diritto della madre al mantenimento dell'anonimato. Quindi, tra il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini e il diritto della madre al mantenimento dell'anonimato, prevale il diritto all'anonimato.
Tuttavia, la Corte ritiene che sia necessario, perché il nostro ordinamento sia ordinamento rispettoso dei diritti in gioco e, quindi, anche dei principi di carattere internazionale contenuti nelle fonti che ho testé citato, che si proceda a un interpello. Quindi, qui sta il cuore della pronuncia della Corte costituzionale, qui sta il cuore anche della proposta di regolamentazione che portiamo all'Aula, cioè la possibilità di interpellare la madre. Trascorsi almeno venticinque anni dalla data del parto, il figlio ha la possibilità di rivolgersi al tribunale per i minorenni e di richiedere che la madre venga interpellata e le si chieda se intende mantenere l'anonimato o intende far venire meno l'anonimato, quindi dando modo al figlio di conoscere l'identità della madre.
In apparenza sembra una questione semplice, le implicazioni invece sono numerose e anche molto significative. Noi, proprio per dare seguito a questo principio dell'esigenza di massima tutela della madre, abbiamo intanto stabilito un principio, ossia che l'interpello si possa fare un'unica volta, onde evitare anche delle pratiche di vera e propria persecuzione, che potrebbero avvenire con più richieste che vengono reiterate nel tempo.
Al tempo stesso, abbiamo previsto che la madre unilateralmente possa dichiarare di far cessare l'anonimato, quindi una possibilità che ad oggi non è prevista, tanto che alcuni tribunali, pur in presenza della richiesta della madre di far cessare l'anonimato, dichiarano tale richiesta inammissibile e, quindi, non consentono l'acquisizione al fascicolo dell'adottato, del figlio, di tale istanza.
Abbiamo altresì previsto delle modalità di svolgimento dell'interpello che siano quanto più attente e rispettose della madre e, in questo senso, abbiamo previsto, da un canto, che siano i servizi sociali, soggetti sicuramente professionalizzati e in grado di svolgere questa attività con il massimo rispetto, i soggetti preferibilmente preposti al contatto con la madre e quindi all'avvio della procedura. Perché abbiamo inserito questo «preferibilmente» ? Perché ci è stato rappresentato dagli auditi che in taluni casi, sia pure rari, questa attività non può essere svolta dai servizi sociali e quindi vorremmo evitare che, attraverso una regola eccessivamente rigida, si crei un ulteriore ostacolo all'avvio e allo svolgimento dell’
Dopodiché, abbiamo previsto delle modalità che sembrano quanto più rispettose della della madre e, in questo senso, abbiamo previsto che l'interpello si debba svolgere in maniera tale da considerare le condizioni di salute, l'età, il luogo dove vive la madre e, quindi, tutta una serie di valutazioni che rimettiamo ai tribunali per i minorenni, soggetti competenti per lo svolgimento dell'interpello.
Abbiamo ritenuto di mantenere l'età dei venticinque anni, nonostante vi fossero proposte tese ad anticipare alla maggiore età tali richieste, e abbiamo quindi, a nostro avviso, operato in maniera tale da assicurare, nei limiti del possibile, la massima attenzione nei confronti della madre, il massimo rispetto della sua e, al tempo stesso, contemperare queste esigenze con la possibilità di dare seguito ad una pronunzia della Corte costituzionale, a nostro avviso molto, chiara e molto netta sul punto, tesa ad assegnare al giudice la possibilità di procedere ad un interpello, onde verificare la permanenza di questa decisione della madre di mantenere l'anonimato.
Abbiamo affrontato anche il tema della madre deceduta. In questo senso ovviamente ci sono tesi, idee, anche in giurisprudenza, discordanti, però abbiamo ritenuto che, in caso di decesso della madre, trattandosi di diritto personalissimo, quello appunto al mantenimento dell'anonimato, il decesso comporti il venir meno di tale diritto con il venir meno del soggetto che ne è titolare, consentendo quindi un'espansione del diritto in precedenza sacrificato o compresso del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Quindi, sulla scorta anche di una pronunzia molto motivata e argomentata del tribunale dei minorenni di Trieste, abbiamo ritenuto più convincente questa impostazione.
Come abbiamo ritenuto utile prevedere espressamente la possibilità dell'esercizio del diritto all'interpello da parte del tutore nel caso di soggetto incapace, totalmente o parzialmente. Anche in questo senso, non è una novità il fatto che diritti personalissimi vengano esercitati per il tramite del tutore. Basti pensare che il tutore può impugnare il matrimonio, può impugnare il riconoscimento del figlio naturale, può esercitare l'azione giudiziaria in materia di paternità o maternità naturale, ha delle competenze, esercita quindi i diritti propri dell'incapace in caso di interruzione della gravidanza. Mi sembra, quindi, che vi siano dei precedenti specifici che consentono anche in quest'ambito di regolamentare la possibilità di esercizio dei diritti dell'incapace per il tramite del tutore.
Con riferimento poi, Presidente, ai pareri delle altre Commissioni, proprio su queste questioni (la questione della madre deceduta e la questione dell'incapace, come, peraltro, di una presunta esigenza di regime transitorio), le Commissioni competenti hanno ritenuto di dover esprimere una posizione che non è del tutto coincidente con quella della Commissione competente. In questo senso sicuramente c’è la disponibilità, in sede di Comitato dei nove, all'esito dell'esame degli emendamenti e del dibattito in Aula, di tenere conto di tali pareri e di tentare di trovare un punto che sia equilibrato, serio e avanzato, ma è un punto necessario per evitare le disparità di trattamento che registriamo in questa fase. Infatti, come dicevo prima, in assenza di una regolamentazione legislativa, i tribunali dei minorenni si stanno orientando in maniera difforme: taluni tribunali dei minorenni hanno ritenuto già oggi, sulla scorta della sentenza n. 278 del 2013, interpretando essa evidentemente come una sentenza che già detta delle regole sufficientemente chiare e tali da poter essere applicate immediatamente, di dare seguito all'interpello.
Noi abbiamo avuto modo di ascoltare i presidenti dei tribunali di Trieste, di Firenze e di Torino, che procedono quindi all'interpello e hanno già dettato un regolamento interno, nel quale appunto regolamentano una sorta di protocollo ai fini dell'interpello; peraltro sappiamo ci sono altri tribunali, ad esempio il tribunale dei minorenni della mia città, Catania, ma anche altri tribunali dei minorenni, che, interpretando la sentenza n. 278 del 2013 come una sentenza di principio, ritengono sia essenziale l'intervento del legislatore per procedere all'interpello.
Questa disparità di trattamento che si è venuta a determinare e che registriamo nel territorio nazionale – disparità di trattamento che interviene in un ambito particolarmente delicato quale è quello della possibilità del figlio di avviare l'iter teso all'interpello, ripeto, non teso alla conoscenza, che avverrà, se avverrà, in seguito a un interpello, in seguito a una scelta della madre di fare venire meno l'anonimato – secondo noi, ancor di più in presenza di una sentenza della Corte costituzionale che dice che il legislatore dovrà procedere alla regolamentazione dell'interpello, certamente impone ancora di più al legislatore di intervenire, e di intervenire quanto più rapidamente possibile.
L'iter, ripeto, è stato un iter complesso, durante il quale abbiamo affrontato il tema con grande attenzione, ascoltando molto e tentando di trovare punti di equilibrio. Riteniamo di avere fatto un pezzo di strada; ora speriamo di riuscire a compiere l'ultimo miglio per raggiungere l'obiettivo. In questo senso, è ovvio che anche il dibattito di quest'oggi è estremamente importante e sono certo che arriveranno ulteriori contributi per raggiungere l'obiettivo.
Presidente, al di là delle considerazioni che ho svolto a braccio, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale della relazione .
PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo.
COSIMO MARIA FERRI, . Grazie, Presidente. Devo dire che il relatore ha ampiamente illustrato il testo e con grande autorevolezza ha specificato e ha indicato che si tratta di una materia molto delicata, perché vi sono dei riflessi non solo giuridici, ma anche morali, e quindi era difficile, ed è difficile tuttora, trovare un punto di equilibrio.
Devo dire che la Commissione ha fatto, secondo il Governo, un ottimo lavoro e ha cercato di colmare, intanto, un vuoto normativo. Infatti, come è stato illustrato, si tratta di una materia sulla quale è intervenuta non solo la Corte costituzionale, con la sentenza, più volte richiamata, n. 287 del 2013, ma anche la Corte europea dei diritti dell'uomo. Quindi, alla luce proprio della sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 28, comma 7, della legge 4 marzo 1983, n. 184, nella parte in cui non prevede un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza e la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non volere essere nominata, ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, su richiesta del figlio, ai fini dell'eventuale revoca di tale dichiarazione – ho letto testualmente la sentenza della Corte costituzionale –, sulla linea di questa pronuncia della Corte costituzionale il legislatore e la Commissione hanno operato, cercando di trovare un delicato equilibrio tra due interessi in gioco, che voglio sottolineare nuovamente, perché sono entrambi meritevoli di tutela: da una parte, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, dall'altra, il diritto della madre a mantenere l'anonimato.
Quindi, il legislatore sta cercando di trovare questo equilibrio alla luce di quello che, però, ci ha detto la Corte costituzionale, che, comunque, impone al legislatore di seguire questa linea. Quindi, da una parte, occorre avvicinare la madre, verificando, però, sempre la volontà di restare anonima. Quindi, il tutto deve svolgersi con la massima riservatezza, con il rispetto della sua dignità, e le cautele devono anche essere accompagnate, in questa fase certamente delicata, anche dalla considerazione dell'età e dello stato di salute psicofisica, delle condizioni sociali, familiari e ambientali della madre, in modo che il suo diritto a non modificare la scelta di anonimato fatta a suo tempo non sia, nei fatti, vanificato.
Non è un caso che, poi, il legislatore stia scegliendo la strada, per esempio, dell'interpello, però, per una sola volta, proprio perché si vuole da una parte eseguire il dettato costituzionale, e quindi trovare questo equilibrio, anche nel garantire il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, dall'altra però non si vuole vanificare del tutto questo diritto della madre. Quindi, è stato previsto un primo interpello che, però, non può essere reiterato più di una volta, al fine proprio di evitare condotte abusive, o anche persecutorie, ferma però sempre la possibilità per il figlio di accedere, in ogni caso, alle notizie di carattere sanitario, con particolare riferimento alle malattie trasmissibili, così da tutelare il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, quando questo suo desiderio di sapere si fondi anche su ragioni di salute. Non dimentichiamoci che, talvolta, questa necessità di capire è dovuta anche dei motivi di salute, anche per determinare e capire le cure e renderle anche più efficaci.
Quindi, la Commissione ha cercato di tenere fermo questo punto e il Governo si trova in linea con la Commissione. È chiaro che il dibattito potrà arricchire, proprio perché si tratta di una materia sensibile, proprio perché di fronte a questa materia c’è stata grande attenzione da parte di tutti, non solo in Commissione giustizia, ma anche da parte del Governo. Non si è chiusi, proprio perché ci rendiamo conto della necessità di tutelare due diritti che sono certamente importanti e che però necessitano, inevitabilmente, di un intervento del legislatore. Quindi, la politica e il legislatore devono intervenire per legiferare ed adeguare lo strumento normativo, che, come ho ricordato, è comunque datato al 1983, al nuovo orientamento giurisprudenziale, sia della nostra Corte, ma anche della Corte europea dei diritti dell'uomo, che è intervenuta proprio sull'articolo 28 con la famosa sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012 e che è approdata ad un giudizio, tra l'altro negativo circa la irretrattabilità dell'anonimato. Il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra, quindi, secondo la Corte, nel campo di applicazione della nozione di vita privata che comprende aspetti importanti dell'identità personale di cui fa parte l'identità dei genitori. Anche questo orientamento ci impone oggi, in questa sede, di trovare questo equilibrio.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Tartaglione. Ne ha facoltà.
ASSUNTA TARTAGLIONE. Signora Presidente, onorevoli colleghi, prendo la parola su un provvedimento che ha impegnato le Commissioni competenti in un lavoro di oltre un anno e mezzo. La delicatezza dell'argomento e la necessità di contemperare ed equilibrare diritti, interessi, bisogni, quanto mai delicati, ha condotto tutti noi a dar vita ad un confronto più ampio e dettagliato possibile.
Come è noto la legge n. 184 del 1983, riformata dalla legge n. 149 del 2001, ha realizzato una distinzione fondamentale in relazione al diritto di accesso alle informazioni sull'adottato e su quelle relative alle sue origini biologiche. Da un lato, l'articolo 28 impone ai genitori l'obbligo di comunicare al figlio adottivo la sua condizione di adottato, dall'altro, il diritto del figlio adottato, ma non riconosciuto, a conoscere la propria origine biologica, trova un limite nelle previsioni del comma 7, del citato articolo 28, che vieta infatti l'accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata. Il sistema in vigore, a tutela della gestante, ha cercato di porre a sua tutela, a favore dell'anonimato della stessa, delle norme particolarmente restrittive. La Commissione giustizia, vista la molteplicità delle posizioni in campo, ha avviato un'indagine conoscitiva sul provvedimento ed ha udito magistrati, rappresentanti dell'organismo unitario dell'avvocatura, docenti universitari di diritto, sociologi, ma soprattutto rappresentanti di numerosi comitati, e associazioni. Anche all'interno del gruppo parlamentare del Partito Democratico si è avviato un'interessante, proficuo e costruttivo confronto, nel quale sono potute emergere tutte le sensibilità del caso.
Ciò che è opportuno evidenziare è che sia nella Commissione sia nel franco confronto interno al nostro gruppo parlamentare è da subito emersa la necessità di evitare scontri ideologici su argomenti così delicati. È stato quanto mai evidente constatare che nessuno ha voluto contrapporre i diritti delle madri a quelli dei figli. Si è partiti dalla profonda consapevolezza che in questioni così complesse anche il legislatore deve sapere entrare in punta di piedi, soprattutto quando si tratta di innovare una legislazione decennale.
La legge tutela il diritto ad un parto segreto ed anonimo, cioè il diritto di scegliere entro dieci giorni dalla nascita del figlio se riconoscerlo o non. E sono numerose le parti coinvolte: la madre, il figlio, ma non dobbiamo ignorare le famiglie createsi intorno a loro, che potrebbero essere all'oscuro dei fatti. Il testo unificato all'esame dell'Assemblea amplia la possibilità per il figlio adottato e non riconosciuto alla nascita di conoscere le proprie origini biologiche. Questo è il dato fondamentale che ha trovato un ampio consenso tra noi Democratici.
L'atto oggi in esame consta di tre articoli. L'articolo 1 in particolare è da considerarsi il cuore del testo. Introduce una prima sostanziale modifica al comma 5 dell'articolo 28 della legge n. 184 del 1983. La modifica estende, infatti, oltre all'adottato, anche al figlio non riconosciuto alla nascita la possibilità, compiuti i 25 anni, di chiedere al tribunale dei minorenni del luogo di residenza del figlio di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Per potere accedere a tali informazioni, però, la madre deve avere revocato la sua volontà di anonimato dichiarata alla nascita del figlio.
La disposizione del comma 7 è integrata dal contenuto del nuovo comma 7- dell'articolo 28, che disciplina il procedimento di interpello per l'accesso alle informazioni sulle proprie origini. Infatti, al fine di garantire che il procedimento si svolga con modalità che assicurino la riservatezza e il massimo rispetto della dignità della madre, il tribunale per i minorenni tiene conto in particolare dell'età e dello stato di salute psicofisico della madre e delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali. Ove la madre confermi di volere mantenere l'anonimato, il tribunale per i minorenni autorizza l'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario con particolare riferimento all'eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
L'istanza di interpello, come più volte si è ribadito, nei confronti della madre può essere presentata una sola volta al tribunale per i minorenni del luogo di residenza del figlio. Il tribunale per i minorenni, avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali, deve allora contattare la madre per verificare se intenda mantenere l'anonimato. L'avere stabilito che l'istanza di interpello possa essere presentata una sola volta e il limite dei 25 anni per la richiesta sembrano garanzie sufficienti per evitare che le istanze siano presentate senza la dovuta riflessione e soprattutto per evitare che la madre debba più volte durante la sua vita rinnovare la propria volontà di anonimato. Tale scelta infatti indubbiamente costituisce la riapertura di una ferita e può costituire l'occasione di ostacolo alla serenità dell'eventuale famiglia che la stessa abbia formato.
Scopo della modifica di cui all'articolo 1 del testo in esame è quello di sopperire all'incostituzionalità, dichiarata dalla Consulta nel 2013. Proprio le variegate posizioni della giurisprudenza, in particolare le due sentenze della Corte costituzionale del 2005 e del 2013 sono la dimostrazione di quanto complessa sia la materia che ci occupa e quanto certosino sia stato il lavoro per giungere ad un testo capace di fare incontrare e non scontrare i due diritti in esame, quello della madre alla riservatezza e quello del figlio a conoscere le proprie origini.
L'accesso del minore o di un suo rappresentante alle informazioni sulle sue origini è chiaramente affermato dall'articolo 30 della Convenzione dell'Aja del 1993 in materia di adozione internazionale. È garantito proprio il diritto a conoscere l'identità della madre e del padre, oltre naturalmente ai dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia. Anche l'articolo 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989 riconosce il diritto del figlio, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori biologici. È proprio l'inciso «nella misura del possibile» su cui, di fatto, si è concentrato il confronto, per riuscire cioè a determinare una modalità di accesso alla conoscenza circa le proprie origini biologiche che non leda il diritto della gestante all'anonimato e poi della madre a vedersi senza volerlo costretta a rivivere scelte del passato.
È bene evidenziare, del resto, che l'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, vieta di porre ostacoli all'esercizio effettivo di tale diritto e impone di predisporre misure in grado di assicurare tale esercizio anche nei rapporti tra consociati. Solo col tempo l'interpretazione giurisprudenziale ha fatto rientrare nell'articolo 8 anche il diritto di accesso alle informazioni sulle proprie origini. Tale evoluzione interpretativa è la dimostrazione che, anche a livello internazionale, con il tempo, anche se lentamente, è andata sempre più consolidandosi una posizione di favore nei confronti di chi è alla ricerca delle proprie origini. È opportuno soffermarsi in proposito anche sul fatto che con l'affermarsi del fenomeno migratorio e la presenza di un numero sempre più elevato di gestanti di origine straniera, la norma sull'anonimato ha assunto anche un'ulteriore valenza: consente a chi è biologicamente figlio di immigrati di poter meglio conoscere le proprie origini. Non può, però, al contempo, essere trascurato il fatto che proprio il diritto all'anonimato ha costituito l'occasione per convincere molte donne straniere a ricorrere alle strutture sanitarie per poter essere assistite durante la gravidanza e poi il parto. Da qui l'ulteriore conferma della necessità del particolare equilibrio che ci viene richiesto nell'affrontare questo argomento.
Come pure molto dibattuta risulta essere la questione relativa alla tutela del diritto alla riservatezza della madre, anche se ci è di grande ausilio la recente giurisprudenza, anche di merito, che, partendo dai principi sanciti dalla normativa internazionale, ha cominciato a circoscrivere il diritto alla riservatezza. La normativa italiana, che esclude il figlio non riconosciuto dalla conoscenza delle proprie origini, è stata posta addirittura all'attenzione della Corte di Strasburgo già nel 2009. La Corte europea dei diritti dell'uomo, nel 2012, ha espresso un giudizio negativo circa l'irretrattabilità dell'anonimato prevista dalla normativa italiana, ritenuta in contrasto con il citato articolo 8 della Convenzione europea. Secondo la Corte, il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra nel campo di applicazione della nozione di vita privata che comprende aspetti importanti dell'identità personale di cui fa parte l'identità dei genitori. Allo sviluppo personale contribuisce la scoperta di dettagli relativi alla propria identità di essere umano e l'interesse ad ottenere delle informazioni funzionali alla scoperta della verità riguardante un aspetto importante dell'identità personale quale l'identità dei propri genitori. L'Italia, ad avviso della Corte, ha dato prevalenza assoluta al diritto all'anonimato, non avendo cercato, lo Stato italiano, di stabilire un equilibrio ed una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa. Limitare l'accesso alle informazioni della madre ha risposto, però, come chiarito in precedenza, all'esigenza di tutelare la gestante che in situazioni particolarmente difficili abbia deciso di non tenere con sé il bambino, dandole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata. La Corte costituzionale era intervenuta in materia già nel 2005, prima, quindi, della pronuncia della Corte europea, con una sentenza di rigetto, ritenendo che l'articolo 28 della citata legge n. 184 del 1983 fosse compatibile, sia con l'articolo 2, che con l'articolo 32 della Costituzione. Secondo la Corte, l'articolo 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 è espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, avendo la disposizione come obiettivo la tutela della partoriente che non voglia riconoscere il bambino, fornendole la possibilità di partorire in ottimali condizioni sanitarie, in modo da poter tutelare, sia la salute della madre, che quella del figlio. A conferma, se ce ne fosse bisogno, della delicatezza della materia che ci troviamo ad affrontare, vi è la considerazione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2005, ossia che la possibilità che la madre possa essere chiamata a confermare oppure revocare in piena libertà la decisione in favore dell'anonimato potrebbe vanificare lo scopo della normativa e rendere particolarmente difficile la decisione della madre biologica di partorire in una struttura sanitaria. È chiaro, pertanto, che l'anonimato non ha il solo scopo di tutelare la riservatezza della gestante, ma anche forse e principalmente di permetterle di prendere con maggiore serenità la decisione di far nascere il bambino. A tal fine, il Codice della all'articolo 93, stabilisce che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica possono essere rilasciati in copia integrale solo decorsi cento anni dalla formazione del documento. Prima di tale termine, la richiesta di accesso a tali documenti può essere accolta solo osservando le opportune cautele per evitare l'identificazione della madre.
È necessario quindi ribadire che, anche in considerazione della durata del vincolo dell'anonimato, la disciplina vigente preclude sostanzialmente al figlio non riconosciuto l'accesso ai propri dati biologici.
La Corte costituzionale nel 2013 è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla materia che ci occupa e si è sostanzialmente conformata a quanto stabilito dalla Corte europea e, per di più, la Consulta ci ha illuminato su un aspetto forse precedentemente trascurato della materia. La scelta per l'anonimato impedisce l'insorgenza di una genitorialità giuridica con effetti inevitabilmente definitivi riguardo al futuro. Ciò, però, non impedisce che quella scelta risulti necessariamente limitante anche sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale. Su questo secondo piano, infatti, la scelta può essere ben immaginata quale opzione eventualmente revocabile proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta. In tal modo si permette, infatti, di poter contribuire a quella piena realizzazione della personalità non solo del figlio ma anche della madre che, trascorsi molti anni dal parto, desideri riallacciare a seguito della richiesta del figlio un legame relazionale, anche se non giuridico, con il proprio figlio biologico.
La Corte costituzionale ha stabilito che il ai principi costituzionali sia rappresentato dalla irreversibilità del segreto. È lungo questo discrimine che si è posto il lavoro delle Commissioni, un lavoro che spero l'Assemblea possa perfezionare, sempre però consapevole della complessità e delicatezza della materia che ci occupa.
Così formulata la norma consente un adeguato contemperamento dei diritti in campo: da un lato, si richiede che il figlio abbia compiuto il venticinquesimo anno di età, abbia cioè maturato una certa stabilità psico-relazionale, dall'altro, si mantiene in capo alla madre la potestà di revocare la sua volontà di anonimato.
La norma è dotata di un indiscutibile equilibrio: si limita ad intervenire sostanzialmente solo sul punto oggetto della critica della Corte costituzionale e tiene adeguatamente conto di tutte le sensibilità in campo.
Concludo: certo è una norma di fatto procedurale che non affronta né può affrontare le modifiche intercorse negli ultimi decenni circa i rapporti genitori-figli e circa la stessa idea di genitorialità. Sarebbe utile se questa divenisse l'occasione per un pacato confronto sulla genitorialità responsabile.
Siamo consapevoli delle implicazioni culturali, filosofiche, religiose ed etiche che toccano il tema della genitorialità, ma dobbiamo domandarci se l'evidente calo delle nascite e lo sfilacciamento dei legami familiari non siano solo il frutto della attuale drammatica congiuntura economica.
La Repubblica è chiamata dal più volte citato articolo 2 della Costituzione a riscoprire la propria capacità di accompagnamento dei cittadini nella cura delle relazioni umane e soprattutto di coloro che si trovano a vivere un momento difficile della propria esistenza. Il testo da oggi in discussione è l'occasione per riscoprire il compito alto che i padri e le madri costituenti ci hanno affidato: aver cura dei diritti fondamentali al fine di edificare una comunità politica più giusta e più serena. Sono sicura che, con il contributo di tutti, quest'Aula saprà assolvere a questo importante compito .
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Nicchi. Ne ha facoltà.
MARISA NICCHI. Grazie, Presidente. Il testo in esame affronta una materia complessa e di estrema delicatezza. Introduce novità nella vita di 90 mila donne che dal 1950 ad oggi hanno fatto la scelta di partorire avvalendosi del diritto inviolabile alla segretezza, assicurato loro dallo Stato; rettifica una legislazione che finora in modo lungimirante e umano ha garantito il diritto alla salute di donne in estrema difficoltà e i loro nascituri, sottraendoli al rischio della clandestinità. Vuole farsi carico di richieste esistenziali nuove, pone a genitori e figli adottivi nuove possibilità e anche prove.
Il provvedimento in esame modifica la legge n. 184 del 1983 all'articolo 28, quella norma che stabilisce una serie di regole che prevedono la possibilità che, in presenza di gravi e comprovati motivi, il tribunale dei minorenni possa fornire ai genitori adottivi o ai responsabili sanitari, in caso di grave pericolo, le informazioni sull'identità dei genitori.
Quelle norme che permettono che, al venticinquesimo anno di età, chi è stato adottato possa avere accesso alle informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Quelle norme che, in analogo al procedimento, permettono al diciottenne, al compimento dei 18 anni, l'accesso alle informazioni per comprovati motivi di salute psicofisica. Quelle norme che, al comma 7, vietano l'accesso alle informazioni nei confronti della madre che ha partorito in anonimato, secondo l'articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 e il comma 2 dell'articolo 93 del codice della .
Proprio su questo, recentemente, è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza citata n. 278 del 2013, dichiarandone l'incostituzionalità parziale. Già in precedenza la Corte europea dei diritti dell'uomo, nella sentenza Godelli, aveva espresso – è stato citato, anche questo, lo riprendo – un giudizio negativo sulla non ritrattabilità dell'anonimato prevista dalla nostra normativa, ritenuta in contrasto con l'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Convenzione che insieme alla Convenzione sui diritti del fanciullo e alla Convenzione dell'Aja sull'adozione danno un quadro normativo internazionale al riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini, imponendo – si dice – agli Stati di assicurarne l'esercizio effettivo.
Ecco, nella sentenza la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ravvisato la necessità di contemperare maggiormente due interessi in campo: il diritto alla segretezza del parto e il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche. La Corte ha invitato il legislatore – cito – a introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare, in termini rigorosi, il suo diritto all'anonimato. Ecco, diciamolo subito, intervengo subito nella discussione: il risultato di questo testo che noi stiamo esaminando, risultato che è scaturito dal lavoro della Commissione giustizia, non ha affatto riequilibrato i due interessi in campo, anzi, per noi, li ha inversamente sbilanciati, oltre le indicazioni della Corte costituzionale, e non garantisce in modo pieno il diritto alla riservatezza della donna.
Quindi, noi ci avviciniamo e vogliamo partecipare a questa discussione con un animo che ha la volontà di cambiare questo testo, di perfezionarlo, di contribuire a migliorarlo, di apportare delle modifiche importanti. Nessuno qui può discutere a cuor leggero su questi temi e credo che nessuno abbia delle verità assolute da presentare.
Entriamo nel merito. All'articolo 1 viene modificato il comma 5 dell'articolo 28 che estende la prevista procedura di accesso alle informazioni che riguardano la propria origine e l'identità dei propri genitori anche al figlio non riconosciuto alla nascita nel caso – si dice: nel caso – di revoca della madre della volontà di non voler essere nominata. Sottolineo la revoca: qui c’è la revoca da parte della madre della volontà di non voler essere nominata. Poi si precisa che ciò non legittima nessuna rivendicazione patrimoniale o successoria da parte dell'adottato e che, in caso di figlio parzialmente o totalmente incapace, l'istanza è presentata da chi ne abbia la legale rappresentanza. Noi pensiamo che la possibilità per la persona incapace di essere sostituita dal legale rappresentante debba riguardare solo le informazioni sanitarie ed escludiamo quelle informazioni che attengano all'identità dei genitori biologici, diritto ascritto nella sfera dei diritti personalissimi.
Noi della XII Commissione abbiamo esaminato questo provvedimento nella relazione dell'onorevole Miotto e nel parere che l'onorevole Miotto ha steso, parere che noi apprezziamo per molte delle indicazioni che lì sono venute.
Poi viene integralmente riformulato il comma 7 dell'articolo 28 della legge n. 184 per consentire l'accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia revocato la propria volontà di anonimato, richiesta giusta in questo caso, perché siamo in presenza della revoca della volontà di anonimato resa dalla madre nelle modalità stabilite dalla legge.
Quello che invece non si può prevedere – e che il testo fa – è l'accesso alle informazioni sulla madre biologica in caso di decesso della donna stessa. È un punto dirimente, molto importante, e il nostro ordinamento contempla una forma di tutela del diritto alla riservatezza anche dopo la morte, nei limiti previsti dall'articolo 9 del codice della che individua puntualmente gli interessi che giustificano il mantenimento della protezione dei dati. Invece, in questo testo, con la morte la volontà della donna, la sua vita, non conta più, la sua identità può essere rivelata senza problemi e la riservatezza non tutela le relazioni di quella donna che sopravvivono a lei, con le quali lei non potrà mai più essere in contatto e non potrà mai più raccontare e offrire il suo punto di vista, le sue spiegazioni. Noi questo lo riteniamo un punto particolarmente critico.
Poi c’è il nuovo comma 7- che individua i soggetti preposti al procedimento e disegna le modalità per accedere alle informazioni su istanza del figlio non riconosciuto alla nascita, in assenza di revoca da parte della madre della volontà di anonimato. È un punto di estrema delicatezza perché siamo di fronte al caso di assenza della revoca della madre. Qui si delineano le modalità dell'interpello alla madre anonima, a quella madre che non ha dato la disponibilità ad essere rintracciata.
Dobbiamo dire che in questi anni, in presenza di un vuoto normativo, vari tribunali per minorenni hanno agito con procedure diverse, dai servizi sociali fino all'utilizzo dei carabinieri in funzione di polizia giudiziaria, con esiti non sempre felici riguardo a riservatezza, a rispetto di tutte le soggettività interessate e coinvolte. Ed è superfluo ricordare la complessità di queste relazioni, il groviglio di sentimenti che si mettono in gioco.
La versione licenziata dalla Commissione giustizia non sceglie e li ammette tutti. Infatti, scrive che il tribunale per i minorenni con modalità che assicurino la massima riservatezza – poi ci torno –, avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali, contatta la madre per verificare se intenda mantenere l'anonimato previsto. Noi riteniamo che il ricorso al personale dei servizi sociali previsto debba costituire una procedura ordinaria, inderogabile e mi stupisco di sentire dal relatore che questo non è possibile perché ci sono situazioni in cui i servizi sociali non ci sono. Mi chiedo perché, mi sembra curioso, mi sembra sicuramente una inadempienza da affrontare, non tale da mettere in discussione un principio inderogabile. Aggiungo: personale dei servizi sociali anche magari adeguatamente formato per affrontare queste circostanze.
Poi la domanda fondamentale: chi garantisce la segretezza assoluta, diritto riaffermato dalla sentenza della Corte costituzionale ? Non ci vuole tanto a presumere l'incertezza in cui cadrebbe questo diritto, visto che le istanze sarebbero prese in esame da più soggetti istituzionali e da più figure, nei diversi passaggi che seguiranno la decisione del tribunale dei minori, e non – anche questo è un altro punto – il Garante della autorità che sarebbe stata preferibile investire di questo compito accogliendo anche la disponibilità di questo soggetto.
Voglio richiamare tutti a leggere il doloroso racconto su di una donna che ci testimonia lo scompiglio drammatico che può provare l'arrivo di una lettera del tribunale dei minori.
La visita, il campanello di un assistente sociale che suona, con ripercussioni in lei e anche nella famiglia che facilmente potrebbe scoprire il segreto della donna, il suo segreto, che nessuno senza il suo consenso può mettere in discussione.
Questo è un punto di vista che il legislatore non può trascurare, considerando anche che, dei due soggetti in campo, la sola voce che si è potuta ascoltare espressamente in vari modi è quella dei figli e delle figlie adottate, perché l'altra è anonima, è nel segreto, sta nell'oscurità, perché questo è il doloroso patto che questa donna ha fatto.
Inoltre – questo è un punto fondamentale – è indispensabile chiarire in modo cristallino la non retroattività delle norme. Ecco, questi punti critici, se non modificati – io li pongo nella discussione proprio perché spero che sia una discussione costruttiva, che faccia fare passi avanti – rischiano di provocare danni irreparabili.
È giusto consentire alla donna che ha partorito in modo segreto di cambiare idea, anche ad anni di distanza, dando quindi la propria disponibilità ad essere rintracciata senza pretendere di assumere il suo ruolo giuridico di madre a cui ha rinunciato in passato. E la sua scelta di disponibilità e il suo diritto alla dei dati personali devono rimanere con fermezza il limite invalicabile alla richiesta di sapere da parte dei figli che lei ha dato in adozione.
Non possiamo chiudere gli occhi sulle conseguenze che ci saranno di fronte alla possibilità di rottura del patto di segretezza senza la volontà delle donne coinvolte, patto che lo Stato aveva loro garantito per un lungo tempo, cento anni, e c’è da chiedersi che cosa sceglieranno ora sapendo che, anche senza il loro accordo, potranno essere rintracciate, interpellate dopo anni. È molto probabile che aumenterà il numero di coloro che ricorreranno all'abbandono tradizionale, partorendo di nascosto in condizioni di insicurezza.
E c’è da chiedersi anche cosa penseranno quelle donne che hanno fatto questa scelta di fronte al fatto che in questo testo non si chiarisce la non retroattività, quale tipo di pensiero queste 90 mila donne coinvolte potranno avere.
Innumerevoli sono gli appelli, le petizioni per correggere questo testo in esame. Io credo che abbiamo l'occasione di fare un dibattito parlamentare per migliorarlo. E concludo.
Quello che affrontiamo non è un mutamento di una qualsiasi legge. Si interviene su vissuti che hanno affrontato scelte estreme, che hanno segnato altre vite e sono in gioco conflitti esistenziali diversi, contrastanti, lancinanti. Ecco, occorre regolarli, trovare punti di intesa, ma in base a quali criteri ?
In questo il compito dello Stato e del potere pubblico non può sostituirsi al diritto della donna di esercitare l'autonomia sul proprio corpo e sulla propria esistenza anche dopo la nascita del figlio. Il diritto del nato e della nata abbandonata alla nascita a conoscere le proprie origini biologiche dipende dal «sì» della donna che allora scelse di farlo in anonimato, rinunciando alla maternità sociale ed affettiva. Quel «sì» o quel «no» femminile è la condizione prima da rispettare, inderogabile, e non c’è nessun automatismo naturale che obblighi la donna dopo il parto alla responsabilità di avere cura materna sul piano affettivo e sociale. L'unica imposizione è la propria responsabilità, la propria scelta di responsabilità.
La scelta di essere genitori non è una costruzione naturale, è una costruzione affettiva, sociale, come dimostra l'esperienza dell'adozione, direi esperienza meravigliosa. In queste esperienze, in alcune di queste esperienze – anche qui, diciamolo, non in tutte – figlie e figli adottivi qualche volta manifestano in modo autentico il bisogno di andare alla radice dell'abbandono originario, di ricostruire tutti i tasselli della propria esistenza.
Ed è una materia, questa, fatta di umanità, affettività, di storia sociale, di implicazioni psicologiche. Mal si attaglia il concetto di identità biologica, di quell'identità biologica ricercata oltre la garanzia del diritto alla salute, dove lì ha un senso, ma un'identità biologica che ci rimanda a un'idea della generazione della vita tutta ricondotta alla discendenza della biologia, basata sull'equazione: diritto all'identità, diritto all'identità biologica. Io credo che sia l'insidiosa conseguenza di una visione della vita impostata su un riduttivismo biologico, un impoverimento umano del significato di venire al mondo.
Ci sarebbe molto da discutere su questo punto che caratterizza anche la nostra contemporaneità, perché questo è legato anche alla diffusione delle tecnologie riproduttive, tecnologie riproduttive rispetto a cui è giusto un approccio critico, che assuma anche il senso del limite dell'uso delle tecnologie, limite da usare in modo responsabile e non certo imposto e perseguito da uno Stato proibizionista e illiberale, come ha fatto la legge n. 40 del 2004.
Sono questioni che dovremmo trattare in modo approfondito, anche fuori dall'iter del provvedimento, perché non tutto è riconducibile alle leggi, perché sono in gioco l'importanza della mediazione della madre, il concetto di genitorialità – e lo hanno detto altri interventi –, il senso di venire e di stare nel mondo, che sono questioni di primaria grandezza .
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Paola Binetti. Ne ha facoltà.
PAOLA BINETTI. Presidente, è certamente un dibattito importante, di quelli che in qualche modo toccano i punti più intimi, più vulnerabili della vita di una persona: la sua identità, il suo rapporto con i genitori, che è un rapporto complesso, perché non si può scindere totalmente l'aspetto biologico dall'aspetto psicologico, esattamente come in nessun uomo è possibile separare – chiamiamoli così – il suo corpo dalla sua anima o, comunque, dalla sua psicologia. Quindi, è un dibattito che riporta il tema anche sull'unità dell'uomo, su una visione antropologica in cui corpo e anima sono componenti che fanno parte integralmente di quel vissuto che poi sarà, nel tempo, la sua identità.
L'istituto dell'adozione legittimante, concepita come seconda nascita per il minore, presupponeva, nella disciplina del 1983, il segreto sulle origini dell'adottato. La legge sulle adozioni, modificata poi nel 2001, ha introdotto e regolamentato il diritto dell'adottato ad accedere alle informazioni sulle proprie origini, ciò in attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York, del 1989, e, più in particolare, dell'articolo 30 della Convenzione dell'Aja del 1993, in materia di adozione internazionale, ratificata in Italia con la legge n. 476 del 1998, che impone alle autorità competenti di ciascuno Stato contraente di conservare con cura le informazioni relative ai minori adottati, assicurando l'accesso a tali informazioni nella misura e con le modalità previste dalla legge interna dello Stato.
Oggi il minore ha diritto di essere sempre informato sulla sua condizione di figlio adottato. I genitori adottivi possono scegliere i modi e i termini che ritengono opportuni per tale rivelazione, ma non possono sottrarsi a tale compito, che costituisce, per gli stessi, un vero e proprio dovere.
Il rapporto di adozione non può, però, in alcun modo risultare da alcun certificato né atto di alcun genere rilasciato dall'ufficiale di stato civile e dall'anagrafe, mentre qualsiasi pubblico ufficio, così come qualsiasi ente pubblico o privato e qualsiasi autorità, debbono assolutamente rifiutare di fornire qualsiasi notizia o informazione dalla quale risulti tale rapporto, salvo l'autorizzazione espressa dell'autorità giudiziaria.
Le informazioni sulle origini della persona adottata sono le informazioni relative all'identità dei genitori biologici e quelle relative alla propria storia e l'accesso a tali informazioni resta, comunque, sottoposto a notevoli limiti e condizioni.
Noi abbiamo che il genitore adottante è quindi obbligato a dichiarare al figlio la sua condizione di adottato, ma non c’è nessun documento poi da cui questo possa essere in qualche modo stralciato. Resta qualcosa di più di un perché è un dovere, però resta intrinseco in questa seconda paternità, seconda genitorialità; potremmo dire, parafrasando il titolo di un famoso romanzo di Pontiggia, nati due volte.
I genitori adottivi possono scegliere, dicevo prima, i modi e i termini, ma, raggiunta l'età dei venticinque anni, l'adottato può presentare al tribunale per i minorenni un'istanza per essere autorizzato ad avere accesso alle informazioni sulla propria origine. L'adottato maggiorenne, ma di età inferiore ai venticinque anni può presentare l'istanza solo se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica. In entrambi i casi, l'accesso è autorizzato se il tribunale valuta che esso non comporti grave turbamento all'equilibrio psicofisico del richiedente. Al fine di effettuare tale valutazione, il giudice procede all'audizione delle persone di cui ritenga opportuno l'ascolto e può assumere tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, peraltro l'interessato viene ascoltato direttamente e potrebbero eventualmente essere ascoltati anche i suoi genitori adottivi. Altre informazioni possono essere raccolte nei modi ritenuti opportuni. Questa valutazione ha carattere discrezionale e non deriva dall'applicazione di criteri automatici, ma è la complessità di questa operazione che già mette profondamente a rischio lo stesso segreto.
Una particolare evoluzione vi è stata per quanto concerne l'accesso alle informazioni sull'identità delle madri biologiche che al momento della nascita abbiano manifestato la volontà di non essere nominate, che è poi l'oggetto specifico del nostro provvedimento. In questi casi, piuttosto frequenti, la legge non consente al tribunale di autorizzare l'accesso alle informazioni da parte del figlio. Per questo, il certificato di assistenza al parto e la cartella clinica sono rilasciate con particolari cautele, volte ad impedire l'identificazione della madre. A seguito di una pronuncia, cui hanno fatto riferimento tutti i colleghi nel pomeriggio, della Corte europea dei diritti dell'uomo del settembre 2012, sul famoso caso Godelli, è stata sollevata la questione di costituzionalità della normativa italiana e la Corte costituzionale, nel novembre 2013, ha dichiarato perlomeno parzialmente illegittima la norma in questione, soprattutto nella parte in cui non prevede che il giudice, su richiesta del figlio, possa interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. In pratica, la Corte suprema ha seguito il monito della Corte di Strasburgo, che aveva condannato lo Stato italiano perché la nostra normativa non era stata ritenuta idonea a stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa, ovvero tra l'interesse della madre a poter scegliere di partorire nell'anonimato e quello dei figlio, detenuto adulto, a conoscere le proprie origini biologiche.
In un'epoca in cui i diritti individuali sono in qualche modo l'ossatura portante di gran parte del dibattito che si svolge in queste Aule e che si svolge comunque nei contesti specifici, noi assistiamo sempre di più al tema che i diritti individuali possono confliggere tra di loro e che, quindi, la responsabilità importante è quella del bilanciamento dei diritti individuali. Infatti, quando ci si dimentica della dimensione della relazione di responsabilità reciproca che ogni diritto comporta, la possibilità che questo confligga è sempre più frequente e, sempre più frequentemente, noi ci troveremo a dover gestire situazioni di questo genere. I giudici, infatti, su richiesta dei figli, dovranno interpellare le madri che avevano richiesto l'anonimato per verificare se vogliono mantenere la propria riservatezza oppure se nel tempo abbiano cambiato idea e vogliano uscire dalla segretezza nella quale avevano partorito. Spetta ad una nuova legge, per l'appunto quella che stiamo discutendo, definire meglio il procedimento, che nella pratica assicuri lo svolgimento di questi contatti nella massima riservatezza. Ed è quello che cerca di fare il nostro provvedimento, che cerca di chiarire che cosa ne sarà delle domande presentate dai figli di madri che abbiano partorito nell'anonimato e siano nel frattempo decedute.
Anch'io trovo francamente imbarazzante il caso di una donna deceduta e che quindi non sia in grado di dare ragione di se, delle proprie motivazioni, delle proprie difficoltà, di quella che è stata in qualche modo la propria proiezione in un futuro che non era soltanto il suo futuro individuale e non era nemmeno solo il futuro del figlio partorito, ma anche l'eventuale futuro dei fratelli, il futuro di un marito, il futuro di un contesto familiare diverso. Questa donna non potrà dare ragione di se e mi sembra che imporlo possa costituire davvero una flagrante trasgressione del suo diritto individuale nei confronti dei quali lo Stato aveva sottoscritto un accordo. Accade spesso, infatti, che le persone adottate abbiano il desiderio di ricercare anche, e a volte addirittura esclusivamente, fratelli e sorelle eventualmente anch'essi adottati. Immaginiamo la complessità di una rete in cui l'adottato e l'adottante sono più di uno, una donna che ha dato in adozione più figli, una pluralità di situazioni che si interfacciano e una difficoltà di ricondurre queste situazioni a un equilibrio, un bilanciamento dei diritti di tutti compresa la complessità delle storie individuali che ognuno di loro avrà già messo in conto, tenendo conto che saranno trascorsi almeno venticinque anni.
L'accesso alle informazioni sulle origini può avere una differente attuazione concreta nei casi di adozione nazionale o internazionale in funzione della legislazione e delle prassi dei diversi Paesi di origine, dove le informazioni possono essere raccolte, trasmesse e conservate in modo più o meno completo. Ai sensi della legge sulle adozioni comunque l'ente autorizzato che ha ricevuto l'incarico di curare la procedura di adozione internazionale raccoglie dall'autorità straniera la proposta di incontro tra gli aspiranti all'adozione ed il minore da adottare, curando che sia accompagnata da tutte le informazioni di carattere sanitario riguardanti il minore dalle notizie riguardanti la sua famiglia di origine e le sue esperienze di vita. Non dimentichiamo infatti che sempre di più noi troviamo che il bilanciamento dei diritti non è soltanto quello dei diritti individuali ma anche quello degli assetti normativi tra persone provenienti da diversi paesi e non sempre questi paesi sono i paesi europei.
La sentenza n. 278 del 2013 afferma che la Corte europea ha censurato la normativa italiana in rapporto a circostanze diverse rispetto all'accesso alle informazioni non identificative, le quali ultime peraltro restano disciplinate in modo confuso, si dice, al punto da avere generato prassi applicative assai differenziate. Il punto vero è che andrebbe valutato come elemento fondamentale per la costruzione della personalità dei nuovi approdi della scienza psicologica anche il bisogno di ricostruire la propri identità biologica. Insisto che parlare di identità biologica così nettamente separata dall'identità culturale è un assioma che non può darsi nella vita di ognuno di noi, perché ognuno di noi è strutturalmente costituito da un corpo e da una parte che potremmo dire sia fatta dalla sua anima, dalla sua psicologia, dai suoi affetti, dalle sue considerazioni, dai suoi valori. Con la sentenza 278 la Corte costituzionale torna sul tema del diritto del figlio adottato a conoscere le proprie origini e risolve la delicata questione del bilanciamento tra tale diritto e il diritto della madre a rimanere anonima con una sentenza additiva di principio con la quale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui tale articolo non prevede – attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre. E questo è il punto, ma la questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della nostra Costituzione; non è in ballo soltanto un articolo, quell'articolo per esempio che prevede la sostanziale identità dei figli nati dal matrimonio con i figli nati fuori dal matrimonio sostenendo proprio che lo statuto di figlio è tale indipendentemente da dove lui possa essere nato. Certamente anche la collega Nicchi prima indicava un giusto punto anche di contatto con quelli che sono poi nel diritto a conoscere le proprie origine biologiche anche il tema importantissimo della procreazione medicalmente assistita, soprattutto nel caso della fecondazione eterologa dove anziché offrire una famiglia a un minore abbandonato ci si pone di fatto in concorrenza con la stessa adozione, procurando un figlio a una coppia o magari a un single che non ne ha, ma un figlio già privato, per opera della legge, del diritto che nell'ordinamento italiano è riconosciuto dall'articolo 1 della legge 189; mediante questa procedura infatti il figlio viene generato da due estranei e quando viene su richiesta di una coppia sottoposto ad una filiazione ex lege di un genitore biologico a un genitore puramente legale.
Di qui l'esigenza di una simulazione legale di filiazione naturale, che, oltre a privare il nato dello di figlio nei confronti del genitore biologico e a esonerare quest'ultimo dalla responsabilità genitoriale, è giunta, in alcuni ordinamenti, fino al divieto di conoscere il proprio genitore genetico. Il donatore di gameti, infatti, specialmente nelle prime legislazioni che hanno dato forza di legge all'eterologa, era legalmente coperto da un anonimato assoluto. Quindi, noi, accanto al tema del genitore biologico, dovremo presto provare a confrontarci con il tema del genitore genetico, ma il problema è sempre quello di risalire alle origini, e non sarà poca cosa.
Vale la pena, quindi, per procedere, che si faccia un'attenta distinzione concettuale fra il diritto allo di figlio e il diritto di conoscere le proprie origini . Nessuno ignora che questo dato di conoscenza sia un dato estremamente sensibile. Il fatto che io sappia di essere figlio biologico di Tizio, con una storia di Tizio piuttosto che di Caio, non è un dato che nella mia mente si archivia come un dato di conoscenza: sono nato a Roma piuttosto che a Napoli, piuttosto che a Caltanissetta. È un dato che mi pone immediatamente in una relazione di filiazione con quella persona. Questa donna è mia madre: ha la sua storia, ha i suoi problemi, ha avuto le sue difficoltà, ma è mia madre. È possibile immaginare che questa relazione si risolva semplicemente nella conoscenza ? Io so che è mia madre. E che ne è di quella relazione ? Naturalmente – perché, tutto sommato, abbiamo tutti una natura umana – la persona cercherà di riandare a chi è quella donna.
Lo farà con sentimenti di gratitudine, lo farà con sentimenti di dolore, lo farà con sentimenti di rancore, lo farà con sentimenti di sofferenza, lo farà perché se ne vuole prendere cura, lo farà con un senso di vendetta, lo farà come sia, ma la tempesta dei sentimenti umani si attiva nel momento stesso in cui io so che quella donna è mia madre e che quel figlio è mio figlio.
Non è un dato di conoscenza che sussiste di per sé, indipendentemente dalla relazione che si attua. Questo è qualcosa che la legge deve prendere in considerazione, e non solo ai fini patrimoniali. Infatti, è vero che la legge tende ad escludere che questo dato di conoscenza possa avere ripercussioni e implicazioni sul fatto patrimoniale, ma è un bel dire che io sono figlio di questa madre o anche figlio di questo padre e questo cosa significherà ? Oppure, che questa è mia madre e, magari, versa in condizioni di difficoltà: questo in che misura interpella la mia coscienza ?
Smettiamo di pensare che questo dato possa essere un dato freddo: questo è un dato caldo, un dato caldissimo, un dato che cambia la storia delle relazioni di una persona; la cambia in ordine ai genitori adottanti e la cambia in ordine a quelli che saranno i suoi rapporti successivi, compreso il suo stesso modo di vivere la genitorialità. Stiamo parlando del più viscerale dei rapporti che esistano, di quel rapporto che fa dire di una persona che è un figlio snaturato, che è una madre snaturata, perché questo è il lessico e il lessico riflette una saggezza popolare che è il rimando immediato alla responsabilità di cura.
Si può divorziare dal marito, si può divorziare dal proprio compagno, ma non si divorzia dal proprio figlio, perché è proprio la forza con cui noi oggi rivendichiamo l'importanza della genitorialità biologica che ci dice come questo rapporto sia ricostruibile e ripercorribile nel tempo, anche a distanza di molti e molti anni, come sono ripercorribili e ricostruibili anche i rapporti con i fratelli.
La procreazione non è tutelata solo come un fatto nell'ambito degli eventi biologici, ma come un fatto dotato di valore culturale, per cui si riconosce giusto ed opportuno che il vincolo biologico sia anche vincolo sociale e i genitori non siano solo procreatori, ma genitori, al tempo stesso, biologici e sociali. In questa logica personalista, l'attuazione immediata del diritto, in questo caso, allo stato di figlio consente alla persona di vivere senza che la dissociazione tra identità ed origini, indotta proprio dall'attribuzione forzata di uno stato non corrispondente alla realtà biologica, crei una scissione interiore e conduca ad un'esistenza segnata da un sentimento di incompiutezza o di inautenticità, in conflitto tra biologia e biografia. Abbiamo presentato degli emendamenti al testo del provvedimento e ci auguriamo che il Governo, così come i colleghi della Commissione, possano prenderli attentamente in esame.
Sono degli emendamenti che partono dal punto di vista della delicatezza estrema del tema che stiamo trattando, della necessità e della complessità del bilanciamento dei diritti. Insisto: oltre al bilanciamento del diritto madre-figlio, c’è anche il bilanciamento dei fratelli e probabilmente anche il bilanciamento del diritto del padre, del padre biologico, del padre sociale, del padre genetico, di quello che si vuole. Ci troviamo davanti ad una complessità esistenziale nella quale ognuno di noi deve entrare in punta di piedi, a garanzia di vincoli affettivi che – quelli sì – testimoniano della profonda identità con cui una persona assume la conoscenza. Ma davvero riteniamo di risolvere tutto mandando a casa un assistente sociale ? Non me ne voglia il collega, ma la formazione degli assistenti sociali è spesso all'altezza della situazione, ma conosciamo molti casi in cui non è all'altezza della situazione, quindi, meriterà una specificità ulteriore.
Giustamente si è detto prima che la domanda può essere posta una volta sola. Ma davvero pensiamo che, in una volta sola, in qualche modo, uno possa esaudire la complessità di trovarsi faccia a faccia con la propria storia, con il proprio passato, faccia a faccia con le implicazioni che questo ha per il futuro ? La dimensione temporale è una dimensione esistenziale molto forte per ognuno di noi e, quindi, tutto questo richiede una paziente saggezza, una paziente saggezza che è fatta di rispetto vero per l'identità delle persone e non sia mai che una astratta voglia di conoscenza presupponga che la conoscenza in sé non abbia vita propria e, una volta conosciuta, non diventi un organizzatore della condotta di una persona, un organizzatore delle sue relazioni, un organizzatore dei suoi giudizi e dei suoi giudizi di valore.
Tutto questo noi ci auguriamo che venga fuori nel dibattito e ci auguriamo che questo progetto di legge, che nasce, evidentemente, con il desiderio di prestare un servizio ai figli e alle madri, non riduca questo servizio, non presuma di ridurre questo servizio alla semplice conoscenza del dato biologico. Non esiste, infatti, semplicità nel dato biologico, ma esiste una complessità che si carica automaticamente – che se ne voglia pensare – di valenze affettive, morali e valoriali.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Palese. Ne ha facoltà.
ROCCO PALESE. Grazie, signora Presidente, chiedo l'autorizzazione di poter consegnare il testo del mio intervento per la pubblicazione in calce al resoconto.
PRESIDENTE. Autorizzazione accordata, ovviamente
È iscritta a parlare la deputata Fitzgerald Nissoli. Ne ha facoltà.
FUCSIA FITZGERALD NISSOLI. Grazie, signora Presidente. Signor sottosegretario, onorevoli colleghi intervengo anche a nome dell'onorevole Gigli, impossibilitato ad essere presente, per porre all'attenzione dell'Aula alcune questioni che condividiamo come gruppo parlamentare.
Il diritto all'identità personale è garantito dalla Costituzione italiana, ma pure il diritto alla vita e quello alla salute sono oggetto di tutela costituzionale e il nostro ordinamento giuridico, infine, tutela anche il diritto alla riservatezza.
Come districarsi, allora, in questa selva di diritti, se essi si trovano a confliggere in una specifica situazione ? Sono queste solo alcune delle domande che il Parlamento italiano si sta ponendo in questi giorni, mentre esamina il progetto di legge con cui si intende regolare il diritto del figlio non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini biologiche e dare così risposta alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 2012 e al successivo pronunciamento della Corte costituzionale del 2013.
Non si tratta solo di un conflitto di principi, ma di un conflitto potenziale che coinvolge persone drammaticamente reali: madri in difficoltà, nascituri, bambini appena nati e abbandonati (spesso necessariamente), giovani adottati e famiglie che li hanno accolti. Esigenze spesso contrastanti, che possono finire per contrapporsi, creando miscele esplosive.
In Italia la legge n. 184 del 1983 prevede che l'adottato, al compimento dei 25 anni di età, possa accedere alle informazioni relative alla sua identità biologica. Tale possibilità gli è, invece, preclusa ove la madre si sia avvalsa del cosiddetto parto anonimo, consentito dal 2000. Grazie al decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, sono circa 400 all'anno le mamme che si avvalgono della facoltà di partorire in anonimato all'interno degli ospedali. Ciononostante, sono ancora molti, troppi, i casi in cui tale strumento di salvaguardia non è utilizzato dalle madri in difficoltà.
Le cronache, del resto, sono piene di bambini ritrovati fortunosamente, nati a volte sotto il cavolo, più spesso in un deposito di rifiuti, non tutti ritrovati in tempo prima di morire, i più fortunati abbandonati davanti a una chiesa o in una delle culle per la vita aperte in diverse città italiane dai volontari del Movimento per la Vita. Su altri bambini si consuma invece il dramma dell'infanticidio, morti soffocati in una busta di plastica o dentro un cassonetto da cui, solo eccezionalmente, orecchie attente e mani pietose riescono a estrarli vivi.
Su questa realtà, già così fragile, rischia di calarsi, oggi, una nuova legge all'esame in questi giorni del Parlamento, le cui buone intenzioni sono totalmente condivisibili, ma che rischia, involontariamente, di fare danni irreparabili.
La vicenda inizia il suo percorso con la sentenza del 2012, con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato il nostro Paese a seguito del ricorso intentato dalla signora Anita Godelli, che si era vista negare l'accesso alle informazioni riguardanti la madre.
A seguito della sentenza CEDU, il 22 settembre 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, della normativa italiana vigente per la parte in cui non prevede la possibilità per il giudice, su istanza del figlio, di interpellare la madre che ha partorito in anonimato, per accertare, sia pure in condizioni di riservatezza, se essa sia disponibile a un'eventuale revoca dell'anonimato.
Con il nuovo dispositivo all'esame del Parlamento, anzitutto, si estende anche al figlio non riconosciuto alla nascita, compiuti i 25 anni, la possibilità – precedentemente prevista solo per l'adottato – di chiedere al tribunale di accedere alle informazioni che riguardano l'identità dei propri genitori biologici, ove la madre abbia revocato la volontà di anonimato che aveva dichiarato alla nascita del figlio.
Questa prima disposizione, ovviamente, può solo essere accolta favorevolmente e non crea problemi di sorta, visto che l'accesso alle informazioni non produce comunque mutamenti dello stato civile, né legittime rivendicazioni di natura patrimoniale o successoria.
Problemi possono già insorgere per l'automatica estensione della possibilità di conoscere le proprie origini se la madre biologica è deceduta. Rimarrebbe, infatti, il problema della conseguenze di tipo psicologico ed esistenziale che potrebbero prodursi sulla famiglia superstite, senza considerare il fatto che la legge sulla prevede una forma di tutela del diritto alla riservatezza anche dopo la morte.
Ancora più problematica, infine, è la previsione per cui, in assenza di decesso o di revoca volontaria dell'anonimato, il figlio non riconosciuto alla nascita può, al pari dell'adottato, rivolgere istanza al tribunale dei minorenni per conoscere l'identità dei genitori biologici.
In tal caso, il tribunale è tenuto a contattare la madre, per verificare se intenda mantenere l'anonimato. È previsto che il tribunale lo faccia cercando di assicurare alla procedura la massima riservatezza e avvalendosi preferibilmente dei servizi sociali, ma non dovrà farlo.
Nel contattare la madre per notificarle l'istanza e chiederle se autorizza la richiesta, rinunciando all'anonimato, il tribunale dovrà tenere conto della sua età e dello stato di salute psico-fisica, nonché delle sue condizioni ambientali, familiari e sociali, cercando di rispettarne la dignità, ma dovrà comunque farlo. Ove la madre confermi la sua volontà di mantenere l'anonimato, il tribunale autorizzerà solo l'accesso alle informazioni di carattere sanitario, con particolare riferimento alle malattie geneticamente trasmissibili.
In conseguenza di quanto sopra, infine, la nuova legge modifica il codice della con riguardo al certificato di assistenza al parto, e il regolamento sullo stato civile, inserendo un nuovo comma sulle informazioni da rendere alla madre e sui dati anamnestici che debbono essere raccolti dal personale sanitario.
La Consulta ha affermato che il diritto a conoscere le proprie origini e a ricostruire la propria genealogia costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, visto che il bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale.
Oltre che con l'articolo 2 della Costituzione, secondo la Corte, l'attuale normativa italiana contrasta anche con l'articolo 3 in relazione al principio disuguaglianza, in quanto discriminerebbe i nati da parto anonimo rispetto agli adottati la cui madre non abbia dichiarato alcunché.
Non ci permettiamo di obiettare in alcun modo a tali valutazioni, del tutto condivisibili, anche se la Corte costituzionale in una precedente sentenza (n. 145 del 2005) era pervenuta a conclusioni opposte sulla irretrattabilità dell'anonimato. Osserviamo, tuttavia, sommessamente che avrebbero forse dovuto essere considerati altri principi, pure costituzionalmente tutelati, quali il diritto alla salute, con riferimento alle condizioni in cui si verifica il parto e, soprattutto, il diritto alla vita del nascituro, senza dimenticare il già menzionato diritto alla riservatezza per la madre.
Ci sia consentito dubitare che il modo migliore per contemperare tutte queste esigenze sia quello di vedersi arrivare all'improvviso, a distanza di venticinque anni, un assistente sociale – peraltro, solo preferibilmente – che bussa alla tua porta. Per una madre che eroicamente ha deciso di portare a termine una gravidanza difficile, mentre tutto intorno a lei la spinge alla scelta dell'aborto, e che, dopo aver partorito, ha sofferto distaccandosi da suo figlio, non è certamente il modo migliore per riaprire una ferita che solo a fatica si era forse rimarginata.
E cosa accadrà alle madri di oggi in difficoltà ? Cosa faranno, se nel compiere una scelta drammatica dovranno ora considerare anche la possibilità che un giorno qualcuno le venga a rintracciare ? Siamo sicuri, inoltre, che la riservatezza potrà essere totalmente garantita o che, invece, nelle pieghe della burocrazia e soprattutto nei piccoli centri, la rete del riserbo non possa avere qualche smagliatura e sconvolgere quindi non solo l'equilibrio psichico ed esistenziale di una persona, ma quello di una intera famiglia ? Non vi è dunque il rischio che l'aborto e l'infanticidio finiscano per essere involontariamente promossi ?
Sono domande per le quali non abbiamo risposte certe e siamo convinti che anche la Corte non ne abbia. Per questo, solo per questo, riteniamo opportuno invitare ancora il Parlamento a considerare la possibilità di una soluzione diversa, quale quella di creare una sorta di lista d'attesa, senza scadenza, in cui potrebbero inserirsi le madri che hanno scelto di uscire dall'anonimato, permettendo alle due richieste di incontrarsi, ma solo quando arrivano a coincidere.
Naturalmente, la lista potrebbe essere gestita dal Garante per la protezione dei dati personali. La possibilità di revocare l'anonimato dovrebbe ovviamente essere incoraggiata con campagne di informazione dirette alle donne per far loro conoscere che esiste oggi la possibilità di revocare la richiesta dell'anonimato, ma dovrebbe restare esclusivamente su base volontaria. Il Garante per la protezione dei dati personali si farebbe carico di comunicare immediatamente l'avvenuta revoca dell'anonimato al tribunale competente presso il quale il bambino abbandonato alla nascita o comunque adottato ha depositato la sua istanza di conoscere le proprie origini biologiche.
In questo modo ai figli che desiderano conoscere le loro origini biologiche non sarebbe tuttavia negata la possibilità di essere immediatamente informati, qualora questa opportunità venisse spontaneamente ad aprirsi. Allo stesso tempo, però, il diritto alla riservatezza sarebbe totalmente garantito e la scelta dell'anonimato potrebbe continuare a essere effettuata in tutta tranquillità dalle gestanti in difficoltà.
Il nostro gruppo, aderendo alle sollecitazioni di importanti come l'Associazione delle famiglie adottive e affidatarie e il Movimento per la vita italiano, si è fatto carico di presentare alcuni emendamenti che vanno in questa direzione. Ci auguriamo che il relatore e il Governo vogliano attentamente considerarli, senza chiusure preconcette, in ragione della complessità dei problemi che si muovono attorno al provvedimento in esame e nell'interesse di tutti i soggetti coinvolti, a cominciare da quelli più fragili, come i nascituri e i neonati abbandonati.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Bossa. Ne ha facoltà.
LUISA BOSSA. Signora Presidente, questa proposta arriva in Aula, dopo aver percorso tutto il suo cammino nelle stanze del silenzio, cioè in quello strano luogo dove finiscono le proposte di cui non si discute mai, e dopo aver fatto, poi, il suo laborioso percorso nelle Commissioni. Siamo in Aula e siamo ancora solo agli inizi. Ne discutiamo, votiamo, approviamo e, poi, si ricomincia nell'altro ramo del Parlamento.
Intanto, però, veniamo superati dagli eventi. La Corte costituzionale è intervenuta su questa tema prima di noi e ci ha indicato come necessaria la strada che questa proposta intende percorrere; lo stesso è successo con la Corte europea dei diritti dell'uomo e con altri livelli della giurisdizione territoriale italiana: sentenze che già consentono, ad oggi, di fare quello che noi qui vogliamo normare.
Insomma, siamo in ritardo e rischiamo di far sembrare vecchie e inutili anche alcune discussioni, che pure si continuano a trascinare come se nulla fosse successo.
Ma partiamo dal tema. Con questa proposta ci riferiamo ai bambini adottati senza essere stati riconosciuti alla nascita, cioè quelle persone che sono state date in adozione dopo che la mamma naturale ha chiesto di partorire in anonimato. Questa possibilità è un diritto. Viene riconosciuto dal codice civile, all'articolo 250, e da un decreto del Presidente della Repubblica sull'ordinamento dello stato civile. Si tratta, signora Presidente, di un diritto sacrosanto, incancellabile, che nessuno deve mettere in discussione perché la possibilità di partorire nell'anonimato è un elemento di civiltà del nostro ordinamento. La donna ha diritto a un parto segreto e anonimo e ha diritto di scegliere, entro dieci giorni dalla nascita, se riconoscere o no il suo bambino. Non ho bisogno di aggiungere, a maggior ragione da donna e da mamma, quanto deve essere straziante questa scelta. Quanto dolore ! Quanta sofferenza ! Si tratta di momenti drammatici. Possono essere tanti i motivi che spingono una donna a una scelta tanto lacerante. In ogni caso, qualunque sia la ragione, è intoccabile il diritto alla determinazione della donna. Dicevo prima, una conquista di civiltà. È uno strumento, peraltro, utile anche a far diminuire il ricorso all'interruzione di gravidanza. Con la possibilità di partorire in anonimato si offre alla donna anche un'altra possibilità, quella far nascere il bambino, non riconoscerlo certo, ma lasciarlo in adozione e dargli comunque un destino di dignità e di vita. È, dunque, un diritto, una conquista, un elemento di civiltà ed è irrinunciabile.
Tuttavia, signora Presidente, accanto a questo diritto irrinunciabile esiste anche un altro sistema di diritti, che è quello che riguarda il figlio. I diritti della mamma e i diritti del figlio: esistono entrambi, questo vorrei dire a quelli che mi hanno preceduto, e vanno combinati tra loro. Il nostro ordinamento, ai figli adottivi riconosciuti però alla nascita, offre la possibilità di risalire alle proprie origini biologiche, cioè di conoscere l'identità dei genitori naturali. Possono farlo dopo aver compiuto i venticinque anni di età. Ai figli adottivi non riconosciuti alla nascita, quindi partoriti in anonimato, questa possibilità non è data, nel senso che possono accedere alle informazioni solo dopo novantanove anni, il che equivale a dire che non possono. In sostanza, gli adottati riconosciuti possono risalire alle proprie origini biologiche; gli adottati non riconosciuti, invece, si vedono negata ogni possibile ricostruzione della propria identità.
Perché questa possibilità viene negata ? Perché, secondo la normativa vigente, il diritto di venire a conoscenza della propria identità biologica confligge con quello della donna che, al momento del parto, non acconsentì ad essere nominata. In altre parole, il diritto della donna che ha partorito in anonimato, a conservare questo è oggi superiore all'interesse del figlio a conoscere le proprie origini. Si capisce il senso di questa norma nella volontà di proteggere la scelta della mamma, di conservare il suo diritto nel tempo, di tutelare quel patto che ha firmato con lo Stato. Tuttavia, questa rigidità, la cristallizzazione di cui si scrive nella sentenza della Corte costituzionale, chiude tutte le strade, blocca tutte le possibilità, di fatto cancella altri diritti da tutelare. Ci sono migliaia di figli che desiderano profondamente avere l'opportunità di connettersi alle proprie radici. Ho incontrato decine di queste persone, provando grande emozione, diventata perfino commozione. Persone di straordinaria dignità, esposte come la ruota ai quattro venti della vita, come succede per chi ha le radici fuori dalla terra e non ha punti di ancoraggio.
Sofferenza vera, ma forza incredibile. Mi sono commossa perché, pur avendo avuto la fortuna di crescere con i miei genitori naturali, ho sentito uno struggimento, un vuoto, quella voglia di vivere e quel dolore permanente che anima chi ha vissuto l'esperienza dell'abbandono.
I bambini non riconosciuti alla nascita, pur trovando quasi sempre famiglie accoglienti, calorose, generose, che li allevano come figli propri, e mai gli fanno sentire il peso di quel dramma, vivono per sempre il legame con l'ignoto. Quella cicatrice – me lo hanno detto guardandomi negli occhi le persone che ho incontrato – non si sana. Ripeto: non si sana, signora Presidente. Rimane lì, vivida, qualche volta più sanguinante, altre volte dormiente, ma mai chiusa.
L'adulto che è stato bambino adottato vuole, prima o poi, conoscere la verità, sapere chi sono, ritrovare i propri genitori naturali. Quello a cui questa possibilità è negata per sempre, replica all'infinito l'abbandono iniziale. Non sarò e non sono mai figlio di mia mamma. Non potrò mai fare luce su una zona senza ricordi, senza storia che sta all'origine della mia vita. È una mutilazione intollerabile. Inoltre, conoscere le proprie origini non è solo un bisogno emotivo. Si deve conoscere anche il quadro genetico in ordine alle malattie, alle patologie, alle storie familiari. Il tema, dunque, è: come mettere in relazione tra loro il diritto della donna a partorire in anonimato e a conservare questo e il diritto del figlio non riconosciuto e dato in adozione di accedere alle informazioni sulle proprie origini biologiche ?
Si tratta di operare una mediazione che non violi né l'uno né l'altro diritto ma trovi, nella loro combinazione, una strada che li preservi entrambi. È a questo tentativo che lavora la proposta di legge ed è a questo tentativo che ha lavorato con acutezza e profondità la Commissione, la cui Presidenza e i membri ringrazio vivamente, mettendo a confronto, a volte anche con asprezza, i diversi punti di vista.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
LUISA BOSSA. Ho concluso, Presidente. Si dirà: ma perché una donna che ha partorito in anonimato dovrebbe, dopo tanti anni, far cadere il velo e dire sì ? Non so dire perché. So dire, però, che il presidente per il tribunale dei minorenni di Roma, la dottoressa Melita Cavallo, ha dichiarato proprio sabato scorso a – andatevelo a rileggere – che su 15 donne interpellate, 13 hanno detto sì. Hanno dato il loro consenso alla ricongiunzione e le altre due, pur avendo detto «no», hanno dato l'assenso almeno a conoscere le notizie a fini medici.
Presidente, anche l'articolo 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo si pronuncia in questo senso con chiarezza, dicendo che «la conoscenza delle origini è, per ognuno, un elemento essenziale del processo identitario, elemento essenziale quindi un diritto». Fare una legge, dunque, non è solo opportuno, è addirittura necessario. Arriviamo tardi, sì, arriviamo tardi su un tema complesso. Ma possiamo intervenire, dare certezze, fissare un principio, colmare un vuoto, aprire una finestra di umanità, accendere una luce nella vita di tante persone. È un nostro dovere: facciamolo e facciamo presto.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Miotto. Ne ha facoltà.
ANNA MARGHERITA MIOTTO. Grazie Presidente, è un breve intervento soprattutto per rendere conto all'Aula di un approfondimento che è stato svolto nella XII Commissione Affari sociali in sede consultiva. Come hanno già compiutamente esposto i relatori e le colleghe del gruppo del Partito Democratico che sono intervenute, la sentenza della Corte ci sollecita ad introdurre le opportune modifiche all'articolo 28 della legge n. 184 del 1983, innanzitutto per prevedere la revocabilità dell'anonimato espresso dalla donna al momento del parto ed, inoltre, per normare le modalità per effettuare l'interpello al fine di accertare la permanenza o meno della volontà a conservare la condizione di anonimato.
Nella necessaria attenzione che noi dobbiamo avere per garantire il bilanciamento degli interessi in gioco – lo ha ricordato anche il sottosegretario, poco fa – appare utile prestare particolare attenzione ad alcune fattispecie che nel testo compaiono e sulle quali è stata rilevata l'opportunità di prevedere delle correzioni. La prima riguarda la possibilità per la persona incapace di essere sostituita dal legale rappresentante per accedere, non solo alle informazioni di carattere sanitario, ma anche a quelle relative all'identità dei genitori biologici; diritto che potrebbe essere ascritto ai diritti personalissimi e, perciò, non trasferibile al legale rappresentante. La seconda riguarda la possibilità di accesso all'identità della madre deceduta per il figlio o la figlia non riconosciuti alla nascita nei confronti della madre che abbia chiesto di non essere nominata. In tal caso, si ritiene che non si possa introdurre una sorta di silenzio assenso. In terzo luogo, il ricorso al personale dei servizi sociali previsto dal nuovo comma 7- come preferibile si ritiene invece debba rappresentare l'ordinaria modalità a cui il tribunale ricorre nell'esercizio dell'interpello. Infine, andrebbe individuata una modalità che tuteli maggiormente la riservatezza nell'individuazione delle procedure che orientano l'interpello per le dichiarazioni di anonimato rese in un periodo antecedente l'entrata in vigore del provvedimento che ci apprestiamo ad approvare. Ciò per non venir meno al patto fra la donna che ha fatto ricorso al parto anonimo ed il Servizio sanitario che si è fatto garante dell'anonimato. Su tali questioni io auspico l'attenzione del relatore.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore Berretta, per quattro minuti.
GIUSEPPE BERRETTA, . Grazie Presidente, mi sembra utile, anche alla luce di alcuni interventi che ho testé ascoltato, ribadire che la Corte costituzionale ha affermato un principio; dichiarando l'illegittimità dell'articolo 28, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre, su richiesta del figlio, ai fini di un'eventuale revoca di tale dichiarazione. Credo che nell'approcciare questo tema che è stato oggetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale si debba rispetto per ciò che la Corte ha deciso e, al tempo stesso, rispetto per il ruolo che il legislatore deve esercitare. Allora, il potere del legislatore non può essere arbitrario, non lo deve essere mai, a maggior ragione non lo può essere in presenza di una pronuncia della Corte che segnala un problema, una incongruenza della legislazione rispetto a principi fondamentali, a diritti fondamentali della persona. Perciò, tutte le ipotesi che si risolvono in un aggiramento di ciò che la Corte ha ritenuto sia necessario per garantire il diritto alla riservatezza sarebbero davvero un errore e una lesione della stessa funzione che il potere legislativo deve esercitare e a cui la stessa Corte rinvia.
Perciò, alcune considerazioni che sono state fatte dalla collega Fitzgerald e da altri non mi trovano consenziente, come peraltro l'idea stessa di un regime transitorio che distingua le posizioni è evidentemente in contrasto con l'impostazione della Corte. Cosa diversa è prevedere una fase transitoria in ragione della modifica dell'assetto normativo che consenta un'eventuale conferma della volontà. Si tratta di fattispecie diverse. La fattispecie oggetto della tutela però è la medesima: il diritto all'interpello deve essere garantito in maniera uguale a tutti i soggetti, a prescindere dalla data del parto e a prescindere dal momento in cui è stato posto l'anonimato, perché così ci dice la Corte.
Il caso che ha affrontato la Corte era evidentemente un caso che risaliva a un momento antecedente e per il quale si è ritenuto fosse necessario modificare l'assetto normativo e dichiarare l'illegittimità parziale della disciplina.
L'ultima considerazione, signor Presidente, è riferita ai servizi sociali. Il «preferibilmente» è proprio indicativo dell'esigenza di avvalersi, fondamentalmente, nella stragrande parte dei casi, nella quasi totalità, lasciando una piccola porta frutto delle considerazioni che sono state svolte dai presidenti dei tribunali dei minorenni e che ci hanno rassegnato un rischio connesso a fattispecie come la madre detenuta o la madre all'estero. Si tratta di ipotesi nelle quali, obiettivamente, ancorare necessariamente la competenza in capo ai servizi sociali renderebbe difficile se non impossibile l'avvio di questo contatto. Peraltro, nella stragrande parte dei casi sono i presidenti dei tribunali, direttamente che operano il colloquio e che direttamente incontrano la madre. Allora, la cautela è stata massima sino ad oggi e noi vogliamo che con la regolamentazione che verrà dettata sia ancor di più tutelata la figura della madre con il massimo rispetto e la massima attenzione che secondo me ha diritto a ricevere.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
COSIMO MARIA FERRI, Signora Presidente, anche io ho ascoltato con interesse i vari interventi però non possiamo scostarci dal dettato della Corte costituzionale e quindi, come dicevo all'inizio, questo deve essere il punto di partenza comune. In alcuni interventi, però, le proposte che sono state suggerite in qualche modo violano il dettato costituzionale. La Corte ha sottolineato come il relativo bisogno di conoscenza rappresenti uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale ma che comunque questo diritto di conoscenza debba essere effettivo e debba essere riconosciuto anche negli ordinamenti interni. Quindi, sono elementi affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche a evitare che il suo esercizio si ponga in collisione rispetto anche ad altre norme, quali quelle che disciplinano il diritto all'anonimato della madre che coinvolgano, come si è detto, esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita. Quindi, un punto di equilibrio è stato qui trovato e ben vengano anche altri suggerimenti però l'equilibrio deve essere quello: quindi, da una parte il diritto del figlio e dall'altro quello della madre a mantenere l'anonimato. Penso che un testo più equilibrato sia più difficile trovarlo. Comunque anche in sede emendativa il Governo, laddove ci fossero soluzioni che vanno in questo senso, non è precluso a modifiche.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della Relazione, ai sensi dell'articolo 37 della legge 30 luglio 2002, n. 189, sulle azioni adottate per la gestione dei flussi migratori e sull'impiego di lavoratori immigrati in Italia, nel periodo ottobre 2013-aprile 2015, approvata dal Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea .
Avverto inoltre che le eventuali risoluzioni devono essere presentate entro il termine della discussione.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione.
Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Laura Ravetto, Presidente del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'Accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
LAURA RAVETTO, Signora Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, è la prima volta dalla sua istituzione che il Comitato Schengen presenta una Relazione al Parlamento, approvata il 7 maggio scorso dal Comitato e trasmessa l'8 maggio alla Presidenza di Camera e Senato, l'esame della quale impegna oggi questa Assemblea, dando così attuazione a quanto previsto dall'articolo 37 della legge 30 luglio 2002, n. 189.
Preannuncio da subito di aver depositato una risoluzione condivisa in seno al Comitato Schengen per impegnare il Governo sul tema specifico dell'applicazione dell'articolo 17 del cosiddetto regolamento di Dublino III, come preciserò meglio nel corso del mio intervento.
Alla luce delle nuove emergenze che hanno coinvolto l'Italia e l'Europa su tali problematiche, il Comitato Schengen ha assunto un ruolo di baricentro nell'interlocuzione tra Parlamento e Governo in materia di immigrazione e asilo e nelle altre politiche connesse all'Accordo di Schengen e alla Convenzione Europol.
La presente Relazione al Parlamento riepiloga le principali problematiche affrontate finora in ordine alle azioni messe in campo per la gestione dei flussi migratori. La Relazione in esame delinea, inoltre, alcune proposte da sottoporre al Parlamento per impegnare il Governo sulle decisioni da assumere in sede nazionale e europea.
In questa legislatura, il Comitato Schengen ha svolto dalla sua costituzione – avvenuta il 15 ottobre 2013 – 55 sedute, con audizioni di Ministri (esteri, interno, lavoro, giustizia, salute, politiche agricole, istruzione e università, sviluppo economico, ambiente), sottosegretari (delegato alla sicurezza della Repubblica, per le politiche UE, al lavoro e politiche sociali), il presidente della Regione Lombardia – audirà il presidente della regione Toscana domani, il presidente della regione Veneto mercoledì 17 giugno 2015, la settimana prossima il presidente della regione Liguria e successivamente la presidente della regione Friuli-Venezia-Giulia e il presidente della Regione Puglia – prefetti, ambasciatori, rappresentanti di organizzazioni internazionali; sindaci (Milano, Torino, Lampedusa, Como, Prato, Udine, Gradisca d'Isonzo, ANCI); i responsabili del controllo delle frontiere marittime e del soccorso in mare (il comandante del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera, il capo di stato maggiore della Marina militare e il comandante generale della Guardia di finanza) ed altri esperti e operatori, nazionali e internazionali, del settore dell'immigrazione.
Nel merito delle questioni emerse, per esigenze di sintesi e rinviando a quanto indicato puntualmente e più diffusamente nella Relazione depositata, evidenzio di seguito specificamente i punti su cui il Comitato si è soffermato con particolare attenzione.
In primo luogo, l'applicazione puntuale dell'articolo 17 del regolamento di Dublino III che, come dicevo, è oggetto della specifica risoluzione che presentiamo ad oggi. Il Comitato è giunto, infatti, alla valutazione per cui un'applicazione più puntuale del regolamento di Dublino permetterebbe di raggiungere buoni risultati.
Il regolamento di Dublino, com’è noto, prevede due categorie di migranti: quelli che sono stati identificati e si trovano nello Stato membro individuato (in base al medesimo regolamento) come competente a identificare le domande di asilo; quelli in attesa di trasferimento, cioè quelli che si trovano nello Stato membro A, ma che, essendo stati identificati come prima entrati nello Stato membro B, sono in attesa di essere trasferiti dallo Stato membro A allo Stato membro B. L'intero impianto si basa sul presupposto secondo cui tutta l'area del diritto di asilo in questione dovrebbe avere un livello di protezione omogeneo.
Il Comitato ha peraltro riscontrato, a questo proposito, che nell'Unione dei 28 Paesi i livelli di protezione e di efficacia dei sistemi di asilo nazionali non sono equiparati. Tra i sistemi di asilo della Svezia e della Germania e i sistemi di asilo della Grecia e della Bulgaria ci sono, infatti, differenze molto rilevanti.
L'articolo 17 del regolamento di Dublino prevede, però, due clausole molto importanti, in deroga ai criteri generali di determinazione sopra detti dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo: la cosiddetta clausola di sovranità e la clausola umanitaria.
In particolare, la clausola di sovranità stabilisce che uno Stato membro, a prescindere dal regolamento di Dublino, può sempre decidere di assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo presentata in frontiera o sul territorio, anche se, in base ai criteri ordinari, la competenza dovrebbe essere attribuita ad altro Stato membro. La clausola c’è, ma è necessario creare la volontà politica per attuarla. La clausola umanitaria dell'articolo 17, comma 2, del regolamento di Dublino, prevede che qualsiasi Stato membro, pur non essendo competente per l'esame della domanda secondo i criteri ordinari, può diventarlo in considerazione di esigenze familiari o umanitarie del richiedente asilo. Ciò riguarda tantissime situazioni che si sono dovute affrontare in Italia: donne in stato di gravidanza che volevano raggiungere il marito che si trovava in altro Stato membro, gravi malattie e soprattutto maggiore interesse del minore non accompagnato, tema di enorme gravità. L'attivazione di questa clausola può essere effettuata anche senza procedere alla modifica di Dublino.
Il Comitato intende, quindi, ribadire l'esigenza di rendere quanto mai flessibile l'applicazione del criterio, confermato nell'ultima versione del regolamento di Dublino (cosiddetto Dublino III), che conferma la responsabilità in capo al primo Stato di ingresso quale principale soggetto competente ad accogliere la richiesta di asilo, a conferma di un approccio al problema che sembra avere privilegiato l'orientamento dei Paesi nordeuropei. Senza modificare il regolamento di Dublino, il Governo italiano potrebbe chiedere quindi ai Governi degli altri Stati membri di attivare le clausole sopraddette. Insistere con i partner europei per l'applicazione di questa deroga solleverebbe l'Italia da numerose incombenze e costi notevoli.
Applicazione della direttiva 55/2001: a fronte dei recenti massicci arrivi di migranti sulle coste italiane e della prospettiva del perdurare di una crisi umanitaria di vaste proporzioni, il Comitato ritiene sia necessario che il Governo richieda alle istituzioni europee, alla Commissione europea e al Consiglio, di applicare la direttiva 2001/55/CE che stabilisce una tutela immediata e transitoria delle persone sfollate con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato sulla base di una reale emergenza.
La tutela transitoria può venire accordata in tutti gli Stati membri allorché il Consiglio abbia adottato, su proposta della Commissione, una decisione che accerti un afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea e che specifichi i gruppi di persone a cui si applicherà la protezione. La durata della protezione temporanea è pari a un anno e può essere prorogata per un periodo massimo di due anni. Sappiamo che il tema è già stato portato ai tavoli europei dal Governo e stupisce che si insista, a livello europeo, per negare questa emergenza.
Il Comitato si è soffermato anche sull'esigenza di andare verso il mutuo riconoscimento del diritto di asilo e, soprattutto, sull'incentivazione degli accordi bilaterali di riammissioni in materia di migrazioni e programmazione europea dei flussi migratori. Si ritiene necessario proseguire sulla strada di una completa attuazione degli accordi di riammissione, che sono stati finora siglati dall'Unione, al fine di assicurare un effettivo ritorno coordinato e finanziato dai cittadini dei Paesi terzi che soggiornano illegalmente nei territori degli Stati membri.
Sembra necessario ripercorrere la conclusione di accordi di partenariato con alcuni Paesi del Nord Africa in cui sia possibile contare su una maggiore stabilità politica. L'instabilità dei Governi di numerosi Stati della sponda sud del Mediterraneo produce la difficoltà di avere interlocutori affidabili e in grado di cooperare nell'attività di controllo e rimpatrio dei migranti. Da questo punto di vista, l'indebolimento del potere centrale in Libia ha comportato la riapertura dei corridoi di transito di migliaia di profughi, provenienti, in particolare, dal Corno d'Africa e, allo stato attuale, solo alcuni Paesi, che hanno sottoscritto con l'Italia accordi bilaterali per il controllo dei flussi regolari, collaborano all'attività di riconoscimento e di rimpatrio dei migranti. Esiste, quindi, un'oggettiva difficoltà ad affrontare questo tema.
Il Comitato ha avvertito la necessità di creare, ove possibile, una nei Paesi di origine, con un investimento su standard e attività di controllo che deve essere considerato un investimento produttivo per l'Europa, creando centri di accoglienza in Paesi di origine, quali Egitto e Tunisia, che, tra l'altro, risultano essere sottoscrittori della Convezione internazionale sulla protezione dei migranti.
Il 27 maggio 2015 la Commissione europea ha presentato un ventaglio di proposte in materia di migrazioni, che prevedono, tra l'altro, di utilizzare il meccanismo di risposta di emergenza, ai sensi dell'articolo 78, paragrafo 3 – le cosiddette «quote» – qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi. In questo caso il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli altri Stati membri interessati. Esso delibera, previa consultazione del Parlamento europeo.
Il numero dei richiedenti asilo in Italia per le nazionalità a cui si applicherebbe la quota europea – se, però, venisse confermato, come è stato relazionato dal Comitato, il criterio del superamento della quota del 75 per cento di domanda accolte in tutti gli Stati membri – potrebbe portare ad una quota che sembrerebbe largamente inferiore ai richiedenti asilo che potremmo condividere nel sistema europeo.
Richiamiamo anche l'attenzione sul problema derivante dal fatto che il diniego, da parte della Commissione per il riconoscimento del diritto di asilo e dello di rifugiato, genera, comunque, un ricorso al giudice ordinario, che si pronuncia nell'arco di due anni, a causa dell'assenza di tribunali specificamente competenti alla definizione di queste sole controversie, tribunali che il Comitato riterrebbe utile istituire in questo periodo in cui si è obbligati a tenere persone in accoglienza, soprattutto se non sono autonome dal punto di vista del reddito, con un onere rilevante per lo Stato.
Il Comitato si è incentrato anche sulla necessità che in accoglienza vi sia trasparenza dei costi e della gestione non emergenziale. Si è indicata l'opportunità di una mappatura dei posti di accoglienza disponibili nei vari Stati membri. Ci sono, in vari Stati dell'Unione europea, dei posti disponibili per fare fronte alle situazioni di emergenza che si creano all'improvviso, ma serve un meccanismo per il quale si possa chiedere che quegli Stati si facciano carico dell'accoglienza. Tutto questo oggi avviene su base volontaria: la ricollocazione dei richiedenti asilo e la condivisione dell'onere sono su base volontaria. Occorrerebbe, secondo noi, lavorare, almeno in alcuni casi, per rendere questo meccanismo più automatico, ma su questo tema, così come segnalato al Comitato, non sembra ancora esserci condivisione a livello europeo.
Vi è, poi, la necessità di definire procedure, concordate a livello europeo, per lo smaltimento delle imbarcazioni sequestrate ai trafficanti di migranti. L'attività svolta dal Comitato ha consentito di appurare, soprattutto con l'audizione del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Galletti, da ultimo svolta, e con quelle dell'ammiraglio Angrisano, comandante della Guardia costiera e capitaneria di porto, e dell'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di Stato maggiore della Marina militare, la necessità di definire, in tempi brevi, una procedura, concordata a livello europeo, per lo smaltimento delle imbarcazioni sequestrate ai trafficanti di migranti. Il Comitato ha potuto accertare in questo senso, al di là delle posizioni espresse dai vari rappresentanti del Governo e istituzionali, che non pare possibile procedere all'affondamento delle imbarcazioni sequestrate, perché questo rappresenterebbe una violazione degli accordi e delle convenzioni esistenti a livello comunitario.
Onorevoli colleghi, proprio ieri abbiamo celebrato il trentesimo anniversario dalla firma del Trattato di Schengen. I compleanni sono occasioni in cui fare bilanci, bilanci degli obiettivi raggiunti rispetto a quelli che ci eravamo prefissati e bilanci degli obiettivi da raggiungere rispetto allo stato attuale delle cose. Se a trent'anni dalla firma degli accordi di Schengen dovessimo tracciare un bilancio basato su cos'era l'Europa e che cosa è diventata, dovremmo avere l'onestà di riconoscere che per molti aspetti il bilancio è un bilancio positivo, almeno relativamente al Trattato di Schengen.
Se, invece, dispiace dirlo, dovessimo tracciare un bilancio di quello che è il presente dell'Europa e il presente delle politiche relative alle frontiere interne ed esterne dell'Europa, forse dovremmo riconoscere che questo non è uno dei compleanni migliori.
«Bilanci» non è una parola che amo, ma l'Europa che abbiamo conosciuto in questi anni ha misurato l'efficacia delle proprie politiche anteponendo i bilanci, i numeri, ai valori. Le cronache di ciò che sta accadendo in queste ore a Ventimiglia, di come l'Europa sta reagendo divisa di fronte a questo esodo massiccio e continuativo, non offrono certo ampi spiragli di speranza ai più convinti europeisti, ma è proprio davanti a queste difficoltà che dobbiamo avere il coraggio di provare a guardare avanti.
L'Europa che con il Trattato di Schengen aveva abbattuto le proprie frontiere interne per fortificare l'identità europeista, chiudendosi nelle proprie ipocrisie e nelle proprie paure, finge di ignorare che la vera sfida comune, che a trent'anni dal Trattato di Schengen ci troviamo ad affrontare, non è tanto quella delle frontiere interne – che sembrava fino a qualche settimana fa un argomento non in discussione – ma quella delle frontiere esterne. Oggi, nel Mediterraneo, sui barconi in cui naviga e naufraga la speranza di centinaia di migliaia di persone, ma naufragano anche le legittime preoccupazioni di milioni di europei, si decide se è giunto il momento di essere un'Europa davvero unita e politica, in grado di dare risposte comuni ad una sfida comune, o se continuare a trincerarsi dietro egoismi e particolarismi che rischiano di far retrocedere il sogno degli Stati Uniti d'Europa a una mera utopia.
A Ventimiglia va in scena la dimostrazione plastica di cosa vorrebbe dire per l'Italia un'eventuale sospensione di Schengen. Trent'anni fa, quando si reagì ad un mondo diviso da muri e paure, decidendo di aprire le frontiere, si fece una scelta di coraggio che ebbe certamente un impatto positivo sull'Europa di allora e sul mondo di oggi. Oggi, a trent'anni da quella firma, Governi e Parlamenti si trovano ad affrontare una sfida epocale: quella di decidere se la risposta a quest'esodo di massa debba essere una risposta unitaria e di unità o se, invece, ancora una volta, trincerarsi dietro particolarismi nazionali che rischiano di far retrocedere l'Europa ad un passato non così remoto
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Gadda. Ne ha facoltà.
MARIA CHIARA GADDA. Signora Presidente, il 14 giugno 1985 Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Olanda per primi hanno prefigurato la creazione di uno spazio comune in Europa, a cui l'Italia e gli altri Paesi hanno progressivamente aderito.
Ricordiamo i trent'anni dalla firma degli Accordi di Schengen e nelle stesse ore assistiamo al drammatico fenomeno dei cosiddetti transitanti: profughi siriani, eritrei, somali, in fuga dalle guerre e dalle dittature, bloccati a Milano, nelle stazioni ferroviarie e ai nostri confini con Francia e Austria, in attesa di partire per il nord Europa. La sospensione temporanea del trattato di Schengen per il G7 in Germania, ha mostrato l'effetto drammatico della mancanza di questa valvola di decompressione e la necessità di una politica comune in materia di immigrazione.
Non è pensabile che l'Europa decida di affrontare questo tema soltanto sull'onda delle stragi che avvengono nel Mediterraneo, ormai diventato un cimitero delle speranze. Non è pensabile che prevalga l'egoismo miope. Non è pensabile affermare che i profughi che arrivano sulle nostre coste, bruciati dal sole, senza scarpe, disperati, sbarchino in Italia. Loro approdano in Europa, di cui l'Italia è un confine.
Le risposte che ha dato in passato l'Europa sono state insufficienti, operazioni come hanno costretto l'Europa ad aprire gli occhi e mettere in campo una missione navale internazionale nel Mediterraneo.
In questi anni, lo scenario è cambiato con estrema rapidità: l'allargamento dell'Unione europea, con l'apertura ad est, la globalizzazione e l'avvento di Internet, che ha ridotto distanze e abbattuto confini. È cambiata la geografia socio-politica ed economica del mondo con le conseguenze che sono sotto i nostri occhi. I nuovi flussi migratori che stanno interessando l'Europa sono anche il frutto di mancate scelte, di errori, di mancanza di coraggio nel volere trovare assieme una soluzione globale per l'Africa e i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Si è sottovalutata la piaga della miseria e delle guerre in un intero continente; la comunità internazionale ha una responsabilità sulla situazione in Libia, che è il Paese da cui parte la quasi totalità dei barconi che approdano in Italia e in Grecia.
L'Italia sta facendo la sua parte, con i sindaci, le associazioni e tanti cittadini in prima linea, perché noi siamo un popolo che può e deve vantare nel suo DNA il valore dell'accoglienza. Il Governo italiano ha fatto bene ad alzare la voce ed esercitare appieno il suo ruolo di Paese fondatore: nei prossimi giorni l'Europa si gioca davvero la sua identità.
L'Europa, attraverso una assunzione e condivisione di responsabilità, ha finalmente l'opportunità di ritrovare se stessa e le ragioni per cui è nata. È fondamentale in questo momento sostenere l'Alto Commissario Federica Mogherini e la strategia della Commissione europea sull'immigrazione, finalmente si vede all'orizzonte un piano di intervento comune di breve e di lungo periodo. Un rinvio della ripartizione obbligatoria in quote dei profughi sarebbe una sconfitta dell'Europa, e una scelta poco lungimirante.
Il lavoro svolto in questi mesi dal Comitato Schengen e la Relazione che viene presentata oggi per la prima volta offrono spunti importanti di riflessione e di analisi approfondita per il Parlamento.
Le audizioni che si sono susseguite hanno evidenziato l'aggravarsi della crisi umanitaria che si sta consumando nel mare Mediterraneo. Al fenomeno migratorio tradizionale, dettato da motivi economici, si affianca un flusso determinato da tragedie umanitarie. La coesistenza di due Governi in Libia, l'acuirsi della situazione di instabilità nella regione siro-irachena così come il perdurare della dittatura militare in Eritrea hanno prodotto un incremento nel numero di sbarchi sulle coste italiane, dato che è reso ancora più vero dall'aumento di nuclei familiari che decidono di partire affidandosi al mare.
È un quadro geopolitico purtroppo destinato a durare nel tempo. Va sostenuta l'azione del Governo nel provare ad affrontare questa sfida epocale uscendo dalla logica dell'emergenza e percorrendo la via della programmazione, pur con la difficoltà che la contingenza comporta. Prima di tutto è necessario migliorare il nostro sistema di accoglienza; il piano nazionale di accoglienza sancito nel 2014 dalla Conferenza unificata Stato-regioni è il primo passo verso una gestione condivisa con le regioni e gli enti locali, definendo un modello di accoglienza equilibrato e sostenibile sull'intero territorio nazionale.
Questo Parlamento, con il Partito democratico in prima linea, ha anche fortemente voluto istituire una Commissione d'inchiesta per verificare il sistema di accoglienza e le condizioni di trattenimento dei migranti nel nostro Paese. È importante essere molto chiari e netti: da un lato, deve essere garantito il rispetto dei diritti umani dei migranti e, dall'altro, l'assoluta trasparenza del sistema nella gestione dei fondi pubblici così come nella gestione dell'ordine pubblico.
L'accoglienza deve implicare anche certezza nella valutazione, rigore nell'identificazione e nel rispetto delle norme in materia di rimpatrio. Abbiamo la necessità di distinguere in tempi più rapidi chi fugge dalle guerre, dai migranti economici illegali ed è per questo motivo che il Governo ha raddoppiato le commissioni di valutazione delle domande di asilo con l'obiettivo di ridurre i tempi dell'incertezza.
Ma, certo, questo nostro impegno da solo non può bastare. Una potenza mondiale come l'Europa deve investire più risorse nei Paesi di prima linea come l'Italia ed è fondamentale che si arrivi a una strategia condivisa per affrontare il nodo dei conflitti in corso, rafforzando la cooperazione internazionale come ha già fatto il Governo Renzi e promuovendo nuove intese a livello europeo con i Paesi di origine e di transito anche in materia di rimpatri.
MARIA CHIARA GADDA. Come ben sappiamo, il regolamento di Dublino III affida l'onere d'identificazione e di accoglienza ai Paesi di primo ingresso come l'Italia, indipendentemente dal fatto che la maggior parte dei profughi intenda proseguire il viaggio verso altri Paesi europei.
Gli accordi di Dublino sono obsoleti e presentano limiti evidenti, ma non possiamo attendere il tempo necessario per cambiarli. Dobbiamo allora valorizzare, come proposto dalla risoluzione che viene proposta all'Aula, le deroghe che lo stesso regolamento prevede con l'articolo 17. Mi riferisco, Presidente, alla clausola di sovranità e alla clausola umanitaria che già oggi consentirebbe ai Paesi aderenti di assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo indipendentemente dal primo Paese di approdo, rendendo più semplici in tal modo i ricongiungimenti familiari o esigenze di ricongiungimento dettate da motivi umanitari.
L'Europa ha due grandi obiettivi da raggiungere: definire, in primo luogo, una strategia comune di asilo, utilizzando i regolamenti vigenti e disegnando in modo flessibile la suddivisione obbligatoria in quote tra i Paesi membri e, al contempo, arrivare a una nuova politica di immigrazione legale.
Oggi è importante comprendere le ragioni del disagio e dell'esasperazione che provano tanti cittadini italiani ed europei. Da un lato, il razzismo non è accettabile e le soluzioni semplicistiche sono inutili; d'altro canto, il buonismo è insufficiente per dare risposte e serve talvolta per lavare la propria coscienza.
È il momento di uscire dalle piccolezze e dagli egoismi nazionali. L'Italia chiede un'Europa più solidale che condivida costi e responsabilità. Questa è l'unica strada percorribile, non ci sono altre alternative.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Binetti. Ne ha facoltà.
PAOLA BINETTI. Signor Presidente, il Comitato di Schengen si trova ad affrontare la relazione sulle azioni adottate per la gestione dei flussi migratori e sull'impiego dei lavoratori immigrati in Italia nel periodo ottobre 2013-aprile 2015, in un momento particolare per il nostro Paese dovuto a due problemi principali: l'enorme flusso di cittadini immigrati che giungono nel nostro Paese per le condizioni di perdurante guerra civile in alcuni Paesi dell'Africa e la grave crisi economica che ha colpito così pesantemente il nostro Paese.
L'immigrazione è un fenomeno enorme e complesso, capace di cambiare il volto di una società; se in meglio o in peggio, sta a noi deciderlo. Il fenomeno immigrazione, infatti, presenta notevoli implicazioni economiche, sociali, culturali, di ordine pubblico; presenta sia problemi sia benefici, che non sono un dato fisso e inevitabile, ma il risultato della nostra capacità di gestirlo.
Ogni discussione su questo tema non può essere una fredda comparazione di costi e benefici. Non bisogna mai dimenticare che il fenomeno immigrazione è fatto dagli immigrati: uomini in carne e ossa, con le loro storie, le loro speranze, le loro paure e debolezze, i loro diritti e i loro doveri, la loro creatività, la voglia di rendersi utili o di approfittare delle situazioni, i loro vincoli familiari. La dimensione dell'immigrato-uomo spesso è trascurata anche da coloro che vedono nell'immigrazione solo una risorsa e che si vorrebbero porre come paladini degli immigrati. Ma vedremo che proprio la dimensione di umanità può essere calpestata e offesa, se l'immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo.
In primo luogo, quindi, occorre mettere in evidenza come la presenza di guerre civili nei territori dell'Africa ha visto, come detto, un enorme flusso di cittadini immigrati giungere sul nostro territorio. Si tratta, per lo più, di persone che fuggono dai loro Paesi di origine per avere subito gravi violazioni dei diritti umani e che giungono in Italia, soprattutto via mare, ma anche via terra, nella convinzione che l'Italia possa rappresentare una porta di accesso per l'Europa.
Il nostro Paese, occorre sottolinearlo, ha adottato misure importanti per soccorrere e tutelare i migranti che giungono sul nostro territorio via mare attraverso l'operazione avviata il 14 ottobre 2013. Comunque, all'azione di sensibilizzazione e di condivisione della preoccupazione con altri partner europei rispetto alla dimensione umanitaria del fenomeno in corso, per molti mesi non è seguita, nei fatti, l'affermazione né il riconoscimento da parte degli Stati membri di una dimensione pienamente europea del problema, mettendo in difficoltà il nostro Paese.
Nella fase ormai conclusiva dell'operazione il Comitato parlamentare di Schengen ha accertato che i migranti soccorsi sono stati 101 mila, di cui 12 mila minori non accompagnati. Occorre, inoltre, sottolineare come le richieste di protezione internazionale dall'inizio 2014 siano state 56.485, di cui ne sono state esaminate 31.185.
Si è trattato, quindi, di un'operazione umanitaria di grande importanza, che ha visto emergere problematiche relative ai costi di gestione per il nostro Paese di grande rilevanza. Tale operazione, pertanto, è stata affrontata, nonostante la grave crisi economico-sociale che ha colpito così pesantemente il nostro Paese, con grande spirito di solidarietà nei confronti di uomini, donne e bambini, che provenivano da zone critiche dove sono presenti guerre e violazioni di diritti umani.
è stata poi sostituita dall'operazione che poteva essere qualificata come la più grande e partecipata operazione di controllo delle frontiere messa mai in campo dall'Unione europea nello scenario del Mediterraneo. L'operazione è stata decisa, portata avanti e finanziata dall'Unione europea con una complessiva assicurata dall'Agenzia Frontex, organismo della stessa Unione, mentre era nata da una decisione italiana, con finanziamenti dell'Italia, al fine di dare una risposta emergenziale al gravissimo problema umanitario manifestatosi tragicamente con la sciagura di Lampedusa.
Uno dei punti principali, comunque, delle tematiche connesse all'immigrazione rimane l'applicazione del Regolamento di Dublino, per cui il Paese di primo ingresso è anche quello cui spetta la responsabilità di fornire accoglienza e di prendersi in carico di eventuali richiedenti asilo. Tutto ciò ha posto il nostro Paese nella condizione di sopportare, come detto, enormi oneri gestionali, umanitari e di ordine pubblico, per fronteggiare l'emergenza tuttora in atto.
Occorre, pertanto, rivedere il Regolamento di Dublino e il Governo italiano sta facendo tutti gli sforzi necessari per modificare tale Regolamento, che penalizza fortemente il nostro Paese. Tra l'altro, il Commissario europeo per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza Avramopoulos ha ringraziato pubblicamente il nostro Paese per quello che ha fatto e che continua a fare per salvaguardare i migranti.
Occorre, poi, sottolineare che, proprio dall'incontro avvenuto tra il nostro Ministro dell'interno Alfano e il già citato commissario europeo, è nata la volontà di potenziare i cosiddetti «», strutture dove dovranno essere riconosciuti coloro che hanno diritto a chiedere protezione internazionale rispetto a coloro che sono immigrati irregolari.
Un altro punto evidenziato è la possibilità di mettere in efficienza il sistema rimpatri con i Paesi di provenienza che necessità però del supporto dell'Europa nei negoziati con i Paesi extraeuropei. Un insieme di azioni, queste ultime, con cui avviare una politica, questa volta dell'Europa intera, idonea a fronteggiare il fenomeno migratorio che si presenta come fenomeno molto complesso.
Ma le tematiche sull'immigrazione hanno evidenziato anche come il fenomeno del terrorismo di matrice jihadista, dell'inizio del 2015, ha portato all'attenzione del Comitato la problematica dei combattenti stranieri di ritorno. Si tratta di un fenomeno relativamente recente ma che ha assunto portata globale e che, in mancanza di processi di integrazione efficaci tra la popolazione autoctona e minoranze etniche presenti nei territori, forte di una radicalizzazione del messaggio religioso islamico, rischia di diventare endemico nell'ambito delle moderne società multiculturali. Tale quadro ha comportato uno stato di massima attenzione da parte degli apparati di polizia e antiterrorismo del Paese, il quale ha intensificato la collaborazione con le analoghe strutture degli altri Paesi europei. Va dato, quindi, atto al nostro Paese di aver affrontato il problema del terrorismo islamico con tutte le dovute precauzioni intervenendo anche con operazioni che hanno portato all'arresto di terroristi legati al terrorismo jihadista.
Teniamo presente che l'immigrazione, in conclusione, non e un diritto in sé. Ricordiamo che ad ogni diritto corrisponde in dovere, e che l'adempimento di questo dovere deve essere possibile. Ciò nondimeno, esiste un dovere morale, di solidarietà umana, ad aiutare ed accogliere le persone in condizione di bisogno. Questo dovere deve essere esercitato con una accoglienza dignitosa nei rispetto del bene comune del nostro Paese.
PRESIDENTE. La invito a concludere.
PAOLA BINETTI. Possiamo e dobbiamo, dunque, accogliere gli immigrati e le loro famiglie, programmando il numero di coloro che possiamo accogliere, e assicurando il rispetto di questa programmazione e possiamo accogliere gli immigrati che abbiano effettivamente il desiderio di contribuire al bene comune della società che li ospita.
Un immigrato, dunque, deve rispettare innanzi tutto le leggi del Paese che lo ospita. Non possono esserci zone franche, quartieri di immigrati, dove queste leggi, in particolare rispetto ai diritti fondamentali delle persone (diritti delle donne, dei bambini) non sono rispettate. Rispettando la legge, l'immigrato potrà esigere il rispetto dei diritti umani e di libertà personale, di inviolabilità del domicilio, di espressione, di religione, di tutela giudiziaria e di istruzione.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Moscatt. Ne ha facoltà.
ANTONINO MOSCATT. Grazie, Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, Ministro, sottosegretario, il lavoro fatto dal Comitato Schengen non può che essere considerato prezioso, importante, perché, in questi casi, preziose ed importanti sono le analisi che vengono proposte per affrontare il fenomeno, per conoscerlo meglio, perché è importante la scrupolosa conoscenza dei fatti, delle cifre e financo degli spunti, delle proposte che vengono messe in atto. La relazione, in alcuni casi, mostra una situazione di seria crisi, quasi emergenziale, ma questo lo percepiamo già, ogni giorno, nelle nostre comunità, lo riscontriamo dai fatti di cronaca (Ventimiglia, Tiburtina, Lampedusa, Milano), dall'esodo che si sta sviluppando in questi mesi, dagli sbarchi, dalla grande presenza di migranti nel nostro Paese e dalle, in alcuni casi, difficoltà ad accoglierli. Noi lo percepiamo dalla situazione che viviamo ogni giorno, che vivono i cittadini ogni giorno, ed è una situazione che guardiamo con lo stesso animo preoccupato che hanno i cittadini italiani. Preoccupazione sì, ma con la lucidità di chi sa che bisogna mettere in atto tutti gli sforzi possibili per governare il fenomeno e anche, permettetemi, con la consapevolezza di chi sa che in questi mesi il Parlamento e anche, e soprattutto, il Governo, hanno messo in campo, con coraggio, e rifuggendo in molti casi dalla facile demagogia e dal populismo, azioni concrete.
ANTONINO MOSCATT. La relazione e il lavoro del Comitato Schengen ne sono un esempio concreto. Il lavoro che si è fatto in Parlamento, le mozioni, le risoluzioni, che si sono approvate, il lavoro fatto dalle nostre Commissioni, sono un esempio concreto di come questo Parlamento ha voluto lavorare per coniugare il diritto alla sicurezza con il diritto all'accoglienza.
E poi l'azione del Governo, il potenziamento delle commissioni territoriali, la semplificazione delle procedure e di queste stesse commissioni per il rilascio del permesso di soggiorno, il potenziamento degli SPRAR, l'istituzione del fondo per i minori stranieri non accompagnati e il grande dibattito che proprio sui minori stranieri non accompagnati si è aperto e poi tutte le azioni di concertazione tra Stato e regioni, tra Stato e comuni, con il coinvolgimento dell'ANCI, con il coinvolgimento delle associazioni di categoria, con il coinvolgimento dei sindacati, cercando di fare rete, di fare sinergie. E poi che è stato bandiera del nostro lavoro, bandiera del nostro impegno, bandiera di una nazione che ha saputo con forza affrontare questo tema.
Un ringraziamento particolare a chi ha operato ogni giorno, dalle forze dell'ordine, ai militari della marina in quella operazione. E poi le continue sollecitazioni sulle regole di per fare in modo che questa non si limitasse semplicemente a vigilare sulle coste. Insomma, potrei continuare sulle azioni, ma si può ben dire, caro sottosegretario, che – come si suol dire in questi casi – abbiamo fatto i compiti a casa e proprio perché abbiamo fatto i compiti a casa penso che dobbiamo sentirci nel pieno diritto di considerare questa discussione come l'ennesimo capitolo di quel dibattito che, dopo tanti anni, grazie all'impegno di questo Governo, grazie al suo impegno, si è finalmente aperto in Europa. Un dibattito legato ai temi dell'immigrazione, dell'accoglienza, certo, però oserei dire più in generale un dibattito sull'Europa che vogliamo, sul modo di fare Europa, sul modo di essere Europa, sul modo di stare insieme, di condividere non solo le risorse, ma anche le competenze e soprattutto le esigenze, le problematiche e le emergenze. Abbiamo fatto i compiti a casa; per questo chiediamo e le chiediamo di andare in Europa a chiedere con forza, con ancora più forza di come si è fatto fino ad oggi – perché fino ad oggi lo si è fatto – l'applicazione dell'articolo 17 del regolamento di Dublino. Le chiediamo non solo di chiedere l'applicazione dell'articolo 17, ma di porre con ancora più forza di quanto si è fatto fino ad oggi il tema dell'immigrazione come politica complessiva, come politica unitaria. Sarebbe follia immaginare una legge europea sull'immigrazione. Le chiediamo di immaginare insieme all'Europa come costruire nuovi rapporti di cooperazione che servirebbero a mitigare l'accesso in Italia, nelle nostre frontiere dei tanti migranti che arrivano.
Vede, le chiediamo tutto questo non per paura. Il nostro partito, il Partito Democratico, non ha paura: non ha paura dei migranti, non ha paura del diverso, non ha paura degli altri, né tantomeno ha il timore di affrontare un fenomeno così complesso e lo ha dimostrato. Glielo chiediamo non perché abbiamo paura, non perché l'Italia ha paura, ma perché crediamo in un principio alto, in un principio che sta alla base di tutto, che per i credenti e per i cristiani dovrebbe essere sacro e per quelli non credenti dovrebbe essere imprescindibile, ma sicuramente per tutti inviolabile, che è il principio del rispetto dell'essere umano, è il principio del rispetto della persona, il principio del rispetto dell'altro, un principio che è stato un punto di riferimento in tutte le politiche che questo Governo ha adottato in questi mesi sul tema dell'immigrazione, che è il principio che anima tutti quei volontari che in questi giorni si stanno adoperando in Italia per sostenere le associazioni di categoria e le cooperative nell'accogliere i migranti. È il principio che anima tutti questi sindaci a prescindere dal fatto che essi si trovino a Lampedusa, a Cuneo, a Milano o a Ventimiglia nell'accogliere e nell'osservare un sistema di accoglienza complessivo ed è il principio che anima tutte quelle forze dell'ordine italiane che ogni giorno lavorano e operano con impegno e dedizione per il rispetto della persona umana ed è il principio che fa capo ad ognuno di noi e ad ogni essere umano, il rispetto dell'altro ed è il principio che noi vorremmo che questa Europa rispettasse un po’ di più.
Da padri fondatori di questa grande comunità di destino, da padri costituenti di questa Europa straordinaria basata sui valori della pace e basata sui valori del rispetto e dell'accoglienza, vorremmo che, come stella polare del proprio agire, quest'Europa avesse il principio della solidarietà, il principio della condivisione delle esigenze e della necessità. Vorremmo che vedesse nei temi dell'immigrazione, non solo lo spauracchio da collocare di Stato in Stato, per capire soltanto in quali quote vengano divisi, ma quell'idea comune di grandezza di un popolo, che partendo proprio dall'immigrazione, dall'accoglienza, dal senso del rispetto degli altri mostra la sua grande forza. È una forza di solidarietà, una forza appunto che rispetta quel principio inviolabile di cui noi, questo Parlamento, questo Governo, andiamo fieri, che questa popolazione, questo popolo italiano, ogni giorno dimostra nella preoccupazione – ripeto nella preoccupazione – di volere mantenere come bandiera principale, e che, appunto, è il principio del rispetto della persona umana.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Quartapelle Procopio. Ne ha facoltà.
LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Grazie Presidente, nella giornata di oggi Amnesty International ha definito la crisi dei rifugiati la più grande crisi umanitaria del dopoguerra. Se i rifugiati in tutti i Paesi del mondo fossero una nazione, sarebbero il ventiseiesimo Paese più popoloso al mondo. Sono le donne, gli uomini e i bambini che abbiamo visto arrivare in questi giorni, in questi mesi, ormai in questi anni, sulle coste, nelle nostre città e nelle nostre stazioni.
A fronte di questa situazione si possono fare due cose. Si può chiudere gli occhi e procedere con delle soluzioni populiste, oppure si può provare a mettere insieme delle risorse e la disponibilità per onorare quanto previsto dalla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. In questo, in quest'azione di coesione, l'Europa deve sicuramente provare a dare una risposta chiara e unitaria e deve trovare soluzioni concrete e attuali, con politiche condivise e solidali con i Paesi di frontiera, proprio quelle nazioni che come l'Italia, la Grecia e la Spagna sono geograficamente più esposte e, quindi, più impegnate al primo soccorso e all'accoglienza dei profughi, che arrivano appunto sulle nostre coste, ma vogliano entrare in Europa.
In realtà fino ad oggi la risposta europea, invece, è stata regolata dal cosiddetto regolamento di Dublino, emanato nel 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata da un cittadino proveniente da un Paese terzo non europeo. Dublino definisce quale Stato membro dell'Unione europea debba esaminare una domanda di asilo e riconoscimento dello di rifugiato, secondo il principio del cosiddetto primo approdo. In questi anni il regolamento di Dublino si è dimostrato essere ingiusto, sbilanciato e penalizzante per i Paesi di frontiera ed è un regolamento che noi del Partito Democratico, così come tante altre forze politiche presenti in questo Parlamento, abbiamo proposto più volte di modificare.
Già è stato fatto un primo importante passo avanti nella definizione delle politiche comunitarie dell'asilo con l'agenda sulle migrazioni del 13 maggio, per l'elaborazione della quale il nostro Paese ha dato un grosso contributo. Sappiamo bene, però, che questo regolamento non potrà essere modificato in tempi brevi e per questo oggi discutiamo di una risoluzione che impegna il Governo a chiedere l'attuazione, per quanto di sua competenza in sede europea e nazionale, a quanto previsto dall'articolo 17 del regolamento dell'Unione europea. Questo articolo consente di derogare in casi straordinari ai criteri generali di determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, appunto in base al principio del primo approdo, facilitando i ricongiungimenti familiari dei rifugiati o degli immigrati che arrivano in Italia, spesso diretti verso un altro Stato del nord Europa.
In particolare con questa risoluzione impegniamo il nostro Governo a farsi portavoce di questa istanza durante l'importante riunione del prossimo Consiglio europeo del 25-26 giugno. Quello che abbiamo visto in questi giorni, lo spettacolo indegno di migliaia di profughi in transito, sopravvissuti a spaventosi viaggi della speranza e approdati finalmente sul suolo europeo, costretti a rimanere sul territorio italiano a causa della chiusura delle frontiere dell'area Schengen, è un segnale forte del fatto che il regolamento di Dublino, così come è oggi, continua ad essere fortemente ingiusto e penalizzante, per i profughi e per i cittadini dei Paesi di frontiera perché sulle nostre spalle pesa la gestione di un numero enorme di persone. Le nostre spalle in questi giorni hanno mostrato di essere solide e operative. L'emergenza milanese, così come quella romana e così come quella di tante regioni, soprattutto del sud, va avanti grazie alla straordinaria generosità e operatività dei cittadini e delle associazioni coinvolte.
Ed effettivamente siamo riusciti nel modo migliore possibile a gestire un'emergenza che, però, sarà strutturale e resterà con noi. Ma abbiamo detto, appunto, che la gestione emergenziale deve trasformarsi in una gestione strutturale del fenomeno. Per questo, dobbiamo, non solo dialogare con gli altri Paesi europei – e in questo certamente aver scelto di avere l'Alto rappresentante della politica estera e di difesa europea è un punto a favore del nostro Paese –, ma è necessario anche alzare la voce per spiegare le nostre evidenti difficoltà e domandare solidarietà e corresponsabilità dagli altri Paesi membri dell'Unione.
Per questo è importante che la risoluzione di cui discutiamo oggi trovi il più ampio consenso possibile tra le forze politiche. Il Governo ha bisogno di un mandato chiaro e ampio in Europa. In Europa, infatti, non negozieranno i partiti, ma negozierà l'Italia e abbiamo bisogno che questo Parlamento si esprima a sostenere l'azione del nostro Paese in sede europea.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione.
PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata la risoluzione Ravetto n. 6-00139 che è in distribuzione.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Sandro Gozi, che esprimerà altresì il parere sulla risoluzione presentata.
SANDRO GOZI, . Grazie Presidente, grazie alla presidente Ravetto, a tutti i membri del Comitato Schengen e ai colleghi che sono intervenuti in questo dibattito, che è di grande tempestività. Siamo nel pieno del dibattito politico e del negoziato europeo su un tema che è fondamentale, a trent'anni dalla firma del primo accordo di Schengen.
Io credo che da questo punto di vista vada certamente sostenuta l'iniziativa del Comitato Schengen e il parere del Governo è favorevole sulla risoluzione che ci è stata presentata, anche perché il sottoscritto ha avuto l'onore di rappresentare il Governo nelle due occasioni in cui abbiamo sollevato come Governo al Comitato Schengen la necessità, anche nell'inadeguatezza generale del regolamento di Dublino, di sfruttare quelle clausole di flessibilità che Dublino III contiene, a differenza di Dublino I e Dublino II, ossia quelle clausole di flessibilità di cui all'articolo 17 del regolamento Dublino III, che, giustamente, ci viene chiesto di valorizzare appieno, promuovendo anche un sistema di asilo europeo che consenta un'equa ripartizione degli oneri tra gli Stati membri di primo ingresso e gli altri.
Sono degli impegni che il Governo vuole assumere, perché fanno parte del lavoro e della strategia che il Governo medesimo ha perseguito durante il semestre e ha perseguito dopo il semestre.
Io voglio solo ricordare alcuni passaggi e, poi, Presidente, mi permetterà di rispondere anche ad alcuni interventi, che ho trovato di grande interesse e di grande utilità, dei colleghi e delle colleghe che sono intervenuti. Il primo punto è l'oggetto specifico della risoluzione. Ci sono due clausole, la clausola di sovranità e la clausola umanitaria, all'articolo 17 del regolamento di Dublino che, a nostro modo di vedere, sarebbe di grande aiuto attuare e attivare in questa fase di particolare emergenza.
Non sono risolutive, come nulla di per sé è risolutivo. Quello che può essere risolutivo è portare avanti un'azione più ampia, portare avanti l'intero pacchetto in materia di immigrazione e di asilo presentato dalla Commissione nell'Agenda europea sull'immigrazione, ma, certamente, vi sono queste due clausole, che rimandano alla volontà politica degli Stati membri. Infatti, ricordo che non abbiamo la possibilità, attraverso queste due clausole, di obbligare gli Stati membri a utilizzare maggiormente la clausola di sovranità, che, in sostanza, permette di superare la più evidente rigidità del regolamento di Dublino, cioè quella per cui è solo lo Stato membro di primo approdo a doversi fare carico della gestione dell'intero processo e del potenziale richiedente asilo. Ma c’è anche l'altra clausola, la clausola dei ricongiungimenti familiari. Quando vediamo un eritreo, intervistato da tutti i europei, alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone, che dice chiaramente che vuole ricongiungersi ai suoi familiari nei Paesi Bassi, tenerlo bloccato tra gli scogli tra Mentone e Ventimiglia non mi sembra esattamente quell'atteggiamento di cooperazione che noi vorremmo da tutti gli Stati membri, su cui stiamo lavorando con tutti i Governi in questi giorni, anche perché è un caso evidente di possibilità di applicare la clausola di ricongiungimento familiare, se c’è la volontà politica.
Quindi posto che – voglio sottolinearlo di nuovo – non comportano un obbligo, ma sono clausole firmate comunque su base volontaria, certamente è utile sfruttare questi margini di flessibilità che in Dublino III esistono come complemento di un'azione più ampia.
Vorrei ricordare che noi siamo pienamente favorevoli a questa risoluzione, perché è perfettamente coerente con il lavoro che il Governo ha svolto. Durante il semestre abbiamo ottenuto l'adozione di conclusioni a margine del Consiglio dei ministri di Lussemburgo di ottobre e abbiamo ottenuto l'adozione, da parte di tutti i Governi, dell'agenda «Adoperarsi per una migliore gestione dei flussi migratori» e già all'epoca, tra l'altro in seguito all'audizione che avevamo effettuato presso il Comitato Schengen in cui avevo annunciato che il Governo avrebbe preso questa iniziativa, abbiamo ottenuto l'impegno da parte di tutti gli Stati membri di «sfruttare appieno – cito dalle conclusioni del Consiglio di Lussemburgo di ottobre dello scorso anno – gli strumenti esistenti in virtù del regolamento di Dublino, applicando le disposizioni sul ricongiungimento familiare anche attraverso il rafforzamento dei sistemi di rintracciamento della famiglia e grazie a un maggiore uso della clausola di sovranità in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea». Questi sono gli impegni politici che abbiamo ottenuto con le conclusioni durante il nostro semestre.
Non è il momento di entrare nelle polemiche sulla valutazione del semestre, ma a chi sostiene che, durante il semestre, l'Italia non abbia fatto nulla per ottenere impegni politici da parte dei ministri degli altri Stati membri, proprio in materia di asilo e immigrazione ci sono delle conclusioni adottate da tutta l'Unione europea che dimostrano il contrario, quanto meno a livello di impegni.
Ma soprattutto l'aspetto importante è da questo punto di vista il lavoro che state facendo, che ha una grande rilevanza politica ed europea, e la risoluzione che auspico venga adottata con la più ampia maggioranza in Parlamento, perché in queste vicende è bene dare prova di coesione nazionale, è bene dare prova di unità nazionale. Sono questioni che dovrebbero unire le forze politiche e non dovrebbero dividerle, perché solo se le diverse forze politiche nazionali danno prova di unità e di coesione aumenta l'influenza e la capacità di negoziato del nostro Paese.
Quello che è importante è che l'Agenda europea della migrazione, che vari di voi hanno citato, riprende il documento di Lussemburgo adottato sotto il semestre di Presidenza in tutti gli obiettivi e in tutte le azioni specifiche da portare avanti.
Qual è il passaggio ? Per la prima volta la Commissione europea fa propria un'esigenza dell'Italia, una posizione dell'Italia, che varie forze politiche e vari Governi hanno portato avanti, però la differenza è che questa volta questa non è solo una proposta di uno Stato membro, è una proposta della Commissione europea nell'Agenda europea per la migrazione. Traduco dall'inglese: a pagina 13 della comunicazione, la Commissione dice che gli Stati membri dovrebbero in maniera proattiva e coerente applicare le clausole relative alla riunificazione familiare e fare un ampio e regolare uso delle clausole discrezionali, delle clausole relative all'articolo 17, per alleviare la pressione sugli Stati membri di frontiera. Questa non è più una proposta dell'Italia, questa è una proposta politica della Commissione europea e quindi, anche quando parliamo dell'Europa da cambiare, dell'Europa da contrastare, intendiamoci oggi di che Europa parliamo.
Oggi abbiamo una Commissione europea, un Parlamento europeo e un gruppo importante di Governi che sostengono le proposte italiane e sostengono anche la proposta oggetto della vostra risoluzione relativa all'articolo 17. Ci sono altri Governi, invece, che si oppongono o danno prova di timidezza o danno prova di silenzio molto ambiguo. È un negoziato complesso quello che abbiamo da qui al vertice europeo del 25-26 giugno, un negoziato che però intendiamo affrontare sostenendo la proposta della Commissione in tutti i suoi aspetti, perché non è un menu in cui ognuno sceglie la pietanza che gli è più gradita. Non è che possiamo accettare che alcuni Governi dicano: a noi va bene la dimensione esterna della proposta della Commissione e quindi mandiamo la nostra nave nel Mediterraneo e pensiamo in questo modo di avere contribuito all'obiettivo comune europeo. Non è che possiamo dire: ci va bene l'azione contro i trafficanti di essere umani quando il Consiglio di sicurezza abbia deciso. Non è che possiamo dire che ci va bene solo il dalla Siria.
La proposta della Commissione va sostenuta nel suo insieme e in questo insieme c’è, certamente, un maggiore sforzo per quanto riguarda l'identificazione – e vari di voi hanno già ricordato i passi in avanti che abbiamo fatto come il raddoppiamento delle commissioni di asilo in Italia – e c’è anche la questione della redistribuzione dei rifugiati e dei richiedenti asilo all'interno dei 25 Paesi che sono legati, in base ai trattati, a questo; c’è anche lo sfruttamento, nell'immediato, della flessibilità della Convenzione di Dublino e, in prospettiva, oltre l'emergenza, la necessità di superare Dublino; per la prima volta, la parola «inadeguatezza» rispetto a Dublino non è solo nei documenti dell'Italia, è nella proposta della Commissione europea. La stessa Commissione europea nell'Agenda europea delle migrazioni indica che il sistema attuale di Dublino è inadeguato.
Quindi, è su questo che dobbiamo lavorare, sapendo – lo ripeto – che si tratta di un negoziato molto, molto complesso, ma che deve vederci determinati e deve vederci coraggiosi; sono d'accordo con chi di voi ha stigmatizzato «l'Europa della paura», perché l'Europa della paura è l'Europa della paralisi, è l'Europa dell'inerzia, e noi abbiamo bisogno, invece, di un'Europa attiva, che assuma le proprie responsabilità. Abbiamo una proposta finalmente coraggiosa, che il Presidente Juncker, anche per quanto riguarda la parte oggetto della vostra risoluzione, ha confermato di nuovo di voler mantenere come tale e questo atteggiamento della Commissione europea è di grande aiuto.
Certo, nel momento in cui noi chiediamo di sfruttare appieno delle clausole di flessibilità, come quelle di Dublino, dobbiamo anche dimostrare di saper migliorare le parti più deboli del nostro sistema interno. Avete adottato in prima lettura una legge europea che mira a sanare le infrazioni in materia di direttiva dei rimpatri; è evidente che noi saremo tanto più influenti ed efficaci nel chiedere, come voi oggi avete chiesto, che l'Unione europea si faccia carico in maniera più efficace dei rimpatri, anche dandone mandato direttamente a Frontex, se dimostreremo di essere in regola con l'attuazione della direttiva rimpatri, come potremo fare grazie al lavoro che avete svolto.
Così sul tema degli e dei centri di identificazione: noi sappiamo benissimo che di fronte a dei flussi così importanti dobbiamo aumentare la nostra capacità di identificazione, ma su questo certamente è necessario avere più risorse finanziarie da parte dell'Unione europea, da parte del bilancio dell'Unione europea, ed è chiaro che il maggiore sforzo che viene chiesto a noi e agli Stati di frontiera sull'identificazione deve essere accompagnato dalla redistribuzione dei richiedenti asilo e dei rifugiati politici. Le due cose stanno assieme; se vediamo che ci sono opposizioni sulla seconda, certamente assumeremo altre determinazioni anche rispetto al primo punto.
Concludo, Presidente, dicendo che certamente, come in vari avete invocato, noi vogliamo un'Europa che esista in materia di politica di immigrazione e di asilo, non l'Europa che non esiste. Noi fino ad oggi abbiamo pagato non il prezzo di scelte sbagliate, ma il prezzo della non Europa, noi abbiamo pagato l'inesistenza di una politica di immigrazione, l'inesistenza di un vero sistema comune europeo di asilo, abbiamo pagato un'applicazione di un regolamento inadeguato perché elaborato in un'altra epoca storica, negli anni Novanta, e siamo nel 2015. Giustamente sono state invocate la Convenzione di Ginevra, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Noi vogliamo un'Unione europea all'altezza di questi impegni e di questi valori e per questi impegni e per questi valori ci impegneremo, come voi ci chiedete, anche su questo punto specifico al prossimo vertice europeo.
PRESIDENTE. Scusi, sottosegretario, forse mi sono distratta un attimo, il parere sulla risoluzione è favorevole ? È così, lo aveva detto all'inizio, grazie.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Grillo ed altri n. 1-00767 e Miotto ed altri n. 1-00899 concernenti iniziative di competenza in merito al personale del Servizio sanitario nazionale, al fine di assicurare i livelli essenziali di assistenza .
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea .
Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Calabrò ed altri n. 1-00900, Nicchi ed altri n. 1-00904, Palese e Fucci n. 1-00905, Vargiu ed altri n. 1-00907 e Rondini ed altri n. 1-00908 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare la deputata Silvia Giordano, che illustrerà anche la mozione Grillo ed altri n. 1-00767, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.
SILVIA GIORDANO. Signora Presidente, la mozione presentata da tutti i componenti della Commissione affari sociali del Movimento 5 Stelle, a prima firma Giulia Grillo, interviene su un punto strategico del Servizio sanitario nazionale, la gestione del personale sanitario, una questione delicata che si coniuga con la garanzia dei livelli essenziali di assistenza, anzi ne è l'architrave. Una gestione che negli ultimi anni è stata affrontata solo e unicamente con interventi tesi alla razionalizzazione, ai tagli di risorse e posti letto e al fatidico principio del contenimento della spesa.
Una gestione che sembra più essere dettata dai meccanismi numerici del Ministero delle finanze, che dal principio di tutela e garanzia della salute propria del dicastero, che ha e deve avere come unico obiettivo la piena applicazione dell'articolo 32 della Costituzione. Una gestione che ha sacrificato esperienze professionali e umane di quanti operano nel settore sanitario, costretti a fare i conti con turni di lavoro massacranti, che, inevitabilmente e involontariamente, si ripercuotono sulla qualità dell'assistenza che sono tenuti a garantire a qualunque costo.
Il Patto per la salute 2014-2016 con l'articolo 22 ha istituito un tavolo interistituzionale in sede di Conferenza Stato-regioni che doveva di fatto definire una bozza di disegno di legge delega in materia di personale sanitario, che avrebbe dovuto concludere i lavori a ottobre 2014. Oggi, al di là di bozze di lavoro, di quel tavolo nulla si sa e i tempi sembrano dilatarsi, senza affrontare una delle questioni centrali del Servizio sanitario nazionale.
In tale contesto, pare necessario segnalare che tutti i termini previsti nel Patto della salute 2014-2016 sono rimasti lettera morta. Di quello che doveva rappresentare la svolta nel sistema salute italiano, che puntava alla necessità di individuare standard di personale al fine di determinare il fabbisogno dei professionisti dell'area sanitaria, tenendo conto di parametri qualitativi e di efficienza di utilizzo delle risorse umane, degli obiettivi e dei livelli essenziali di assistenza indicati dal Piano sanitario nazionale e da quelli regionali, delle reti di offerta territoriale ed ospedaliera e del loro sviluppo, dei cambiamenti della domanda di salute legati in particolare alle modifiche demografiche ed epidemiologiche, dell'evoluzione tecnologica e dello sviluppo delle competenze dei professionisti sanitari, ebbene, di tutto questo nulla si sa. E il fatto ancor più grave è che il Governo avrebbe dovuto assicurare l'aggiornamento e l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza e la sicurezza delle cure, nonché specifiche misure per la stabilizzazione del personale precario attraverso concorsi, anche tenendo conto della riorganizzazione delle reti e dei servizi.
Ma ci troviamo sempre a dover combattere con i soliti ritardi del Governo che tutto ha fatto, tranne che attuare il Patto per la salute. Per questo motivo il Movimento 5 Stelle ha presentato una mozione oggi in discussione che tende a portare il Governo e il Parlamento a discutere di una questione che non può essere lasciata a veleggiare in attesa di improbabili esiti. Questo mentre continuano gli sprechi e i disservizi nel Servizio sanitario, mentre ci accingiamo infatti a registrare altri 2,3 miliardi di euro di tagli nei prossimi anni come previsto da voi, dal Documento di economia e finanze.
A fronte dell'invecchiamento della popolazione e dell'innalzamento di richieste di servizi di prevenzione e cura, dovuti anche in gran parte al peso della crisi economica, che portano i cittadini a ridurre l'accesso a servizi di prevenzione e cura, oltre tutto appesantiti da per molti insostenibili.
A nostro dire, c’è bisogno di un'inversione di tendenza e di istituire un tavolo di confronto vero, in sede di Conferenza Stato-regioni, anche utilizzando quello già avviato, ma con tempi certi e proponendo azioni o proposte normative che aggrediscano i punti qualificanti e fondamentali per un Servizio sanitario nazionale all'altezza delle necessità, universale e pubblico. Un tavolo tecnico in sede di Conferenza Stato-regioni, finalizzato concretamente alla rivisitazione della normativa vigente in materia di personale sanitario, che sia applicabile anche alle regioni con piano di rientro. Si tratta di affrontare, di petto e senza ulteriori azioni dilatorie, nodi irrisolti ma basilari per il mantenimento e l'ulteriore sviluppo dei livelli essenziali di assistenza, senza dimenticare le prestazioni da assicurare.
Con la mozione si richiede di risolvere i nodi e i guasti provocati dal blocco del associato ad una vasta precarietà tra i lavoratori del Servizio sanitario nazionale.
È necessario quindi partire da una deroga al blocco del e parallelamente procedere alla stabilizzazione del personale precario, una deroga al blocco del che si deve applicare anche nelle regioni soggette a piano di rientro, in quanto il risanamento non passa certo per la limitazione del personale necessario a garantire l'attuazione dei livelli essenziali di assistenza. Non solo, il Governo deve assumere iniziative per semplificare e attuare le procedure di mobilità interregionale del personale sanitario, tenuto conto della necessità di assicurare in particolare i livelli delle prestazioni uniformi su tutto il territorio nazionale. In Campania, ad esempio, si sta consumando da anni una guerra tra poveri, i poveri da un lato sono i precari, e dall'altro gli stabilizzati, che però sono costretti a lavorare lontano dalle proprie regioni di residenza senza avere la benché minima speranza di ottenere il trasferimento. Forse il Governo non lo sa, ma è in rete una petizione per chiedere di mettere in ordine alle procedure di mobilità interregionale nel . Forse il Premier è troppo impegnato a risolvere le guerre interne al suo partito e a cercare di far governare qualcuno che è stato dichiarato ingovernabile, che non può governare, e a occuparsi di tutt'altro piuttosto che pensare a chi lotta con tutte le armi legali per far valere un proprio diritto. Finora infatti sono state raccolte 2.700 firme in pochissimo tempo che corrispondono ad altrettanti lavoratori sanitari che chiedono tre cose semplicissime.
Primo, lo sblocco del e l'attivazione della mobilità extra-regionale prima di qualsiasi altra procedura concorsuale. Tutto ciò eviterebbe il ricorso a convenzioni esterne e a cooperative interinali i cui costi gravano maggiormente sulla spesa sanitaria, sebbene nascosta in bilancio sotto la voce di «acquisti di beni e servizi».
Secondo, mettere ordine nella questione mobilità e concorsi, perché chi è già vincitore di concorso non può partecipare ad un altro per ottenere il trasferimento. È contraddittorio dal punto di vista legale e paradossale da un punto di vista umano, oltre che deleterio per il buon andamento delle aziende sanitarie e ospedaliere che continuano ad essere sommerse di personale precario non stabilizzato che si aggiunge a quello già esistente, scatenando così la triste guerra tra poveri di cui ho parlato prima.
Terzo, abrogazione delle parole «previo assenso dell'amministrazione di appartenenza», comma 1 dell'articolo 4 della legge n. 114 del 2014, che nega finora al lavoratore dipendente di svincolarsi con la mobilità volontaria dal rapporto di lavoro con l'Amministrazione cedente, privato così di fatto del diritto di scegliere dove lavorare e corroso da una specie di ricatto morale e giuridico da cui non si riesce a liberare finalmente. Questa è la petizione che è tre punti semplici che stanno chiedendo tutti, oltretutto su questo argomento ogni volta che c’è una campagna elettorale soprattutto nelle regioni soggette a piano di rientro tutti sembra che dicono che hanno chiesto lo sblocco del in Parlamento, io ero presente proprio durante la discussione dei vari emendamenti a luglio scorso in uno dei decreti sulla pubblica amministrazione, dove era stato proposto anche lì lo sblocco del ed è stato bocciato da tutti i partiti, ma lasciamo stare. Quello che noi adesso chiediamo al Parlamento e al Governo è di valutare. Sono punti semplicissimi, tanto che li leggo letteralmente dalla mozione.
Chiediamo e impegniamo il Governo ad istituire, in sede di Conferenza Stato-regioni, un tavolo di confronto al fine di individuare le modalità di rivisitazione, nel rispetto della programmazione come stabilito dalle normative vigenti, delle norme di gestione del personale degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale, facendo sì che i risultati del tavolo di lavoro sopra indicato siano presentati entro e non oltre il 30 aprile 2015, data di scadenza per la presentazione dei costi e dei fabbisogni standard; al fine di assicurare il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza, chiediamo e impegniamo il Governo ad assumere iniziative per una deroga al blocco del del personale del Servizio sanitario nazionale, applicandola anche alle regioni sottoposte ai piani di rientro; ad assumere le iniziative di competenza, anche di concerto con la Conferenza delle regioni, al fine di semplificare ed attuare le procedure di mobilità interregionale del personale sanitario in relazione alle piante organiche e alla garanzia di assicurare i livelli essenziali delle prestazioni in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
Vede, sottosegretario, colleghi, io non sono una persona che pensa che il MoVimento 5 Stelle sia l'unica forza politica a parlare con i cittadini, anzi, sono esattamente convinta del contrario, e allora, come noi, sono convinta che tutti voi anche siete stati bombardati da lettere di persone, e qualsiasi altro mezzo di informazione di persone che vi chiedevano la cortesia di provvedere a risolvere questa situazione perché vogliono tornare a casa dai propri familiari, nella propria regione di residenza, e lavorare lì perché hanno tutto il diritto di poterlo fare e noi abbiamo tutto il dovere di poter porre rimedio a questa situazione. La mozione ha questo obiettivo e tra qualche giorno la voteremo. A ognuno la propria responsabilità.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Miotto, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00899. Ne ha facoltà.
ANNA MARGHERITA MIOTTO. Grazie, signora Presidente. Nel presentare la mozione che, con i colleghi del Partito Democratico, portiamo alla discussione dell'Aula in materia di politiche del personale del sistema sanitario nazionale, corre l'obbligo di fare almeno un riferimento alla discussione, che si è sviluppata in questi ultimi mesi, sulla sostenibilità del sistema sanitario e sulle misure che sono state poste in essere per frenare l'andamento della spesa che, fino al 2009, ha visto un andamento crescente sull'ordine del 4 per cento.
Dal 2009 è iniziato un processo di stabilizzazione della spesa, che, però, nel 2013 ha segnato una riduzione dell'1,2 per cento, prima volta dal 1995. Questo risultato è stato ottenuto nonostante un oggettivo peggioramento del quadro epidemiologico, nonostante un aumento delle forme di deprivazione socio-economica, soprattutto in alcune aree del Mezzogiorno, e in presenza del procedere della crescita tecnologica e dell'innovazione nel campo farmaceutico, che generalmente sono indicati come i fattori determinanti l'aumento della spesa sanitaria.
Come è potuto, allora, accadere che si riducesse il Fondo sanitario e venisse stabilizzata la spesa, pur in presenza di fattori che ne avrebbero indotto l'aumento ? Certamente è stata avviata una poderosa e se questa azione ha consentito e consentirà di abbattere gli sprechi si sarà fatta buona amministrazione. Ma in questi anni sono state fatte anche altre scelte che hanno portato a quei risultati di natura finanziaria, scelte che riguardano il più importante dei fattori produttivi del sistema sanitario, cioè il lavoro dei professionisti.
Le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono ferme da oltre sei anni. La spesa del personale si è ridotta, negli ultimi tre anni, dell'1,5 per cento all'anno. Il blocco del in particolare per le regioni in piano di rientro, che sono ben sette, è proseguito. È stato introdotto il blocco dei trattamenti accessori e della retribuzione, è stata operata una riduzione delle risorse per la formazione specialistica dei medici. Insomma, potremmo dire che questa cura dimagrante, imposta dalle misure di contenimento della spesa pubblica, sta riguardando prevalentemente il personale del sistema sanitario nazionale. Questo avviene in una fase nella quale, invece, si dovrebbero mettere in campo operazioni di riordino dei servizi per riallocare le risorse in un nuovo equilibrio fra ospedale e territorio, riorganizzare gli ospedali per intensità di cure, aggiornare i piani regionali di offerta dei servizi, sulla base dei nuovi standard strutturali ed organizzativi, applicare l'ambizioso patto per la salute, sottoscritto fra regioni e Governo nel 2014 e parzialmente recepito nella legge di stabilità del 2015.
Noi guardiamo con interesse le novità in particolare previste dal nuovo patto per la salute e, fra queste, il blocco del che avrà efficacia solo fino al 31 dicembre dell'anno successivo a quello della verifica positiva del piano di rientro. Come va sottolineato il fatto importante che dal 2015 viene modificato il vincolo contenuto nella finanziaria 2010 del tetto di spesa per il personale pari alla spesa del 2004, ridotta dell'1,4 per cento. Ed è altrettanto importante la costituzione del tavolo politico previsto dall'articolo 22 del patto per la definizione di una legge delega che preveda nuove norme per la valorizzazione delle risorse umane del sistema sanitario nazionale, per favorire un'integrazione multidisciplinare delle professioni sanitarie, una nuova disciplina della formazione di base specialistica del personale, la introduzione di standard di personale per livello di assistenza, al fine di determinare il fabbisogno dei professionisti sanitari a livello nazionale, nonché la puntuale applicazione del DPCM sul precariato.
Sappiamo però che sta crescendo la sofferenza tra i 700 mila professionisti del Sistema sanitario nazionale per il permanere dei vincoli imposti a partire dal 2010 e per l'attesa, che si protrae da troppo tempo, per l'avvento di una nuova normativa sulla responsabilità professionale, nonché per la definizione di un'autonoma area contrattuale per la dirigenza medica e sanitaria. Per accogliere queste richieste, che vengono espresse anche in queste settimane con numerosi appelli sottoscritti dalle sigle sindacali del comparto, riteniamo perciò che il Governo possa prendere in considerazione i contenuti della mozione che abbiamo presentato, nella convinzione che il Sistema sanitario nazionale tutela la salute di tutti i cittadini mediante la garanzia dell'accesso ai livelli essenziali di assistenza. Ma senza i professionisti del Sistema sanitario nazionale non sarebbe possibile erogare i LEA e in questa simbiosi tra professionisti e LEA risiede la garanzia del diritto fondamentale alla salute, previsto dall'articolo 32 della Costituzione.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Binetti, che illustrerà anche la mozione Calabrò n. 1-00900, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.
PAOLA BINETTI. Grazie Presidente, la nostra mozione parte da un presupposto abbastanza evidente, che, se vogliamo mettere al centro dell'attenzione del Sistema sanitario nazionale i pazienti, l'unico modo per poterlo fare correttamente, l'unico modo per garantire qualità dell'assistenza, sotto il profilo della qualità delle prestazioni, ma anche sotto il profilo della qualità della relazione, significa per noi mettere al centro dell'attenzione i bisogni e le esigenze, filtrandole in modo adeguato, del personale. E il personale che si muove in sanità è un personale complesso. I numeri li facevano prima presenti i colleghi: parliamo dell'ordine di 350 mila medici, di 350 mila infermieri, pensiamo poi a quell'altra ventina di professioni sanitarie totalmente essenziali anche loro al sistema, penso ai tecnici di radiologia, ai tecnici di laboratorio, ai fisioterapisti, ai logopedisti, e penso alle mille figure professionali; mille no, sono in realtà ventidue figure professionali molto concrete per le quali è tracciato un profilo professionale molto preciso e che compongono questo universo variegato del personale in sanità, che costituisce a oggi la fonte forse principale dell'economia che si è fatta. Proprio perché si è fatta questa sorta di economia su tre modalità concrete: in primo luogo, con il con il blocco del che significa sostanzialmente il blocco delle assunzioni; in secondo luogo, con il blocco degli stipendi, che significa sostanzialmente, come dire, legare le prestazioni di oggi, anche con i costi della vita di oggi, a quelle che erano le condizioni economiche soltanto di ieri; e in terzo luogo, ma non terzo, spingendo l'acceleratore sulla quantità di lavoro che viene richiesta a queste persone che si è improvvisamente moltiplicata proprio a fronte anche della riduzione del personale, ossia noi stiamo facendo economia. Effettivamente è vero, peccato che la stiamo facendo sulla pelle del personale sanitario. E questo secondo me richiede un momento di riflessione molto attento da parte del Ministero, perché si può chiedere molto, come il famoso aneddoto, che conosciamo tutti, del famoso asino di Buridano, che finalmente, quando aveva imparato a non mangiare e a non bere, peccato che poi ormai, quando era nel momento della massima redditività, morì. Perché dico queste cose ? Le dico perché in realtà il prezzo di tutto questo non lo paga solo il personale; il prezzo di tutto questo finiscono per pagarlo, e pagarlo caramente, i pazienti. E come lo pagano i pazienti questo prezzo ? Lo pagano per esempio con l'allungamento delle file, con l'allungamento del tempo necessario per avere una visita, con l'allungamento del tempo necessario per accedere ad una analisi.
Certo per chi dispone di risorse aggiuntive è anche molto facile, ci si può rivolgere ad una struttura, a volte una struttura convenzionata, e va ancora bene, altre volte invece ad una struttura privata, e già va meno bene perché toglie energia a quel principio fondamentale del nostro sistema sanitario nazionale che è la gratuità e l'universalità del sistema.
Noi sappiamo anche che certo le strutture ospedaliere quelle più attente, quelle più sensibili, quelle che si sono date dei modelli organizzativi più efficienti ottengono questo lavorando fino a notte fonda, le macchine come si dice in gergo – siccome due sono gli imbuti di un ospedale, come è noto, una è la radiologia e l'altro le sale operatorie – lavorano fino a tardi – a volte la gente si chiede stupita: ma davvero mi ha dato un appuntamento alle otto e mezza di sera ? Davvero le ho dato appuntamento alle otto e mezza di sera – oppure lavorano il sabato mattina, il sabato pomeriggio, ossia, tutta questa macchina che ha aumentato la sua dimensione di efficienza lo ha fatto sempre a carico del personale, e questa è una cosa di cui va tenuto adeguatamente conto perché non si è resa soddisfazione al personale di tutto questo.
Questo è il motivo per cui noi insistiamo perché veramente con questa mozione il personale sanitario occupi quel posto di eccellenza, nell'attenzione di un Ministero della salute, che merita. D'altra parte, sappiamo anche quali sono poi le altre misure compensatorie quando tu più di tanto il piede sull'acceleratore non puoi premerlo, quando le analisi più di tanto non le puoi moltiplicare, quando più di tanto non puoi intensificare i turni, allora accedi a quello che si chiama il personale in ma va benissimo, il personale in per carità è fatto di cooperative, è fatto di persone anche motivate, è fatto di gente che ha voglia di lavorare; peccato che spesso questo personale in sia un personale non italiano, un personale che si è formato in luoghi diversi, un personale di cui non conosciamo fino in fondo i dettagli della competenza professionale raggiunti, perché ci arrivano attraverso le cooperative, non li selezioniamo direttamente, qualcuno li seleziona per noi; per carità, se non siamo contenti possiamo sempre dire: questo non me lo mandare più, ma certamente viene meno una delle motivazioni principali, che è la motivazione alla formazione del personale.
La motivazione alla formazione del personale, soprattutto in sanità, come tutti sappiamo, è una motivazione che si snoda su due binari: il primo è quello delle competenze personali; come facciamo a trasmettere a questo personale quelle competenze rese obbligatorie dal processo tecnologico di aggiornamento a cui in un certo senso l'intera struttura ospedaliera viene sottoposta ? Ma questo è soltanto un pezzo del problema, l'altro aspetto importante del problema è che l'aggiornamento si deve svolgere attraverso lo sviluppo di quelle competenze di quelle comunicative, integrative che creano il lavoro in che creano l'affiatamento di una macchina, che permettono che un sistema rodato funzioni adeguatamente.
Ora, quando tu ti trovi di fronte al personale in che quindi non è un personale che oggi c’è, ma domani potrebbe anche non esserci, è molto difficile per te investire su di loro, ma anche molto difficile per loro investire su di sé nelle competenze trasversali, perché le competenze trasversali sono tanto necessarie quanto apparentemente meno riconoscibili, è più facile dire questa persona sa fare queste cose che non questa persona si sa relazionare correttamente con i colleghi eccetera, eccetera, e quindi la gente preferisce investire in quelle che sono le proprie invece che proprio quelle che sono per esempio le eccetera, eccetera. Quindi, noi ci troviamo davanti peraltro a un discorso estremamente sperequativo, perché abbiamo appena approvato, ed è al Senato in discussione in questo momento, il provvedimento sulla buona scuola, dove 100 mila precari sono stati stabilizzati a tempo indeterminato, e questo è sembrato molto poco al personale della scuola, tanto che hanno legittimamente messo in piedi, nelle diverse piazze di Roma, una molteplicità di iniziative che richiamano l'attenzione su quegli altri 50 mila precari che non sono stati stabilizzati. Ebbene, e ai nostri che cosa ? E nella sanità ?
Una misura di stabilizzazione del personale non ha trovato lo stesso accento forte perché, in un certo senso, tu compensi: quelli che sono i supplenti di là sono il personale in di qua. E questo, a mio avviso, è un rischio di cui il prezzo non può che pagarlo la qualità dell'assistenza che viene erogata ai pazienti.
D'altra parte, paghiamo anche un altro prezzo importante. È da poco tempo che sono in Parlamento e, se vi è un luogo comune che riecheggia costantemente e continuamente di Governo in Governo, è la necessità di spostare l'attenzione dalla politica ospedalocentrica al territorio. Peccato che le strutture di raccordo tra medici ospedalieri e medici di famiglia non siano mai state adeguatamente messe in piedi.
E, quindi, cosa succede ? Che l'economia letta all'interno della struttura ospedaliera, che porta a una riduzione dei giorni di degenza, perché i giorni di degenza ormai, anche per un intervento – ma non voglio dire intervento, perché non è un intervento – come potrebbe essere il parto, ma, dopo molti interventi che vengono fatti in laparoscopia, il paziente in tre giorni sta a casa, anche perché tutta la preparazione, tutto il cosiddetto pre-operatorio viene fatto sicuramente in modalità ambulatoriale, e non in modalità da ricovero.
I pazienti vanno a casa dopo tre giorni, perché il chirurgo sostiene che «ormai il punto è fermo» – che per lui è, ancora una volta, l'approccio tecnico – «l'intervento l'ho fatto, l'intervento è andato bene, che problema c’è ? Invece di stare ricoverato qui, il paziente può stare a casa sua, accudito dalla sua famiglia».
Peccato che anche le famiglie siano, in questo momento, in grande crisi, lo sappiamo tutti, la molteplicità delle famiglie. Conosciamo tutti il dramma della solitudine, sappiamo cosa succede quando il paziente in questione è un anziano; magari, un anziano che si è rotto un femore, è stato operato, fortunatamente, in ventiquattro ore, lo mettono in piedi, e quindi che torni a casa. Peccato che, dopo essere stata messa in piedi, questa persona non è in grado di fronteggiare tutte le altre esigenze che caratterizzano la sua autonomia nella vita di famiglia.
E a casa non c’è nessuno, perché la famosa assistenza domiciliare, che dovrebbe essere il costo ridotto, ma il costo che si integra alla luce del risparmio del costo ospedaliero, che, oggettivamente, è stato proprio ridotto all'osso, quel servizio, di fatto, non è mai partito. E questa è un po’ la tragedia che i nostri malati sperimentano in questo periodo: da un lato, l'eccellenza delle prestazioni sotto il profilo tecnologico, e questo ci fa dire che noi abbiano bisogno, in fondo, di pochi ospedali ad altissima tecnologia, in grado di fornire prestazioni di assoluta eccellenza, ma, poi, abbiamo bisogno di una rete di assistenza, che è quella che si snoda proprio nella qualità di cura, nella qualità dell'attenzione; ma questo necessita di persone, necessita di attenzione, necessita di qualcuno che guardi in faccia questi malati, che li vada a trovare a casa.
Penso alla narrazione, di alcuni giorni fa, di una giovane donna che aveva partorito, che è tornata a casa: non c’è la mamma, non c’è la suocera, vale a dire le figure di riferimento privilegiate, che sono quelle che si prendono cura di te, che ti insegnano anche come, per così dire, maneggiare il bambino, come gestirlo. Non vi è nessuno e poi ci stupiamo che vadano in depressione : è il minimo che possano fare.
E questo è un po’ il sistema. Per questo, il personale è una ricchezza straordinaria, e risparmiare sul personale significa attivare un processo della non qualità; e a me sembra importante questo, a me sembra importante che si faccia una programmazione che leghi questi tre indici. Il primo: quanti studenti iscrivo al corso di laurea in medicina, per infermiera, per fisioterapista, per tecnico di laboratorio, per tecnico di radiologia, per dietista e così via ? Quanti ne servono ?
Questo è il numero che mi dà il Ministero della salute. E a chi lo dà il Ministero della salute ? Al Ministero dell'università ! Ma, poi, vi è l'altro numero importante: se ho deciso che questo è il fabbisogno del personale di qui a dieci anni o di qui a cinque anni, poi devo metterlo in condizione di specializzarsi. E tutti conosciamo l'annoso e drammatico scollamento che vi è tra il numero degli iscritti alla facoltà di medicina e il numero di borse che sono disponibili, che poi non sono borse, ma sono contratti di lavoro che sono disponibili per gli specializzandi.
Sappiamo che, anche quest'anno, nonostante lo sforzo fatto sia dal Ministero della salute che dal Ministero dell'università e della ricerca, vi è uno scollamento di quasi 3 mila unità. Ma poi vi è un'altra possibilità. E, dopo che ho investito dieci anni nella formazione queste persone, sei anni di laurea, quattro anni di specializzazione, quando non sono cinque, dieci anni di specializzazione, sicuramente con una partecipazione delle famiglie, ma anche, in grande misura, a carico dello Stato, poi che cosa ho ?
Ho quella drammatica sottoccupazione degli specializzati, non degli specializzandi, che non riescono ad entrare da nessuna parte e che, per bene che gli vada – i più brillanti fanno questo – migrano all'estero. Ma non è una migrazione di scarso profilo, è una migrazione che è costata un investimento di 10 anni, tutto per poi regalare questo personale a tante altre strutture che lo chiedono, che lo apprezzano e a cui, peraltro, offrono dei contratti di lavoro altamente competitivi.
Ecco, quindi, la necessità di avere quella visione d'insieme tra la programmazione sanitaria, la programmazione accademica, la prospettiva del tempo, perché a noi quello che ci preoccupa è quando leggiamo che il blocco del deve arrivare fino al 2020. Tutto succederà nel 2020, Horizon nel 2020, il Trattato di Bologna nel 2020. Mi auguro di esserci nel 2020 per capire poi, di fatto, cosa succederà, ma anche il blocco del r è stato prolungato sino al 2020.
Questo vuol dire sei anni di prospettiva e sei anni sono una vita. I sociologi dicono che in cinque anni c’è un tale cambiamento nel sistema da, veramente, generare strutture sociali imprevedibili all'inizio del quinquennio. Noi non sappiamo cosa succederà in Italia sotto tanti punti di vista. Sicuramente stiamo assistendo, in questo momento, ad un di patologie che non avevamo visto. Ci sono ragazzi che ti dicono «io non avevo mai visto la scabbia», perché certo è difficile nei nostri ospedali, a parte fargli vedere le figure sui libri, anche mostrargli il paziente con la scabbia. Adesso, come adesso, sì certo, vedono i pazienti con la scabbia, vedono i pazienti che sono vittime di un contesto sociale, in qualche modo, trascurato, di condizioni igieniche inadeguate. Non sappiamo tra cinque anni cosa ci dirà l'epidemiologia e quali saranno le patologie emergenti.
Noi stiamo passando da quella che sembrava un'emergenza a quello che sta diventando un vero e proprio cambiamento strutturale. Quindi, veramente, potrei continuare a lungo nella descrizione dei mali della sanità, ma la descrizione dei mali della sanità ci addolora tutti, perché è con questi mali che noi dobbiamo curare.
Vi sono due famosi aforismi, uno che dice «», quindi noi non potremo curare il sistema sanitario nazionale, se non abbiamo curato i medici; ma ce ne è anche un altro, che è la grande metafora del guaritore ferito; soltanto un medico che è passato anche lui per un'esperienza personale di disagio, in qualche modo, di complessità, di difficoltà, riesce a sviluppare poi quella sensibilità che lo mette in condizione di dialogare con gli altri.
Allora, quale potrebbero essere le parole chiave ? Quali, di fatto, sono le parole chiave della nostra mozione ? Da un lato, previsione e, dall'altro, formazione. Da un lato, mobilità certamente, mobilità intraregionale e interregionale. Preferiremmo la mobilità interregionale, piuttosto che vedere andare sempre all'estero i nostri studenti, e spesso i migliori dei nostri studenti. Quello che in qualche modo è, da un lato, la flessibilità e, dall'altro, la stabilità. È chiaro che è un punto di equilibrio dinamico quello che si deve cercare, ma è il punto di equilibrio che farà la fortuna in qualche modo, di questa nostra sanità che, nonostante tutto, continua a servire, continua a curare, nonostante tutto, i nostri medici sono tra i migliori.
Ci vuole un punto di equilibrio tra i lavori usuranti che questi medici si trovano in questo momento a fare e quelle che sono le tensioni per il personale. Non vorremmo leggere sui giornali del rischio dello sciopero. Lo sciopero dei medici è una di quelle cose che ci risultano totalmente insopportabili, perché non si può far scioperare personale che deve farsi carico poi di persone in gravi difficoltà.
Quindi, la mozione punta a questo, a garantire in qualche modo la stabilizzazione del personale, la riduzione del precariato, a rilanciare la formazione, punta in qualche modo a chiedere davvero che piccole misure, come quelle della mobilità interregionale, oltre che intraregionale, possano davvero permettere a questi nostri medici di trovare la collocazione che è più dignitosa per loro, ma soprattutto più utile e più efficace per i malati.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Nicchi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00904. Ne ha facoltà.
MARISA NICCHI. Grazie, Presidente. Io voglio iniziare la presentazione della nostra mozione con un ringraziamento a tutti gli operatori e le operatrici sanitarie del sistema pubblico, un ringraziamento non formale, perché in questi anni di sciagurate politiche di dimagrimento del sistema e di definanziamento del sistema sanitario hanno garantito le cure in condizioni di lavoro – le loro – peggiorate e sempre più gravose, privati di prospettive professionali ed economiche.
Non mancano nel nostro sistema disfunzioni, diseconomie, fenomeni di lassismo e purtuttavia non possiamo che dire che, se il sistema ancora funziona, soprattutto in alcune aree del nostro Paese, è per il carico che tanti e tanti operatori si sono sobbarcati per garantire il servizio. È un processo che è stato denunciato dai sindacati, da molte associazioni, che il professor Caricchi, per esempio, ha definito come un processo di decapitalizzazione del lavoro in sanità.
Questo è molto grave. È avvenuto – lo abbiamo detto – sotto gli occhi di tutti, attraverso il blocco dei contratti da sei anni. Ora, il blocco dei contratti non solo ha implicazioni economiche pesanti per gli operatori stessi, ma è anche un impedimento ad un uso della contrattazione come veicolo e tramite anche di nuove forme di organizzazione e di qualificazione del lavoro in sanità. Vi sono poi lo stesso blocco del – e ci torniamo perché è il caposaldo di questa architrave di questa politica di decapitalizzazione del lavoro in sanità – oppure i processi di riduzione e compressione degli standard, finalizzati alla definizione di organici sottostimati, di organici ridotti, il ricorso al precariato, le esternalizzazioni per usare un personale a basso costo, oppure l'utilizzo di personale in convenzione. Sono tutte queste modalità che hanno prodotto questo processo di impoverimento del lavoro in sanità.
Poi vorrei usare un'altra parola, quella di demansionamento che, in questo nostro settore, nell'organizzazione sanitaria, è stato già ampiamente praticato prima ancora che arrivasse la legittimazione del Jobs Act. Infatti, il demansionamento è praticato a man bassa nel sistema sanitario pubblico ed è quel fenomeno per cui c’è un uso distorto del lavoro per sopperire alle carenze di organico, per sopperire alle disfunzioni legate a mancanza di personale, che chiedono ad altri di fare dei lavori anche che non corrispondono alla loro professionalità. Infatti, i numeri lo dicono: dal 2009, con la crisi, al 2013 gli occupati nel servizio sanitario nazionale sono diminuiti di oltre 23 mila unità e, rispetto al 2012, si è registrato un calo di oltre 3 mila unità, meno lo 0,5 per cento.
Il blocco del per il personale impedisce il ricambio generazionale. Ha fatto sì che circa un terzo del totale del personale abbia tra i 51 e i 59 anni, con carichi di lavoro sempre più usuranti, che naturalmente si ripercuotono sull'assistenza sanitaria, per esempio, in alcuni anelli del sistema molto, ma molto delicati: penso a tutto il sistema dei pronto soccorso che, per definizione, prevede un'organizzazione stressante e attiva ventiquattro ore su ventiquattro.
Insomma, siamo immersi in una politica che considera il lavoro un costo da comprimere e non un valore, che vede il lavoro sempre più come un'opportunità di risparmio e non un investimento, un'occasione di miglioramento della qualità dei servizi sociosanitari da erogare per garantire i livelli essenziali di assistenza.
La decapitalizzazione del lavoro è un importante pezzo che, insieme alla linea dei tagli al servizio sanitario nazionale, ha ridotto drasticamente gli investimenti in questo settore.
E dobbiamo sempre ricordare che la spesa sanitaria in Italia risulta inferiore a quella dei principali Paesi europei e una delle più basse nella media dell'OCSE. In fondo, questo è un tema che dobbiamo sempre avere presente, il sistema sanitario italiano rimane tra i meno costosi al mondo.
Le politiche di definanziamento del sistema, insieme alla politica dei che è stata abbondantemente praticata in questi anni, ha reso – e gli effetti sono evidenti – più competitive le prestazioni dei privati e ha messo in crisi i diritti alle prestazioni sanitarie di larghe fasce della popolazione, aggravando le disuguaglianze nell'accesso alle cure. Questo è uno dei problemi che si sta aggravando in modo pesante nel nostro Paese.
Una recente ricerca del Censis salute di questi giorni ha fatto emergere come gli ingolfamenti del sistema per le lunghe liste di attesa rendano, anche a fasce di popolazione medio-basse, più conveniente il ricorso al privato. Un miliardo di euro in più in un anno è uscito dalle tasche di cittadine e cittadini, per un totale di 33 miliardi nel 2014, più 2 per cento rispetto all'anno precedente. Diciamola in sintesi: pagare diventa per tutti, anche per le persone con redditi bassi, la condizione per accedere alle prestazioni in tempi realistici.
Noi dobbiamo affrontare questo tema. È un tema di primaria grandezza nelle scelte del Governo: il diritto alla salute e alle cure dei cittadini oggi è compromesso e rischia. Di fronte a questa sfida il documento economico del Governo cosa fa ? Programma un impoverimento ulteriore, visto che ha previsto un progressivo calo del rapporto tra spesa sanitaria e prodotto interno lordo, dal 6,8 del 2015 al 6,5 dell'anno 2019, ovvero – ripeto – la programmazione di un impoverimento graduale. Poi, se aggiungiamo i tagli al fondo sanitario nazionale a decorrere dal 2015, stabilito dall'intesa Stato-regioni, e quelli all'edilizia sanitaria, è chiaro che il quadro diventa e appare in modo evidente molto, molto difficile.
Ed è chiaro anche dove si va a parare. Questo noi lo evidenziamo e ne faremo occasione della nostra battaglia. Infatti, si sta sempre di più andando verso un sistema sanitario a due binari: uno pubblico, sempre meno efficiente, non adeguato, destinato alle fasce sociali medie e basse, ed un sistema misto, pubblico e privato, di sanità integrativa, finanziato con assicurazioni sanitarie private o di categoria e, per così dire, con prestazioni migliori destinate ai cittadini con maggiori possibilità economiche.
La stessa Corte dei conti ha ricordato come – cito la sentenza della Corte – ulteriori risparmi ottenibili da incrementi di efficienza, se non reinvestiti prevalentemente nei settori dove è più carente l'offerta di servizi sanitari, come ad esempio nell'assistenza territoriale e domiciliare, oppure nell'ammodernamento tecnologico infrastrutturale, potrebbero rendere problematico il mantenimento dell'attuale assetto dei LEA, facendo emergere nel medio periodo deficit assistenziali più marcati nelle regioni meridionali, dove sono relativamente più frequenti le carenze.
Di fronte a questo la Ministra della salute Beatrice Lorenzin – colgo quest'occasione anche per farle gli auguri per i suoi due bambini, la sua bambina e il suo bambino, appena nati – dichiara e ammette: la sanità, al di là dei risparmi di efficienza ottenibili, ha bisogno di più risorse, soprattutto su tre fronti – lei dice –, ossia innovazione, investimenti, ricerca e personale.
Ecco, anche lei è entrata pienamente nella scia e nell'abitudine di questo Governo in cui si fanno grandi annunci, grandi promesse, ma la realtà dei fatti e dei dati economici è molto più dura, ossia è quella dei tagli di cui si è parlato prima e di questo processo di impoverimento del lavoro nella sanità che è oggetto della nostra discussione e delle mozioni che presentiamo. Noi indichiamo alcuni punti e vedo che molti punti sono anche unitari. Vedo che c’è un'attenzione, una tendenza a una sensibilità unitaria rispetto a questi temi. Mi auguro che dalla discussione e dopo la discussione il Governo prenda impegni precisi, anche per smentire questa pratica insopportabile degli annunci e delle promesse mancati perché si tratta di questioni serie, si tratta del diritto alla salute. Ecco, cito i punti per titoli. Innanzitutto, interrompere, anche gradualmente, ma in modo forte e determinato, il blocco del a partire anche da quelle regioni che devono rientrare dei disavanzi, laddove prioritariamente continuare a bloccare il personale mette in discussione l'affermazione e la garanzia dei livelli di assistenza o laddove il blocco del impedisce processi di riorganizzazione e di qualificazione dei servizi.
L'altro punto è una stabilizzazione del personale precario perché la stabilizzazione del personale in sanità è fondamentale, è una condizione per avere prestazioni di qualità. E anche qui credo che si debba assumere la stessa giusta attenzione che è stata posta alla stabilizzazione del personale della scuola pubblica perché sanità pubblica e scuola pubblica sono architravi di due diritti fondamentali. Altro tema è la riqualificazione della spesa sanitaria prevedendo un obbligo che è quello che tutti i risparmi conseguiti attraverso la attraverso questa azione mirata di risparmio, rimangano nel sistema sanitario, vengano investiti per la valorizzazione del lavoro nel sistema sanitario pubblico. Altro tema è quello di favorire una migliore mobilità regionale, una mobilità concertata e condivisa con i lavoratori e le lavoratrici, e razionalizzare e riformare la rete ospedaliera contestualmente affiancata da un reale e convinto sviluppo dell'assistenza territoriale, affinché l'assistenza territoriale abbia le risorse fondamentali, a partire dal personale, perché possa realizzarsi pienamente e possa, quindi, rispondere ai bisogni di assistenza domiciliare integrata, residenziale e semiresidenziale e garantire i livelli essenziali di assistenza.
Ma tutto questo sarà possibile se fin dalla prossima legge di stabilità si individueranno concretamente le risorse necessarie per consentire una ripresa dei finanziamenti del sistema sanitario nazionale che, come sono stati ben descritti, hanno avuto un taglio pesante. Più investimenti per le politiche sociali perché i nostri indici sono al di sotto della media europea e dell'OCSE. Insomma, noi oggi affrontiamo questo tema e mi auguro che la presente discussione parlamentare possa fare davvero dei passi concreti in avanti per superare questo depauperamento progressivo e pesante del nostro sistema sanitario nazionale ed affermare pienamente il diritto alla salute.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Palese, che illustrerà anche la mozione Palese e Fucci n. 1-00905. Ne ha facoltà.
ROCCO PALESE. Grazie signora Presidente, è occasione per il Parlamento di fare una ricognizione sul problema della gestione del Servizio sanitario nazionale.
Non c’è dubbio che è stata una grande ricchezza la scelta politica che fu fatta nel 1978, con la legge n. 833, con cui si è determinata per il nostro Paese una grande attuazione della Costituzione su un bene primario che è la salute: l'accesso universalistico. Quindi il nostro grande obiettivo è cercare di puntare veramente sul mantenimento di questa grande conquista, di questa grande scelta politica. Così pure è fin troppo evidente che nel contesto dei trentasette anni da questa scelta politica, noi come Paese dal punto di vista gestionale non solo per motivi esclusivamente finanziari, perché influirono anche i motivi finanziari e di razionalizzazione della spesa pubblica, ma anche rispetto alla finalità di un nuovo modello organizzativo e funzionale di della sanità, nel 1992, a seguito della legge delega n. 421 del 1991 del Governo Amato con cui riformava la previdenza, la sanità, il pubblico impiego e anche la finanza territoriale, sulla sanità si decise una grande riforma che puntava in particolare a quale modello organizzativo ? All'aziendalizzazione della sanità. Uno dei grandi problemi è che questa aziendalizzazione è stata sempre un ibrido, sempre attuata a metà, aziendalizzazione sulla carta ma poi tutte le regole dalla parte della pubblica amministrazione. Quindi di aziendalizzazione poi alla fine non c’è stato molto. E per quello che riguarda gli altri elementi fondamentali si puntava molto anche rispetto alle possibilità di accesso non solo alle prestazioni ma anche al sostenimento del servizio sanitario con le risorse pubbliche ma anche con la costituzione di fondi integrativi e anche qui per motivi ideologici non se ne è mai parlato, sono rimasti sulla carta. L'altro elemento è il sistema di accreditamento degli erogatori di prestazioni senza che, una volta avuti i requisiti istituzionali standard, vi fossero distinzioni sull'erogazione delle prestazioni rispetto ai soggetti accreditati poi per la stragrande maggioranza – oltre il 96 per cento – a gestione pubblica, il resto a gestione privata.
L'altra innovazione non di poco conto per quello che riguarda i cittadini l'abbiamo avuta per legge con il comma 34 dell'articolo 1 della legge n. 662 del 1996, con Ministro della salute Bindi e Presidente del Consiglio Prodi. Qui cambia il mondo, perché cambiano i criteri di reparto del Fondo sanitario nazionale con una penalizzazione che c’è stata di fatto perché, a parità di abitanti, alcune regioni del sud come la Puglia presero 900 miliardi di vecchie lire in meno rispetto ad altre regioni del nord come l'Emilia Romagna grosso modo a parità di abitanti e, da quel momento, di fatto e nei fatti in maniera inevitabile furono costituiti nel nostro Paese ventuno sistemi sanitari diversi tra di loro.
L'altra innovazione che c’è stata, anche questa di forte impatto sui cittadini, è la riforma Bindi, il decreto legislativo n. 229 del 1999. Non entro nelle polemiche che poi ha comportato anche rispetto al modello organizzativo, ma mi soffermo su un'altra scelta che ha avuto un grande valore politico, certamente da me non condiviso e dai cittadini non condiviso, quale ? Si certifica e si legifera per la prima volta nel nostro ordinamento legislativo che il Servizio sanitario nazionale è sostenuto da risorse pubbliche e dalla compartecipazione dei cittadini con i . Questa non è stata una modifica di poco conto, come è stato sempre sostenuto, e di grande solidarietà, perché poi alla fine ognuno deve fare i conti con quelli che sono i costi e quant'altro.
La legge finanziaria del 2001 innova ulteriormente, perché si toglie il vincolo di destinazione del Fondo sanitario nazionale, tutto diventa bilancio delle regioni e, quindi, se si va in disavanzo, bisogna pagare con il patto dell'8 agosto del 2001, che fu l'ultimo ripiano in quota parte da parte dello Stato e poi le regioni hanno dovuto provvedere esclusivamente da sole a sostenere il servizio sanitario regionale. In pratica, c’è stato il trasferimento, a seguito del riparto del Fondo sanitario nazionale, e poi, se c'erano disavanzi e quant'altro, le regioni hanno dovuto provvedere con un e con l'aumento esponenziale delle addizionali regionali.
In tutto questo quadro, penso che sia veramente abbastanza difficile dire che nel nostro Paese, oggi, sono assicurati, in maniera uniforme, per tutto il territorio nazionale, i livelli essenziali di assistenza. Si dice da più parti che il Fondo sanitario nazionale rispetto al prodotto interno lordo non è adeguato, così come d'altra parte si parla molto della spesa sanitaria; sicuramente c’è un grande problema, che si è avuto negli anni, nell'acquisizione soprattutto di beni e servizi all'interno del Servizio sanitario nazionale, che, stando ai rapporti degli enti preposti, riguarda tutte le regioni. Mi riferisco allo sviluppo molto forte, così come forse quello della salute e dell'innovazione tecnologica, che c’è stato all'interno della gestione delle ASL e quant'altro della corruzione. Ci sono tanti casi – prendo quelli della regione a cui appartengo –, in cui ancora oggi il procuratore generale della Corte dei conti regionale si chiede come sia possibile che una ASL acquisti il taglia aghi, cosa che si faceva trent'anni fa, e pure per prezzi molto sostenuti, oppure che ci sia una differenza di costo su alcuni beni e servizi addirittura di oltre 200 volte.
Davanti a una situazione del genere è fin troppo evidente che si sta inventando un'altra favola e la favola è quella dei costi standard. Attenzione, perché, se noi individuiamo dei costi standard e facciamo credere alla gente che la matita o la TAC o l'ecografo devono costare «x» euro a Lecce così come a Milano, così come a Torino e quant'altro, siamo d'accordo, ma non sono quelli i costi standard. Per fare questo è sufficiente il centro unico di acquisti ed è sufficiente Consip.
Io penso, invece, che sulla situazione dei costi standard bisogna riflettere, perché, se noi avessimo la possibilità di fare una ricognizione su tutto quello che c’è all'interno della sanità, avremmo sicuramente delle sorprese. Ci sono delle regioni dove, a distanza di 37 anni, per esempio, i distretti sociosanitari di base sono una specie di poesia; c’è poi da risolvere il problema che riguarda l'edilizia sanitaria, con i fondi che non vengono sfruttati affatto nella situazione generale di molte, molte regioni.
Non c’è dubbio che nelle ultime scelte di finanza pubblica, cioè sulla spesa che, rispetto al bilancio dello Stato, è la seconda – noi abbiamo al primo posto la previdenza, al secondo posto, con 110 miliardi di euro, la sanità, al terzo posto la quota per interessi del debito pubblico, e così via – non possiamo considerare come spesa solo i 110 miliardi di euro di risorse pubbliche, perché sarebbe un errore. Qui c’è da aggiungere almeno la cifra che si stima intorno ad altri 50 miliardi di euro di risorse che la gente, i cittadini sono costretti a pagare da soli per quello che riguarda le prestazioni a cui provvedono per conto proprio, soprattutto nel contesto dei farmaci, ma non solo dei farmaci, perché vi sono anche le prestazioni specialistiche e quant'altro, che non sono contemplate nei livelli essenziali di assistenza e, peggio ancora, vi sono alcune innovazioni che non sono state ancora introdotte nell'elenco dei livelli essenziali di assistenza. In questo senso penso che una ricognizione generale vada fatta.
Vi sono, poi, regioni con i piani di rientro.
Anche qui sulle regioni con i piani di rientro bisogna che ci sia qualche elemento più forte di controllo al loro interno, perché ci sono i sui farmaci, sulle ricette, sulla specialistica e sui pronti soccorsi, come le addizionali regionali e così via. Ogni regione è un mondo a sé e poi alla fine succede che per quello che riguarda i beni e i servizi la quota annuale di spesa non diminuisce, ASL per ASL, così come ci dicono i dati ISTAT ed il rapporto nella relazione sulla finanza pubblica preparata dall'ISTAT. E così pure c’è anche la parte riguardante il personale dove c’è il blocco dei contratti per 6 anni e poi anche il blocco del . Quest'ultimo non è che sia assoluto, visto che c’è il blocco del in maniera diretta, ma poi ci sono le società e quant'altro, le società partecipate: si fa di tutto all'interno della sanità.
Secondo me c’è da fare una ricognizione – signora Presidente, mi rivolgo, in particolare, al rappresentante del Governo – molto ferrea, anche rispetto alla riforma costituzionale che è in discussione. Infatti, gran parte delle difficoltà sono presenti, soprattutto, per fortuna, in alcune regioni. Infatti bisogna ammettere che molte regioni hanno gestito, tutto sommato, in maniera virtuosa le risorse pubbliche trasferite dallo Stato e non solo in maniera virtuosa, ma hanno prodotto assistenza di qualità, basta vedere l'altra stortura che c’è nel nostro paese, quella della mobilità passiva. Ci sono invece altre regioni, in particolare quelle con piano di rientro, dove non solo c’è un problema economico-finanziario e gestionale, ma soprattutto c’è un problema di modelli organizzativi che vanno seguiti in maniera appropriata. Ecco perché penso che, al di là degli impegni che il Governo potrà assumere, al di là del patto della salute che dovrà essere fatto, non si può continuare a dire che per ogni legge che si fa, in ogni intervento di finanza pubblica del Governo, vuoi decreti correttivi, vuoi legge di stabilità, c’è sempre dentro la parte riguardante la spesa sanitaria, per cui alla fine poi non si riesce ad avere un punto fermo.
L'altro elemento è che nella costituzione di un modello organizzativo che dovrebbe essere abbastanza innovativo, mi riferisco ai rappresentanti di Governo, vanno tenuti presenti due aspetti fondamentali. Il primo è che non si può continuare con l'aziendalizzazione che sta solo sulla carta. Si deve prendere il coraggio a quattro mani, con la politica fuori veramente dalla gestione della sanità, per tirare fuori i manager che gestiscono veramente la sanità in maniera manageriale e aziendale.
L'altro aspetto riguarda soprattutto le regioni che sono in grande ritardo con l'innovazione e l'edilizia sanitaria. In questo senso, il Governo deve pensare a qualche intervento sostitutivo perché queste regioni tengono ferme le risorse e i soldi per l'edilizia sanitaria che non vengono per niente spesi nella maniera giusta per poter realizzare le strutture innovative. Penso che questo impegno, al di là della mozione riguardante senza dubbio il personale e i nuovi modelli organizzativi e gestionali che devono essere rivisitati in un contesto di sostenibilità della situazione, pure rispetto ai livelli essenziali di assistenza da assicurare in maniera uniforme sul territorio nazionale, il Governo dovrebbe assumere una iniziativa molto forte di ricognizione generale e tirar fuori una proposta organica complessiva che riguarda la sostenibilità finanziaria, il modello organizzativo e il sistema sanitario stesso di tutte le regioni, in particolare di quelle meridionali, dove qualità, mobilità passiva e non solo questo, anche altre situazioni molto più discutibili dal punto di vista dell'erogazione delle prestazioni in riferimento al rispetto della Costituzione, debbano essere senza dubbio rivisitate.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Monchiero, che illustrerà anche la mozione Vargiu ed altri n. 1-00907, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
GIOVANNI MONCHIERO. Signora Presidente, credo di interpretare il sentimento dei colleghi che con me hanno firmato questa mozione dicendo che noi non abbiamo nessuna intenzione di surrogare le rappresentanze sindacali, le quali peraltro non hanno neanche bisogno di particolari stimoli a fare la loro attività, perché è di queste ore la notizia che il maggiore sindacato dei medici, il più rappresentativo, l'ANAAO, sta minacciando lo sciopero e i motivi di questa protesta sono pur sempre gli stessi: il rinnovo del contratto, fermo da moltissimi anni; la calendarizzazione di una legge sulla responsabilità professionale dei medici e del personale sanitario; poi naturalmente interventi per lo sblocco del e la stabilizzazione dei precari.
Ora, lasciando al sindacato il suo mestiere, è indubitabile tuttavia che il malessere che il sindacato segnala è lo stesso malessere che rivelano anche le associazioni dei cittadini e i centri di ricerca universitari oppure centri di ricerca sociale piuttosto noti come il Censis, che non da oggi osservano come le politiche di contenimento della spesa attuate prevalentemente attraverso il blocco del del personale sanitario abbiano prodotto una probabilmente indesiderata – ma questa è un'aggravante – riduzione nel volume di attività e in molti casi anche una crescente significativa carenza sul piano della qualità.
Di questi problemi si occupa la nostra mozione, riprendendo anche i temi toccati da molti colleghi – non voglio assolutamente pensare che la nostra sia del tutto originale, tutti più o meno riprendiamo gli stessi concetti –, ma la nostra si allarga e pone l'attenzione anche su alcune condizioni generali di contesto caratterizzate dall'invecchiamento del personale sanitario, dal presumibile picco di pensionamenti frutto, da un lato, di invecchiamento e, dall'altro, dell'abbassamento dei limiti dell'età pensionabile disposto credo con un pizzico di incoerenza da misure recenti adottate dal Governo.
Lamentiamo anche e vorremmo che il Governo assumesse soluzioni definitive in materia di accesso alle scuole di specializzazione, che è incomprensibilmente compresso e non rapportato alla domanda di laureati che devono specializzarsi, perché il nostro sistema normativo glielo impone. Naturalmente i medici, come osservava adesso citando l'ANAAO, chiedono che venga finalmente vagliato un nuovo insieme normativo sulla responsabilità propria del personale sanitario in materia di responsabilità civile e penale.
Inoltre, evidenziamo anche un tema che ha sollevato or ora il collega Palese, cioè quello delle logiche di organizzazione del sistema, con particolare riferimento alle logiche di finanziamento delle aziende sanitarie, logiche che non sono spesso trasparenti, ma che in ogni caso non sono produttive di quel miglioramento dell'efficienza che, invece, il processo di aziendalizzazione avrebbe voluto.
Allora, noi nella nostra mozione chiediamo alcune cose. La prima è che il Governo dia notizia esatta della situazione e della dotazione organica delle varie aziende, delle singole aziende sanitarie. Credo che, rapportando la dotazione organica ai volumi di prestazioni prodotte, avremmo delle sorprese clamorose, così come le abbiamo ogni volta che confrontiamo il finanziamento pesato naturalmente in base all'età della popolazione e fra un'azienda e l'altra, spesso anche all'interno della medesima regione.
Noi chiediamo che, dopo aver assunto questa fase cognitiva, il Governo ne tragga le conseguenze logiche e quindi promuova uno sblocco del o almeno un'attenuazione dei vincoli, tarata e misurata in base alle esigenze reali, che rilanci il processo di promozione del personale sanitario e che soprattutto programmi meglio, assieme al Ministero dell'università e della ricerca, il processo di specializzazione dei medici.
Infine, chiediamo un'accelerazione anche dell'applicazione del Patto della salute.
Per ottenere questi risultati, però – e qui penso che sia anche una parziale originalità della nostra proposta –, noi sottolineiamo, ancora una volta, signor sottosegretario, la necessità di promuovere una reale autonomia delle singole aziende sanitarie, autonomia troppo compressa, in questi ultimi anni, da politiche di accentramento regionale, che hanno reso inutile, anzi dannosa, l'efficienza all'interno delle singole aziende.
Noi dobbiamo rivedere le logiche di governo complessivo del sistema e mettere in essere un processo che rilanci l'autonomia delle aziende e valorizzi di più innanzitutto la responsabilità del di queste aziende, ma anche di tutti coloro che nelle aziende lavorano e collaborano. Noi dobbiamo fare questo e costruire un sistema che a cascata consenta alle aziende di chiedere maggiore efficienza alle strutture interne, che devono tutte essere motivate al raggiungimento dell'obiettivo, ma per ottenere questa motivazione è ineludibile che dall'essere efficiente l'azienda ne tragga un beneficio (l'azienda e non il direttore o i singoli professionisti). L'azienda più efficiente deve essere valorizzata. Le misure di contenimento, che abbiamo registrato in questi anni, invece vanno nella direzione opposta, così come le misure adottate in materia di personale.
Signor sottosegretario, delle due l'una: l'azienda deve essere responsabilizzata e solo in questo caso possiamo abbandonare le da tutti lamentate politiche di tagli indiscriminati, i famosi tagli lineari che tutti osteggiamo e che poi, però, sistematicamente quando legiferiamo traduciamo in norme cogenti. Se vogliamo abbandonare il sistema dei tagli lineari non c’è altra via – anche per quanto riguarda le politiche del personale – rispetto alla responsabilizzazione dell'azienda.
Noi auspichiamo un mondo sanitario italiano nel quale ogni singola azienda possa decidere autonomamente i livelli di secondo risorse che le siano assegnate attraverso criteri trasparenti e simili a quelli di tutte le altre aziende .
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Fossati. Ne ha facoltà.
FILIPPO FOSSATI. Grazie, Presidente. Le mozioni in discussione, in particolare quella a cui io mi riferisco, che è presentata dalle colleghe Lenzi, Miotto e Gelli per il PD, propone al Governo di intervenire non fuori dal contesto delle politiche che il Governo stesso sta conducendo, ma nel contesto; nel contesto, cioè, di una politica di contenimento della spesa, di recupero del debito delle regioni che lo hanno prodotto e di una politica attuata assicurando i livelli essenziali di assistenza e facendo uno sforzo intenso e rapido di qualità nelle prestazioni del sistema, di qualità e di appropriatezza, cosa che si è fatta utilizzando lo strumento della . I colleghi l'hanno già detto e non ci ritorno. Il tentativo è stato quello di intervenire su tutti quei fattori che producono spesa senza produrre risultati di miglioramento nelle condizioni di salute dei cittadini.
L'operazione ha avuto, tuttavia, una dimensione quantitativa importante e pesante per il sistema. È stata, per alcuni versi, una cura da cavallo che il sistema ha ricevuto e non solo nelle regioni in piano di rientro fino all'anno 2013, l'anno in cui c’è stata una diminuzione della spesa sanitaria. Sappiamo che, quando il segno diventa meno, diventa meno al netto dell'inflazione sanitaria, che, essendo determinata anche da riflessi internazionali, non è una variabile del tutto controllabile o affrontabile dal sistema e, quindi, il segno meno è un segno «meno meno», che aumenta la negatività del trasferimento di risorse.
Nel 2014 si registra un aumento lieve. Nel 2015, con la legge di stabilità, è già previsto un taglio di 2,6 miliardi, che dovrà essere discusso operativamente – e ancora questa discussione non è conclusa – nell'ambito della Conferenza Stato-regioni dentro il quadro del Patto per la salute.
Noi abbiamo fatto questa operazione mantenendo e attestando la spesa sanitaria del Paese sotto il 7 per cento del PIL, ma con un PIL in calo, e questo è un altro punto; è un assestamento doloroso anche percentualmente rispetto al PIL.
Sono usciti, pochi giorni fa, i dati della Banca d'Italia che ci danno un quadro sulla redistribuzione di questo sacrificio abbastanza pesante. Ci dicono che il peso del risanamento è stato in gran parte sopportato dal personale sanitario. Dal 2006 al 2014, due quadriannualità, il potere di acquisto degli stipendi del personale sanitario è passato, anche in valori assoluti, da 19,7 euro l'ora a 17,4, quindi un taglio del 13,4 per cento in termini reali. E questo è un dato molto pesante e molto indicativo dell'operazione che abbiamo fatto.
Teniamo presente che questo andamento non sarà toccato – non è stato toccato nemmeno nel 2014, che è l'anno in cui è risalita appena la spesa dello 0,6 per cento –, perché questo aumento di spesa si è concentrato non sugli stipendi, ma sul valore dei beni e dei servizi acquistati dal Servizio sanitario. Opportunamente qualche collega prima ha ricordato che beni e servizi non vogliono dire le famose garze, che costano da una parte 3 e da una parte 300, e quindi c’è da vedere tutto quello su cui giustamente ci siamo esercitati e ci dobbiamo esercitare, ma vuol dire in grandissima parte la spesa per i convenzionamenti, e quindi per i servizi sanitari convenzionati.
Dicevo che, oltre al peso economico, per il personale sanitario c’è il peggioramento delle condizioni di lavoro, l'uso forte, qualche volta, in qualche situazione, estremo del lavoro straordinario. Il blocco del è un'operazione abbastanza efficace nel ridurre la spesa, ma è un'operazione che sbilancia i servizi, perché non si programma l'uscita del personale. Sbilancia i servizi e provoca un ricorso quindi eccessivo, perché i servizi vanno in qualche modo riequilibrati, se si vogliono garantire i LEA, agli straordinari, di cui ho già detto, ma è un lavoro precario più oneroso e negativo per quello che riguarda la qualità dell'offerta.
E poi c’è un dato più generale che non dobbiamo sottovalutare: tra gli operatori, tra i medici, tra gli infermieri, si riducono fino ad azzerarsi in molte parti del sistema i margini per l'aggiornamento professionale e per i progetti di ricerca. È un po’ la motivazione della formazione di cui parlava la collega Binetti, ma è in generale una caratteristica fondamentale del nostro sistema, ed è un sistema che non ha rinunciato ad essere competitivo in termini di qualità anche nella ricerca scientifica applicata nelle nostre sedi ospedaliere, nel nostro territorio. Adesso noi abbiamo gli operatori che avvertono che non si investe più su di loro e questo, in un sistema in cui la motivazione è fondamentale, fa male al sistema.
La stessa Banca d'Italia ci dice che le regioni in piano di rientro hanno dei risultati importanti di risparmio senza cedere sul piano dei servizi, ma poi, quando si va a leggere, la stessa Banca d'Italia conferma la distanza dalla media nazionale per i risultati del sistema delle regioni in piano di rientro e il prodursi di flussi di fuga verso altre regioni. È importante collegare questi dati ai dati del Censis, perché noi siamo in grado di calcolare bene nelle regioni in piano di rientro la produzione di flussi di fuga verso gli altri sistemi sanitari regionali.
Ma quello che fa abbastanza impressione è l'aumento anche nel 2014 di quello che i cittadini spendono da sé, del proprio bilancio familiare, che è 33 miliardi, un miliardo di aumento, 5,6 milioni di persone che sono ricorse a prestazioni private in sanità, tutte a carico del proprio bilancio familiare; e di questi 5,6 milioni, 2,8 milioni quindi la metà, sono meno abbienti. Si produce, si dovrebbe dire «sanità », che è basato purtroppo sul non avere le risorse insieme a non avere le informazioni necessarie per accedere al sistema, che è un tratto particolarmente fastidioso della disuguaglianza in sanità.
Quindi, siamo adesso in grado, dati questi numeri e dato il successo dell'opera di risanamento, siamo nelle condizioni di operare un intervento deciso sulla variabile capitale umano, dando agli operatori un segnale di attenzione e di condivisione delle problematiche che da tempo ci pongono.
In realtà, i tre punti sono stati ripetuti, li cito per titoli, in conclusione di intervento. Si tratta di: governare il senza blocchi, utilizzando la strategia già messa in piedi con la legge di stabilità, ridando spazio ad una programmazione dell'offerta da parte delle aziende sanitarie e delle dimensioni regionali; bisogna bloccare con molta attenzione e con fermezza la spesa per servizi esterni e privilegiare, invece, l'intervento di assunzione a tempo indeterminato, soprattutto sui settori sensibili (l'emergenza-urgenza e alcuni reparti ospedalieri, alcune dimensioni socio-sanitarie sul territorio); terzo punto, bisogna andare verso il rinnovo del contratto del comparto e, in particolare, mentre facciamo questo, costruendo una sede contrattuale della dirigenza medica, che è l'80 per cento – se non ricordo male – dell'intera dirigenza statale, che più che avere diritto, esprime un punto di ragionevolezza quando chiede una sede contrattuale autonoma.
Se il Governo, come sta facendo, si incammina rapidamente su questa strada, dà un segnale a questi operatori che anche in questi anni, anni di vacche magre e spesso molto magre, hanno reso un servizio importante per un diritto costituzionale come il diritto alla salute.
PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Il Governo mi pare intenda intervenire successivamente, il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Dambruoso, Cicchitto e Mazziotti Di Celso n. 1-00771 in materia di interventi per la prevenzione e il contrasto della minaccia terroristica di matrice jihadista
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea .
Avverto che è stata altresì presentata la mozione Artini ed altri n. 1-00906 che, vertendo su una materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è in distribuzione.
Avverto inoltre che la mozione Dambruoso, Cicchitto e Mazziotti Di Celso n. 1-00771 è stata sottoscritta anche dal deputato Fiano, che contestualmente, con il consenso degli altri sottoscrittori, ne diventa il secondo firmatario.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare il deputato Dambruoso, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00771. Ne ha facoltà.
STEFANO DAMBRUOSO. Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, i recenti episodi verificatisi in Europa e in diversi Paesi nello scacchiere mediorientale hanno evidenziato un innalzamento della minaccia terroristica di matrice jihadista e gli interventi sia di prevenzione che di repressione messi in campo dal Governo italiano con il decreto-legge 18 febbraio 2015 si ispirano proprio al principio secondo cui la lotta al terrorismo internazionale va realizzata in maniera unitaria, senza fare distinzioni tra sicurezza interna ed esterna, come dimostrato proprio dal fenomeno oramai troppo noto dai cosiddetti .
In questo preoccupante contesto, le scuole e gli educatori si confrontano ogni giorno con realtà sociali sempre più complesse, che derivano spesso da un'esasperata ricerca di identità o percorsi di integrazione non riusciti. Gli attacchi alla redazione di a Parigi, i due attacchi in Danimarca e la recente adesione di ragazzi occidentali, con un buon livello di istruzione, al cosiddetto «Stato islamico» sono solo alcuni esempi della difficile sfida educativa che gli studenti, da un lato, e gli insegnanti, dall'altro, devono affrontare.
Gli educatori svolgono, pertanto, un ruolo fondamentale per l'individuazione del disagio e la prevenzione del rischio di radicalizzazione dei nostri ragazzi e occorre creare una vera e propria rete sociale che, partendo proprio dalla scuola, coinvolga famiglie, associazionismo, istituzioni, e accompagni i bambini, sin dai primi anni di vita, nel loro percorso di sviluppo del pensiero critico e di rifiuto di ogni forma di estremismo.
Nel 2010, l'Unione europea ha adottato una «strategia di sicurezza interna», tra i cui obiettivi è incluso quello della prevenzione del terrorismo e del contrasto alla radicalizzazione. La maggior parte dei Paesi dell'Unione europea ha promosso politiche nazionali di contro-radicalizzazione mediante misure general-preventive dirette a sacche di popolazione particolarmente esposte al rischio di radicalizzazione e misure mirate per il recupero e il reinserimento di soggetti che manifestano segni di radicalizzazione, ovvero di soggetti già radicalizzati, inclusi i cosiddetti di ritorno.
La maggior parte di tali attività è incentrata sulla cooperazione della società civile, che viene considerata parte fondamentale nell'opera di prevenzione della radicalizzazione e svolge una funzione complementare, benché non sostitutiva, alle misure repressive tradizionali. Un progetto di grande interesse è stato elaborato, in occasione della conferenza RAN sulla radicalizzazione e l'istruzione, svoltasi a Manchester il 3 e 4 marzo del 2015, dove ben oltre 90 educatori, provenienti da tutti gli Stati membri dell'Unione europea, hanno realizzato e condiviso, per poi trasmetterlo ai Ministri dell'istruzione europei per il loro incontro a Parigi dello scorso 17 marzo sui medesimi temi, un'elaborazione importante.
Tra questi punti contenuti nell'elaborazione, i più significativi potremmo dire che riguardano proprio: la formazione specializzata e il supporto psicologico degli educatori, anche mediante l'impiego di linee telefoniche o siti dedicati; la definizione di una vera e propria strategia contro la radicalizzazione e l'estremismo, da perseguire con il dialogo, la diffusione di materiale informativo e corsi sul corretto utilizzo dei siti per contrastare la propaganda estremista; il contributo delle organizzazioni non governative che operano in territori di guerra, per offrire testimonianze anche mediante il coinvolgimento di ragazzi provenienti da quelle aree geografiche in veste di ambasciatori della gioventù e «consiglieri anti-pregiudizi»; l'incremento, inoltre, delle iniziative di prevenzione del fenomeno, favorendo la cooperazione tra gli istituti scolastici e le in essi sperimentate.
Con la presente mozione, Presidente, invitiamo il Governo ad adottare, anche nel nostro Paese, una strategia nazionale di contro-radicalizzazione, mediante la formazione di operatori qualificati e una campagna di prevenzione che coinvolga la società civile e le istituzioni qualificate a tutti i livelli. Siamo certi che solo con l'impegno congiunto si possa arginare e, con il tempo, alla fine, debellare questo grave fenomeno, generato più spesso da situazioni verosimilmente di disagio sociale e, inoltre, anche da reali finalità di natura terroristica, che spesso appaiono sempre più deboli. Avrei terminato, Presidente, e la ringrazio per la residua attenzione.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Ferrari. Ne ha facoltà.
ALAN FERRARI. Grazie, Presidente. L'intimità dell'Aula mi induce ad esporre piuttosto sinteticamente il mio contributo. Il Partito Democratico sostiene convintamente questa mozione del collega Dambruoso, l'ha sottoscritta per il tramite del collega Fiano, come ricordato dalla Presidenza, e la condivide nell'approccio che propone tanto quanto nelle azioni che prospetta.
Parlare oggi di terrorismo, in particolar modo di matrice religiosa, impone un'analisi geopolitica, sociologica e anche economica delle dinamiche che stanno interessando il mondo arabo, e non solo, e anche l'intero Occidente. L'inaudita di violenze e brutalità che sta connotando in questi ultimi tempi l'azione dei terroristi islamici e del terrorismo più in generale, oltre a scaturire da contrasti all'interno dello stesso mondo islamico, risiede in un solco colpevolmente scavato tra la nostra civiltà e la loro. Quest'Aula, però, non può e non deve essere un mero osservatorio di atrocità, non può limitarsi ad un'analisi storica, perché noi siamo tutti protagonisti di questa storia.
Dinanzi alle brutalità, dinnanzi al deplorevole tentativo di cancellare uomini, città, storie, forse intere civiltà, dinanzi a fenomeni con urgenti minacce alla sicurezza dei nostri cittadini, questo Parlamento ha il dovere di intervenire. La logica emergenziale che spesso tristemente contraddistingue il nostro Paese, questa volta deve lasciare il passo a quella della prevenzione e proprio questa parola, prevenzione, deve essere la nostra migliore arma. Per rispettare lo spirito pacifista della nostra Costituzione, e dell'articolo 11 in particolare, dobbiamo affiancare alla diffusa azione di una serie di strategie e programmi tesi alla lotta al radicalismo e al fondamentalismo.
Spesso le tragedie impongono una reazione forte e diretta che miri a placare la richiesta di giustizia nella popolazione, ma qui siamo di fronte ad una guerra dai contorni atipici, il nostro nemico non ha volto o ne ha molteplici. In più, quando una parte in causa nel conflitto, accecata dall'odio, trascende nel fondamentalismo, ritenendo che vi sia uno scontro di civiltà, le armi di contrasto sono inermi e le parole, spesso, possono diventare come spade. Per questo, anche in Europa, si sta cercando di promuovere politiche che sappiano farsi faro di programmi di prevenzione tesi alla deradicalizzazione.
È corretto, allora, richiamare a questo proposito il documento politico più esaustivo in materia, redatto dalla Commissione dell'Unione europea del 2014, che individua dieci settori in cui gli Stati membri dell'Unione europea sono chiamati a rafforzare le rispettive azioni per prevenire qualsiasi forma di estremismo che conduca alla violenza, indipendentemente dalla fonte di ispirazione. Gli Stati membri sono invitati a istituire programmi volti a facilitare ai membri dei gruppi estremisti l'abbandono della violenza e dell'ideologia soggiacente. Le dieci raccomandazioni – voglio ricordarle – tendono a sviluppare strategie nazionali, gli Stati membri, infatti, sono incoraggiati a istituire adeguati quadri di riferimento che coinvolgano le organizzazioni non governative e gli operatori in prima linea, i servizi di sicurezza e gli specialisti del settore, con l'obiettivo di promuovere in modo più efficace lo sviluppo di misure di prevenzione contro l'estremismo violento e il terrorismo. Secondo, creare una piattaforma europea della conoscenza per la raccolta e la diffusione delle migliori pratiche, nonché per l'elaborazione dell'Agenda di ricerca. Terzo, valorizzare le attività della rete per la sensibilizzazione in materia di radicalizzazione. Quarto, sviluppare e agevolare la formazione degli operatori in prima linea che lavorano con gli individui o i gruppi a rischio. Quinto, fornire in ciascuno Stato membro, programmi di sostegno al disimpegno della violenza e alla deradicalizzazione a favore dei membri di gruppi estremisti. Sesto, cooperare più strettamente con la società civile e con il settore privato, per rispondere alle sfide che provengono da Internet e dalla rete. Settimo, rafforzare la capacità di reazione delle vittime, incoraggiare i giovani ad esercitare il loro spirito critico nei confronti dei messaggi estremisti e intensificare la ricerca sulle tendenze della radicalizzazione. Infine, decimo, collaborare più strettamente con i Paesi al di fuori dell'Unione europea.
Inutile, affermare che l'Italia non può permettersi di restare isolata e fuori da questa strategia comune. Al contrario, con questa mozione si vogliono, a mio avviso, avviare misure di deradicalizzazione di carattere socioculturale, di prevenzione contro l'estremismo violento e il terrorismo. Occorre valorizzare il ruolo degli educatori, occorre creare una vera e propria rete sociale che sappia includere, ascoltare, differenziare, proprio nella direzione di uscire dall'isolamento. Dalla formazione scolastica si deve partire per radicare un cambiamento di cultura teso alla tolleranza e al multiculturalismo come valore aggiunto per il nostro vivere quotidiano. Oltre alle necessarie e imprescindibili politiche di contrasto al terrorismo, il nostro Paese ha bisogno d'invertire quel di ghettizzazione, linfa vitale per il fondamentalismo religioso. L'Italia a cui è unanimemente riconosciuto un enorme spirito umanitario in tutte le missioni di è in ritardo nella stratificazione di una cultura multiculturale di integrazione. Siamo un grande popolo, che ha fatto dell'eterogeneità il suo più grande valore e proprio su questi valori dobbiamo costruire una nuova società, più inclusiva, più aperta e proprio per questo più sicura. La storia ci ha insegnato che i muri che separano non risolvono i problemi e probabilmente ci insegnerà che questa guerra la si vincerà non con le armi, ma proprio con la prevenzione. Sarà un cammino lungo, che per di più, si articolerà per strade ancora da costruire, ma si tratta di un cammino obbligato. Io penso che ci dobbiamo credere e dobbiamo anche ricordarci, nel crederci, che non siamo soli.
Tanti sono gli insegnamenti di ieri e di oggi che ci affiancano, come quello di Fernand Braudel, che vale per il nostro modo di agire, per cogliere il modo giusto di agire, secondo cui la storia si fa, si interpreta e si racconta – e in questo caso parliamo di questa storia attraverso il dialogo tra tutte le scienze umane – o come quello di Bauman, che vale per determinare l'orizzonte del nostro agire, che proprio oggi sulle pagine di ci dice che siamo chiamati a unire e non a dividere. Qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell'immediato, a lungo termine la solidarietà rimane l'unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire successivamente.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.